Lo Yogi: un semplice essere umano

Cosa è cambiato in me da quando pratico Yoga? Come ogni Yogi, mi sono fatta più volte questa domanda, soprattutto quando le circostanze della vita mi hanno riportato un passo indietro rispetto ai progressi che credevo di aver fatto. No, non parlo di progressi fisici – gambe dietro la testa, posizioni sulle mani, o altri “contorsionismi” con validissimi aspetti terapeutici che, diciamocelo, danno comunque parecchia soddisfazione anche al nostro ego. Parlo più che altro di progressi mentali: una maggiore calma, una accentuata capacità di concentrazione, e l’abilità di relazionarsi agli altri senza farsi influenzare dalla loro situazione emotiva e/o energetica, ma mantenendo il proprio equilibrio. Tutte capacità che sicuramente la pratica yogica migliora con il tempo e la costanza. Ma dire che la pratica yogica ha eradicato completamente i miei tratti caratteriali peggiori sarebbe una bugia. Sicuramente mi ha reso più consapevole di questi aspetti, e mi aiuta quotidianamente ad affrontarli: ma li ha cancellati? La risposta è no. E aggiungerei: per fortuna. Penso ad uno degli aspetti più importanti della mia personalità: una forte emotività, che a volte mi porta a reagire in modo molto istintivo – come un felino ferito che, in risposta al dolore, tira zampate a casaccio e quando va a segno… beh, qualche graffio lo lascia. Bene, questo aspetto non è sparito. E’ ancora lì, vivo e vegeto, e torna anche quando meno me lo aspetto. Quello che la pratica yogica ha sicuramente fatto per me è rendermi consapevole che queste reazioni sono temporanee, non così importanti come sembrano al momento, e soprattutto che provarle ancora non mi rende meno meritevole né indica che lo yoga non funziona. Non saliamo tutti sul tappetino per diventare dei rinunciatari – dei sannyasin, degli swami, o più semplicemente degli eremiti. Essere uno yogi non significa che non perderemo mai più le staffe con il prossimo. Sicuramente però, praticare yoga ci aiuterà a recuperare l’equilibrio prima di quanto accadrebbe senza la pratica. Sicuramente ci aiuterà a riconoscere le nostre debolezze anche negli altri, e a perdonarle e accettarle senza giudizio. Sicuramente, come yogi avremo a disposizione uno strumento da usare al momento giusto, per tornare ad uno stato di calma e anche per indagare sulle cause profonde che ci hanno portato a reagire ancora secondo schemi che credevamo di aver superato. La pratica fisica ci aiuterà ad eliminare più rapidamente le tossine emotive che le situazioni di stress continueranno a causarci, e la pratica della meditazione ci aiuterà a calmare le onde sulla superficie agitata della nostre mente. Con gli anni, se proseguiremo nella pratica, se avremo la fortuna e la volontà di poterle dedicare il tempo che merita, queste capacità aumenteranno ma, più di ogni altra cosa, aumenterà la nostra capacità di riconoscere negli altri le nostre stesse debolezze. Riusciremo ad accettarle, a non prenderle in modo troppo personale, e a lasciarle andare. Fino alla prossima volta: perché siamo solo esseri umani. Quindi, la prossima volta che qualcuno vi fa perdere la pazienza, o apostrofa una vostra reazione con la classica frase: “Ma come? Non pratichi Yoga?”… potete rispondergli che il cammino per l’illuminazione è lungo, e che ciò che conta è continuare a provarci.
Buona pratica e buon weekend!

Le anche, sede delle emozioni

In questi giorni sto preparando un workshop dedicato alle asana che possono favorire l’apertura delle anche, area del nostro corpo spesso costretta in posizioni innaturali dal nostro stile di vita. Oltre a selezionare asana e ideare sequenze adatte al rilassamento e all’apertura della pelvi, mi sto interrogando sul rapporto tra simbologia e anatomia di questa zona così importante del nostro corpo.

Nella pratica Yoga, diventiamo consapevoli della nostra tendenza a trattenere tensioni emotive in diverse parti del corpo: le anche, tuttavia, meritano particolare attenzione in quanto associate in modo particolarmente intenso al bagaglio emotivo individuale. Molti maestri si riferiscono a quest’area come alla sede di emozioni con cui non vogliamo confrontarci – e in effetti questa zona così centrale, così legata al concetto di apertura eppure di così difficile accesso, è il luogo perfetto per nascondere i sentimenti “negativi”. Ma dal punto di vista fisiologico, come è possibile che il nostro bagaglio emotivo finisca proprio nelle anche?

Sul piano simbolico e fisico, possiamo considerare la centralità di questa zona in relazione al nostro corpo. Vero e proprio centro di gravità nel corpo femminile, quest’area è facilmente associabile alle emozioni che è in grado di contenere; anche per l’uomo, comunque, la pelvi è la sede del movimento, la base di un corretto allineamento, equilibrio e postura. E’ in quest’area che il nostro sistema nervoso periferico, coinvolto nella stimolazione della risposta emotiva oltre ad altre funzioni, stabilisce le connessioni necessarie a sostenere la sopravvivenza nei momenti di stress emotivo. Fin dalla nascita, la risposta del sistema nervoso simpatico può stimolare una forte contrazione dei flessori del corpo, avvicinando le costole agli organi interni e portando le ginocchia al petto (la famosa posizione “fetale”). In questa azione i muscoli delle anche, in particolar modo il complesso dell’ileopsoas, si attivano istintivamente, impedendone l’apertura. Lo psoas è un muscolo unico in quanto è l’unico muscolo che connette la colonna vertebrale alle gambe, ed è direttamente connesso al sistema nervoso centrale che attraversa la colonna vertebrale fino al cervello. Lo psoas è inoltre connesso al diaframma tramite la fascia (tessuto fibroso): vediamo quindi come questo muscolo sia importante anche nell’attività respiratoria.

Questi cenni anatomici rendono abbastanza facile comprendere la relazione tra le anche e i riflessi istintivi associati alla paura e allo stress. Le anche sono sorrette dai muscoli più forti del nostro corpo, e possono sostenere in un istante tutta l’energia necessaria ad esprimere il potenziale cinetico del corpo. Tuttavia, sono rari i casi in cui questa possiamo esprimere questa potenza quando siamo sottoposti a stress – e dobbiamo accontentarci di reagire da umani del XXI secolo. La rigidità che spesso incontriamo nelle anche è spesso dovuta all’incapacità di rilassamento dei muscoli, soggetti a ripetute contrazioni da stress meccanico o psicologico. Questa rigidità inibisce ulteriormente il rilassamento perché quando lo psoas è contratto, la respirazione addominale profonda è compromessa: e sappiamo bene come il respiro sia, soprattutto nello Yoga, la chiave  di accesso al raggiungimento di uno stato di calma.

Ecco perché le posizioni che tendono ad aprire le anche diventano, soprattutto per noi occidentali, di grande importanza. Oltre a rendere la nostra postura più rilassata, il lavoro svolto su quest’area favorisce la respirazione e la risoluzione di emozioni che non vogliamo affrontare – o che magari abbiamo inconsapevolmente seppellito. Vi aspetto quindi sul tappetino il 1 marzo, presso Love Light Joy in via dei Crollalanza a Milano, per esplorare insieme le sequenze più adatte al rilassamento e all’apertura di quest’area in modo creativo, fluido e gioioso. Il workshop sarà diviso in due sezioni, una dedicata a chi si avvicina ora allo yoga, e l’altra a chi pratica da tempo e vuole esplorare nuove sequenze, accessibili ma impegnative. A presto!

Non di soli asana…

E’ innegabile che gli asana siano da sempre l’immagine più immediatamente riconoscibile dello Yoga, soprattutto in occidente. Soprattutto per chi pratica Ashtanga e Vinyasa Yoga, gli asana, che sono una vera e propria meditazione in movimento, diventano a volte centrali nella pratica. Sappiamo tutti che il loro scopo è purificare il corpo ed allenarlo a mantenere per periodi prolungati una posizione seduta adatta alla pratica della meditazione, ma molto spesso tutti noi (me compresa!) rimaniamo “caught in the act”, affascinati dalla loro bellezza, dai loro effetti tonificanti, dalla loro capacità di rendere il nostro corpo forte e flessibile, e dagli effetti “anti-age” che la pratica fisica è in grado di regalarci.
Ma cosa fare quando il corpo resta vittima di uno dei tanti, possibili “impasse” della nostra vita? Senza asana, cosa possiamo fare?
E’ impensabile aspettarsi che, ogni giorno, il nostro corpo risponda come la nostra mente desidera e riesca a trasportarci con fluidità attraverso sequenze che solo ieri ci sembravano facilissime. Tanti sono i fattori che ci influenzano: malanni stagionali, incidenti, il passare del tempo, stress emotivi. Chi pratica ogni giorno sa come ogni singolo fattore incida in modo più o meno significativo sulla pratica delle asana. Eppure proprio in questi momenti “no” lo yoga ci viene in aiuto, con tutti gli altri magnifici aspetti di questa pratica. Uno fra tutti, il respiro: anche il pranayama più semplice può aiutarci a superare stress importanti o anche un semplice raffreddore. Per non parlare della meditazione, e soprattutto dei rami più spirituali della pratica (yama, niyama etc.) senza i quali salire sul tappetino diventa addirittura inutile, e riduce la pratica ad un mero esercizio fisico. Suggerisco sempre a chi pratica di non farsi scoraggiare dagli inevitabili stop del quotidiano. La pratica non è solo fisica, anzi: la pratica è salire sul tappetino sempre, ascoltarsi, fare ciò che è possibile fare (anche solo respirare, anche solo condividere l’energia degli altri presenti in sala) in quel momento. La pratica è essere nel momento presente, accoglierne le caratteristiche, osservarlo senza giudicarlo e soprattutto senza giudicare noi stessi. Non salite sul tappetino con spirito competitivo, né verso voi stessi, né verso il vostro vicino. Saliteci con predisposizione all’ascolto e all’amore verso sé stessi e gli altri. Saliteci dedicando ciò che potete fare quel giorno (anche solo un ciclo di pranayama, anche solo qualche minuto di meditazione) alla gratitudine. Questo è il meraviglioso regalo dello yoga, quello che nessuno potrà mai toglierci. E quando siamo in silenzioso ascolto di noi stessi, cose meravigliose accadono, dentro e fuori di noi.

Assistere gli asana: Jivamukti Yoga Assist

Un’immagine tratta dal libro “Yoga Assists” di S. Gannon & David Life

Un aspetto davvero interessante della pratica Yoga, e soprattutto della relazione tra insegnante e studente, è quello degli “aggiustamenti”, ovvero l’intervento fisico dell’insegnante sull’esecuzione di un’asana da parte di un allievo.

La parola “aggiustamento”, tuttavia, presuppone che lo studente stia facendo qualcosa di sbagliato e ha, quindi, un’accezione negativa. Secondo Sharon Gannon e David Life, creatori del metodo Jivamukti e autori, tra l’altro, del libro Yoga Assist (presto disponibile in italiano da OM Edizioni) sarebbe più corretto parlare di “assist”, un termine molto usato nelle discipline sportive e che si riferisce al concetto di assistenza. Una visione in cui la relazione tra insegnante e studente diventa un vero e proprio scambio energetico. Ogni asana è, in qualche modo, un momento di connessione del nostro corpo tra due poli energetici – durante l’esecuzione di una posizione, una parte del nostro corpo è a contatto con il suolo, l’altra tende verso l’alto: una metafora di quello che siamo, entità in equilibrio tra la dimensione fisica e quella spirituale. Quando interveniamo nell’assistere una posizione, il nostro intento deve essere quello di rendere questo contatto il più possibile fluido, in modo da consentire al corpo dello studente di fungere da vero e proprio conduttore di energia – verso il basso, in modo che le fondamenta siano solide, e verso l’alto, per non dimenticare che non stiamo lavorando solo sul piano fisico ma, attraverso il corpo, in direzione del piano spirituale. In quest’ottica, ogni intervento troppo “forzoso” rischia non solo di causare traumi fisici, ma anche di rendere lo studente privo di autonomia o di trasmettergli un senso di “incapacità”. Un altro aspetto molto importante degli assist nello yoga è il fatto che per molti studenti il tocco dell’insegnante, in particolari momenti della loro vita, può rappresentare l’unico contatto fisico della giornata. Diventa quindi particolarmente importante che l’insegnante sia consapevole della compassione che questo tocco deve avere, nel senso più alto della parola (ovvero partecipazione). A volte lo studente può avere bisogno di un intervento vigoroso, per risvegliare un blocco energetico, ma nella stragrande maggioranza dei casi, un semplice tocco dell’insegnante sul muscolo o sull’articolazione non allineata genera quasi istantaneamente una reazione spontanea verso la linea ideale dell’asana in esecuzione. Anche da questo punto di vista, lo Yoga differisce in modo sostanziale dalle discipline meramente fisiche. Penso molto spesso alle persone che si affannano in palestra (e l’ho fatto anche io per anni; prima di incontrare lo yoga, sono stata insegnante di danza e personal trainer) stabilendo un contatto solo con oggetti meccanici (tapis roulant, attrezzi, macchinari vari per stimolare i diversi muscoli del corpo). In un mondo in cui quasi ogni nostra relazione sembra affidata a mezzi inanimati (dal computer ai mezzi di trasporto), mi sembra oggi che lo yoga sia un sistema di grande importanza nel riscoprire un autentico rapporto con il nostro corpo, con il senso del corpo e i suoi stati evolutivi nelle diverse fasi della vita, e soprattutto un modo per riscoprire la relazione fisica con il corpo degli altri, che deve essere sempre e soprattutto basata sul rispetto e sull’amore. Per approfondire questo argomento, suggerisco a tutti la lettura del libro Yoga Assists di Sharon Gannon e David Life. Per chi non parla inglese fluentemente, ancora un po’ di pazienza: ci stiamo lavorando!

Buona pratica e buon weekend!

Predicare e praticare

Non è facile, per chi insegna, riuscire a mantenere una pratica quotidiana. Sebbene sia importante insegnare senza dimostrare, è inevitabile, soprattutto con il neofita, dimostrare quasi tutti gli asana, e sappiamo quanto dimostrare e parlare insieme renda impossibile una corretta respirazione: insomma, insegnare non è tutto rose e fiori! Eppure, praticare ogni giorno è lo strumento più importante che ogni insegnante ha a disposizione per essere realmente utile ai propri studenti e – anche e soprattutto – recuperare le energie disperse durante le lezioni.

Ogni giorno il nostro corpo cambia. Le nostre energie subiscono continue variazioni: non solo sono influenzate dal tempo che passa, ma anche dalle nostre relazioni interpersonali, da ciò che mangiamo, dalle stagioni, dalle ore del giorno; e naturalmente, dalle fluttuazioni della nostra mente.

Negli anni, la pratica individuale quotidiana è forse ciò che mi ha dato i mezzi più efficaci per interagire con gli studenti e capire le loro necessità, suggerendo sequenze adatte al momento che stanno vivendo. Siamo tutti passati, credo, attraverso mille fasi: dall’entusiasmo esagerato di chi inizia, agli inevitabili stop dovuti a strappi, incidenti, momenti particolarmente difficili sul lavoro o in famiglia. Eppure, nonostante queste difficoltà, salire sul tappetino tutti i giorni – indipendentemente dalla qualità o dalla durata della nostra pratica – è lo strumento giusto per comprendere il momento che stiamo passando e leggerlo attraverso il corpo. Lo yoga è una pratica spirituale che interpreta il corpo come “mezzo di trasporto” della nostra coscienza in questa dimensione: è inevitabile quindi in quest’ottica che ogni esperienza intellettuale o spirituale abbia risonanza sul nostro piano fisico.

Come possiamo intervenire sul corpo altrui se non sappiamo quali profondi cambiamenti opera la pratica su noi stessi? Un trauma alla schiena ci porta ad investigare profondamente gli aspetti anatomici delle asana. Momenti di grande nervosismo professionale ci spingono a cercare una soluzione nella pratica della meditazione, o nelle tecniche di rilassamento profondo. Ogni singolo istante della nostra vita e della nostra pratica ci offrono spunti per affrontare il quotidiano e aiutare chi si rivolge a noi come insegnanti.  Praticare inoltre ci costringe a scendere a patti con il nostro ego: a riconoscere i nostri limiti, e anche a fare un passo indietro quando non è il momento giusto per osare. Perché sappiamo che, se non siamo davvero pronti a volare, cadere è inevitabile. Lo abbiamo sperimentato su noi stessi. Solo così possiamo dare qualcosa a chi entra nella nostra Yoga Shala, e possiamo riconoscere sul suo volto gli stessi interrogativi che abbiamo noi, giorno dopo giorno, sul nostro tappetino. Practice what you preach: no less, and no more!

 

E’ ancora possibile avere un Guru? Parla Gregor Maehle

Quando si parla di Yoga, nella sua concezione più autentica e non solo nella visione occidentale moderna (che sembra concentrarsi sempre più solo sul suo aspetto più fisico) si pensa immediatamente alla figura del Guru, ovvero la guida spirituale che, come per magia, ci guiderà oltre i nostri limiti (fisici, ma in questo caso anche e soprattutto psicologici e spirituali), mostrandoci la strada verso la tanto agognata “illuminazione”. Ma abbiamo davvero bisogno di una figura esterna a noi stessi che ci porti verso la liberazione? Per rispondere a questa domanda, ho fatto un po’ di ricerche leggendo gli autori che in questo momento stanno maggiormente attirando la mia attenzione. Tra questi, Gregor Maehle, autore non solo di un interessantissimo blog, ma anche di due libri davvero eccezionali sull’Ashtanga Yoga. Traduco quindi una parte del suo post “The End of The Guru (part 1)” , che riassume un aspetto davvero fondamentale della ricerca spirituale che anima molti studenti di Yoga (e non solo).
Gregor Maehle, autore di Chintamani Yoga e numerosi libri
“Come accade nel mito dell’amore romantico, nel mito del Guru appare la figura del Maestro Spirituale che ci aspetta per rivelarci la nostra interezza. Sembra che a noi tocchi solo trovare quello giusto, per realizzare questo evento magico. Ma si tratta di una proiezione che finisce per toglierci ogni potere. Stiamo in pratica proiettando il potere di raggiungere un obiettivo spirituale su un agente esterno. Spesso, al centro di questa proiezione risiede un sentimento di inadeguatezza interiore, che forse ha origine dal sentirsi poco amati e sostenuti da una figura genitoriale (spesso dello stesso sesso del guru su cui proiettiamo queste sensazioni). Vorrei invitarvi ad abbandonare in modo radicale e totale questa proiezione, per accettare il fatto che voi, come qualsiasi Guru, per quanto potente e saggio possa apparirvi, siete stati creati ad immagine e somiglianza del Divino. Non esiste una sola persona in tutto il mondo che possa rifiutarvi l’ingresso al Giardino dell’Eden o alle Stanze Segrete dell’Altissimo, o al mitico Regno di Shangri-La. Nessuno, eccetto voi stessi. E non esiste alcun potere supremo se non il vostro che possa, ancora una volta, aprire quella magica porta per farvici tornare. In realtà, non esiste alcuna porta da aprire, perché non siete mai usciti da questi Luoghi Spirituali. Tutti noi siamo nati in uno stato di eterna grazia e unione con il Divino, che è onnipotente, eterno ed infinito. Questo stato non è qualcosa che noi, o nessun altro essere umano, neanche un Guru, può fare o disfare.  Ciò che possiamo fare, tuttavia, è decidere di vivere ignorando la nostra unione con il Divino. Possiamo trovare tutte le giustificazioni del caso: possiamo dire a noi stessi che non siamo meritevoli, che abbiamo peccato, che la nostra mente non riesce a liberarsi del pensiero, che abbiamo bisogno di più soldi, di più amore, di diventare più bravi nell’esecuzione delle asanas, di meditare più a lungo. Ma siamo sempre e solo noi a costruire queste mura immaginarie. Ritenendo di essere impotenti, cerchiamo un genitore o un Maestro su cui possiamo proiettare il potere che pensiamo di non avere.  Ma si tratta in realtà solo del nostro potere, esternato e proiettato su qualcuno al di fuori di noi. Bramiamo l’incontro con questa figura paterna o materna, e la figura si materializza prontamente nel Guru, come accade nelle relazioni sentimentali in cui abbiamo fallito. Quando siamo in presenza del guru, come di un partner sentimentale idealizzato, ci sentiamo una cosa sola con il Divino, ci sentiamo consapevoli della Consapevolezza (scegliete voi la versione che preferite). Ma il potere dietro questa sensazione è solo il nostro: siamo noi a permettere che questo stato esistenziale si manifesti alla presenza del Guru, perché non autorizziamo noi stessi a provare questa stessa sensazione alla nostra sola presenza. Un buon maestro spirituale ci darà gradualmente gli strumenti e le pratiche necessarie a sostituire la presenza del guru. Alcuni insegnanti ci insegneranno anche a disfarci di tutto ciò che abbiamo creato e che non ci serve più – ma sono solo aspetti semantici. Ciò che importa è che l’insegnante sappia rendere se stesso (o se stessa) obsoleto, riducendo gradualmente la dipendenza dal maestro con l’indipendenza del “sé” dello studente. E questo ci porta all’affermazione di Ramana Maharshi, “il Guru e il Sé sono la stessa cosa”. Il cammino spirituale è una strada verso se stessi, alla ricerca del guru originario, di cui tutti i guru sono solo un riflesso. Il Guru che risiede nei nostri cuori”.

“Guru Brahma, Guru Vishnu, Guru devo Maheshwara,
Guru sakshat, param Brahma, tasmai shri guravay namah”

7 febbraio 2015, n.d.t.
Torno ancora una volta sull’argomento trattato da Gregor Maehle sul suo blog (tradotto e postato ieri). Ci torno per dire che sebbene concordi pienamente con la sua visione del Guru Interiore (tant’è che “The Guru Within” è la definizione del mio credo), sono esistiti senz’altro Guru autentici, Maestri che hanno saputo fare la cosa più importante che un Maestro deve fare: ovvero NON rendersi indispensabili, rimanendo però indelebili nel cuore e nell’anima degli studenti, persino di quelli studenti che non li hanno mai incontrati personalmente, ma che hanno solo incontrato i suoi insegnamenti. Per me, questo Guru è Sri K. Pattabhi Jois. Ciò che quest’uomo ha saputo fare per lo Yoga contemporaneo è davvero incredibile. Ha creato un metodo (l’Ashtanga Vinyasa Yoga) che ha le sue radici profonde nello Yoga di Patanjali, lo ha reso moderno e adatto a chiunque e in tutto il mondo. Un metodo talmente perfetto da essere terapeutico sul piano fisico, mentale e spirituale; talmente perfetto da poter essere appreso e praticato e approfondito anche in sua assenza (grazie al geniale stile Mysore). Da poter essere studiato, compreso, e infine solo e semplicemente amato, a tutte le età e in qualsiasi condizione fisica. Un metodo che l’età non scalfisce, anzi, che l’età arricchisce, perché giorno dopo giorno su quel tappetino ci rivela qualcosa di nuovo su noi stessi. Un metodo che può essere modificato, aggiornato, interpretato ma che alla fine torna sempre a se stesso, proprio come noi cambiamo, ci evolviamo, ma alla fine torniamo alla nostra natura originaria – a ricongiungerci con l’Uno. Quindi per quanto mi riguarda, un Guru c’è, anche oggi che non c’è più. Grazie Guruji.

Vinyasa Basics: equilibrio sulle braccia

Arm balances, ovvero posizioni di equilibrio sulle braccia. Ma quanto contano davvero le braccia in queste posizioni che sembrano sfidare la forza di gravità? In realtà, i muscoli che davvero entrano in gioco in queste posizioni sono i cosiddetti “core muscles”, ovvero i muscoli profondi dell’addome. Cercare di raggiungere queste posizioni con la sola forza delle braccia, oltre a creare un notevole scompenso sulle articolazioni di spalla, gomito e polso, ci fa perdere il vero senso di queste asanas: ovvero il controllo dei bandha e lo sviluppo armonico di tutta la muscolatura superiore del corpo (particolarmente utile per le donne). Queste posture, inoltre, rappresentano una sfida alla nostra paura di cadere (in senso letterale e metaforico), e una volta conquistate, sono un vero e proprio toccasana all’autostima. Consiglio a tutti coloro che desiderano sperimentarle, di costruire con pazienza la forza necessaria. Inutile tentare Parsva Bakasana (il Corvo laterale) se ancora non riusciamo ad eseguire correttamente Chaturanga Dandasana: se non riusciamo a mantenere Chaturanga per almeno 15-20 respiri, tentare una posizione di equilibrio sulle braccia è inutilmente rischioso. Altrettanto importante è il controllo dei muscoli profondi dell’addome.

Tittibasana: Mula Bandha in azione!

La spinta per mantenere Astavakrasana e Tittibasana (vedi immagini) nasce proprio dalla capacità di “sentire” Mula Bandha e Uddiyana Bandha. Suggerisco quindi di partire intensificando la tenuta delle diverse variazioni di Navasana (posizione della Barca). Ricordo sempre a chi pratica con me che è importante comprendere la differenza tra Uddiyana Bandha e il semplice utilizzo del muscolo retto addominale. Uddiyana Bandha è un’azione più delicata (ma dal potere incredibile): a chi si avvicina a questa pratica suggerisco di immaginare di risucchiare l’ombelico verso la colonna vertebrale al termine di una espirazione, e di mantenere questa azione per tutta la pratica. Immaginiamo di infilare e chiudere un paio di jeans stretti. Ecco, l’azione è proprio quella! Un altro aspetto fondamentale per il raggiungimento delle posizioni di equilibrio sulle braccia è la capacità di flessione delle anche. Soprattutto in Tittibasana, l’apertura delle anche è fondamentale per evitare di compromettere la muscolatura lombare (che non deve entrare in gioco). In questo caso, una buona partenza può essere Malasana, il cosiddetto squat yogico, che progressivamente ci consente di testare la nostra capacità di mantenere le anche in flessione. Una volta preparato adeguatamente, il nostro corpo potrà entrare in queste posizioni che ci fanno sentire leggeri, e ci danno la sensazione di volare. Anche, e soprattutto, oltre le nostre paure!

Astavakrasana, un arm balance più semplice di quanto si pensi!

Yoga da leggere

Leggere lo Yoga: un’attività talmente importante, che persino la Yoga Alliance ne riconosce il valore, considerando le letture di testi didattici e di saggi filosofici alla stessa stregua di workshop e seminari di aggiornamento. La cosidetta “continuing education”, infatti, non può prescindere dalla lettura, che è un momento di approfondimento personale che arricchisce e apre nuove strade a chi pratica. Recentemente, tre libri mi hanno particolarmente colpito e desidero consigliarli a chiunque pratichi Ashtanga e Vinyasa Yoga.

Il nuovo libro di Ray Long, presto disponibile  in italiano

Il primo sarà presto disponibile in italiano (e sono onorata di averne curato l’editing per OM Edizioni): si tratta di “Vinyasa Flow and Standing Poses” di Ray Long. Praticante, insegnante e medico, Ray Long, autore di un blog seguitissimo da chi pratica Vinyasa Yoga, ha costruito una collana di libri a mio parere di inestimabile valore per l’approccio anatomico particolarmente creativo. I suoi suggerimenti pratici rendono l’anatomia applicata allo Yoga un argomento vivo, basato sull’esperienza diretta, e sono ricchi di spunti da utilizzare sia durante la pratica personale che durante l’insegnamento. Il secondo testo è un testo di Sharon Gannon e David Life, creatori del metodo Jivamukti, il mio stile d’elezione: si tratta di Yoga Assists, un manuale innovativo all’assistenza nell’esecuzione delle asanas. Ne sto curando la traduzione per OM Edizioni in questi mesi e sarà bellissimo rendere questo testo disponibile anche a chi non parla inglese. Oltre a fornire spunti davvero innovativi nei cosiddetti “aggiustamenti”, il libro presenta un’interpretazione delle posizioni anche in chiave psicologica: un approccio come sempre all’avanguardia per questi due grandissimi insegnanti.

Un’immagine tratta da Yoga Assists di S. Gannon e David Life

Affrontare gli asana comprendendone anche gli aspetti psicologici ci aiuta a comprendere quali blocchi dobbiamo affrontare, non solo sul tappetino, ma anche e soprattutto nella vita.

Scoprire la mitologia dell’Ashtanga con G. Maehle

Infine, l’ultimo testo che ha colpito la mia attenzione, e che vi consiglio di leggere (su questo libro sto passando ore di lettura davvero felici) è The Intermediate Series: Mythology, Anatomy and Practice di Gregor Maehle. Gregor pratica Ashtanga Yoga da oltre 30 anni, e il suo approccio affronta in modo particolarmente dettagliato l’aspetto filosofico di questa pratica, rivelandone le radici nella più autentica mitologia indiana. Per ora disponibile da leggere solo in inglese (ma chissà che non arrivi una bella sorpresa per i lettori italiani), questo testo è davvero una perla per chi vuole approfondire “la madre di tutte le pratiche” sotto il suo aspetto più spirituale.

Mi auguro di aver fornito a tutti qualche spunto interessante! Questi autori contemporanei offrono agli Yogi e alle Yogini di tutto il mondo strumenti davvero inestimabili per arricchire la nostra pratica. Leggere è fondamentale, soprattutto quando non ci è possibile accedere con continuità ad un insegnante di riferimento.

Buona lettura e buona settimana!