Una pratica sostenibile

E’ innegabile che in Kali Yuga l’enfasi sugli aspetti superficiali di qualsiasi pratica Yoga finiscano per “rubare la scena” alla parte più spirituale che, non dobbiamo dimenticarlo, fino a pochi decenni fa era predominante. Da ragazza, ricordo che il solo nominare la parola Yoga portava alla mente immagini di personaggi seduti nella posizione del loto a meditare: l’idea che lo Yoga potesse includere aspetti atletici era lontana mille miglia dalle nostre  (e dalla mia!) menti. Mi sono avvicinata allo Yoga vent’anni fa con un battesimo del fuoco: un seminario di Ashtanga Yoga tenuto da Hamish Hendry a Londra, dove vivevo. Allora gli insegnanti europei certificati da Sri K. Pattabhi Jois erano una manciata, e ricordo ancora che TriYoga (uno dei centri Yoga più noti di Londra) aveva avuto reclami dal vicinato perché la respirazione Ujjayi degli studenti risuonava così forte nel cortile da preoccupare gli inquilini! Certo oggi, grazie anche alla incredibile velocità di comunicazione dei social networks, è evidente a tutti che lo Yoga include una componente fisica importante, soprattutto se pratichiamo le sue forme più dinamiche (Ashtanga, Jivamukti, Vinyasa, Anusara, Integral, etc.). Ed è altrettanto probabile che, in molti casi, ci si identifichi con la pratica di alcune asana o sequenze, dimenticando che ogni giorno il nostro corpo cambia, si evolve, attraversa cicli di energia molto diversi e dipendenti da mille fattori (stress improvvisi, alimentazione, situazioni lavorative particolarmente difficili, gravidanze e così via). Diventa molto importante quindi imparare ad attuare anche un processo di disidentificazione non tanto dalla pratica fisica, che anzi deve accompagnarci tutta la vita, ma dalla “performance”. Credo che uno dei concetti più complessi da trasmettere oggi, quando si insegna, sia proprio quello di una pratica NON competitiva. Una pratica quindi mirata non tanto al raggiungimento di determinate asana o di una determinata “perfezione” di quell’asana, né a ciò che fa il vicino di tappetino, bensì all’ottenimento di un’asana (e conseguentemente di una sequenza) “perfetta” per il nostro livello di energia, per la nostra età, per lo stato di salute del nostro corpo in quel preciso momento. E’ sicuramente importante progredire anche fisicamente, e i risultati delle sequenze Yoga diventano con il tempo evidenti non solo sull’apparato muscolo-scheletrico ma anche sugli organi interni: ma questo progresso deve essere individuale, e non l’inseguimento di un’immagine esterna, magari scoperta su un social network o su un video youtube. Io stessa sono stata, soprattutto all’inizio della mia pratica, “vittima” di questa trappola dell’ego. Volevo a tutti i costi raggiungere certe asana, forzando il mio corpo oltre limiti per cui non era ancora preparato. In questo, lo Yoga sa essere un maestro anche assai severo: dopo una serie di infortuni ho capito che il processo era interno, non esterno, e automaticamente, slegandomi dall’idea tutta occidentale del raggiungimento di un obiettivo, tante asana e sequenze sono magicamente arrivate, quasi senza sforzo. Proprio come quando si smette di aspettare un autobus in perenne ritardo, e lo si vede sbucare dall’angolo della strada.
Tutto questo per suggerire a chi pratica da poco di non rincorrere risultati impossibili, non crearsi aspettative inadeguate, ma piuttosto cercare una pratica sostenibile: ovvero una pratica che sia piacevole, che ci faccia venire voglia di salire sul tappetino ogni giorno, nella certezza che quando ne scenderemo saremo carichi di energia e non stremati come dopo una maratona. Lo Yoga ha di meraviglioso proprio questo: praticando, ci mettiamo in ascolto del nostro corpo e impariamo a conoscerlo. La mente non diventa più un “controllore spietato” ma, finalmente, uno strumento di comprensione. La fusione tra questi due meravigliosi veicoli che ci accompagnano nel nostro viaggio terrestre è il regalo più bello della pratica. Quando ci sentiamo stanchi, stressati, quando stiamo attraversando una fase di trasformazione (gravidanza, menopausa, il recupero dopo un infortunio) parliamone con il nostro insegnante, chiediamogli un consiglio per adattare la nostra pratica al momento che stiamo attraversando. Pensiamo sempre a lungo termine, a costruire passo dopo passo la nostra forza e la nostra flessibilità. Ricordiamo che le tensioni accumulate fino ad oggi sono il prodotto di anni e non sono risolvibili in poche lezioni. Impariamo a trattarci con amore e con rispetto. E soprattutto, rendiamo il nostro rapporto con chi ci trasmette lo Yoga un dialogo attivo: chiediamo, sempre, per imparare a camminare a lungo su questo meraviglioso percorso. Buona pratica!

E voi, meditate?

Per molti anni, pur praticando Yoga tutti i giorni, ho pensato che la meditazione mi sarebbe stata inaccessibile.

Riuscivo a praticare asana per ore, e a riposare in Savasana, ma restare immobile per più di qualche minuto, tentando di meditare era… praticamente impossibile. Appena terminata la pratica delle asana (che, nel caso di alcuni metodi, diventa una meditazione in sé, come nel caso dell’Ashtanga Yoga) e trascorso qualche piacevole istante in Savasana, il mio corpo sembrava rifiutarsi di restare semplicemente lì, in ascolto. La mente poi… sembrava riprendere il suo fluttuare da un pensiero all’altro in un attimo. La svolta è arrivata grazie ad una frase di Sharon Gannon (fondatrice, insieme a David Life, del metodo Jivamukti). Una vera chiave di volta: “La meditazione non è qualcosa che possiamo ‘fare’, perché arriva da sola. Tutto quello che possiamo fare è semplicemente praticare per favorire questo evento”. Immediatamente, l’ansia da risultato è sparita. Il fatto di porsi senza aspettative non tanto verso la meditazione, ma verso una “pratica” per arrivare alla meditazione, mi ha aiutato a superare un blocco importante. Non cerco più di controllare la mente, bensì la lascio semplicemente andare per conto suo, ponendomi nello stato di osservatore dei miei stessi pensieri. Nel momento stesso in cui decidiamo di non identificarci con i nostri pensieri, ma di osservarli come quando andiamo al cinema ed osserviamo le immagini scorrere su uno schermo, in quel preciso istante cominciamo a percepire la mente come un “prodotto” del nostro essere, e non come la nostra essenza. Questa “disidentificazione” è un buon punto di partenza per cominciare ad avvertire un senso di pacifico distacco dalle preoccupazioni del quotidiano. Devo dire che, personalmente, trovo più accessibile meditare dopo la pratica delle asana. Il corpo è più flessibile e caldo, e la posizione seduta diventa immediatamente confortevole: per chi, come me, ha subito diversi infortuni nel corso di una vita sportiva particolarmente attiva, la pratica delle asana serve appunto a questo, a tacitare i rumori di fondo del corpo, attivare la circolazione anche nelle aree più deboli, trovare la posizione più adatta alla quiete. Solitamente, io medito dopo Savasana. Con il corpo libero da ogni tensione, seduta in Siddhasana, la meditazione mi diventa più accessibile. Preferisco il silenzio o, al limite, una sinfonia ripetitiva, o ancora l’ascolto di un mantra. Non mi creo aspettative, ma trovo utile, almeno inizialmente, individuare una frase positiva, legata al concetto di amore universale, da ripetere mentalmente quando avverto un indizio di distrazione. Trovo invece fuorvianti le pseudo-meditazioni d’ispirazione new age, che sconfinano nel “pensiero magico”, caricando di aspettative egoistiche il raggiungimento di quello che dovrebbe essere un momento di fusione assoluta con il Tutto. E’ vero che meditare (o meglio praticare la meditazione) ha grandi benefici sulla qualità della nostra vita. Ma questi benefici non sono legati al porre alla nostra meditazione un obiettivo o un fine materiale. La meditazione in sé non porterà ricchezza materiale nella nostra vita, né il ritorno di un perduto amore. O meglio, forse sì: ma questo, se mai dovesse accadere, avverrà perché il nostro stato mentale sarà più equilibrato, dunque ci porremo nei confronti della nostra vita professionale e/o sentimentale con maggiore serenità e meno aspettative. Meditare non significa cercare di manipolare la realtà ma, piuttosto, entrare in sintonia con il flusso della vita, abbandonare il desiderio di controllare ogni cosa per accogliere gli eventi, per quanto possibile, con maggiore equilibrio. Non sempre avremo successo in questo obiettivo di per sé importantissimo, ma almeno ci avremo provato. E voi, cosa ne pensate?

Oltre la Prima Serie: è il momento giusto?

Torno a tradurre a beneficio (spero!) di tutti gli Ashtangi un articolo molto interessante pubblicato da Louise Jolly sul blog di Ashtanga Brighton. Ringrazio inoltre Lucia Coghi, che gestisce l’Ashtanga Yoga Discussion Group su Facebook, e Hannah Moss, che lavora presso la Shala di Brighton per aver portato alla mia attenzione questo interessante punto di vista. Si parla dell’introduzione delle posture della Seconda Serie nella pratica di chi non ha ancora completato perfettamente la sequenza della Prima Serie. E’ giusto? E’ sbagliato? Sono molti gli Ashtangi che, nel corso della loro vita, praticano prevalentemente la Prima Serie di questo splendido metodo, perché per motivi fisici, o di tempo, non riescono ad andare oltre seguendo il metodo tradizionale – che prevede l’avanzamento della pratica e l’assegnazione di nuove posizioni solo in seguito al perfezionamento (ovviamente secondo le possibilità individuali) delle asana della Prima Serie.
La stessa autrice del post tiene a precisare che sono ancora molte le sfide che la Prima Serie le pone: ad esempio ancora l’impossibilità di “chiudere” Supta Kurmasana, o di salire in piedi dai backbends, e così via.
Quindi come mai Louise ha deciso comunque di inserire asana della Serie Intermedia nella sua pratica, invece che continuare a perfezionare quelle della Prima Serie? Nancy Gilgoff, grande insegnante di Ashtanga Vinyasa Yoga, ha una risposta. A suo parere la Prima e la Seconda Serie possono essere utilizzare per bilanciare la propria pratica. Secondo Nancy, la nostra salute fisica e psichica può avere grande beneficio dalla pratica di queste due serie fin dal momento in cui siamo in grado di praticare sincronizzando asana e respiro. Se sostiamo troppo a lungo nella Prima Serie, cercando di perfezionare le varie asana, rischiamo di esporci agli infortuni che possono essere provocati dalla costante ripetizione delle flessioni in avanti presenti nella sequenza.

Un processo di guarigione.

Louise Jolly ha avuto modo di fare esperienza diretta di quanto esposto nel suo articolo (e aggiungo una nota personale: anche io!). Dopo aver praticato da sola per molti anni la Prima Serie, Louise ha riportato una infiammazione costante nella zona lombare della colonna, e dolori alle ginocchia. A questo punto Nancy le ha insegnato le posture della seconda serie incoraggiandola ad alternarle alla prima. In breve tempo, questi dolori sono scomparsi e il corpo di Louise è diventato più forte. La sua pratica era più bilanciata, e comprendeva le backbends della Seconda Serie che bilanciavano le molte flessioni della Prima.

Una nuova apertura

Anche gli aspetti mentali ed emotivi legati alla pratica della Seconda Serie si sono rivelati importanti. Una persona calma, introversa, può riscontrare un’esacerbazione di questi tratti caratteriali da un’eccessiva pratica della sola Prima Serie: le tante flessioni tendono infatti a dirigere internamente le proprie energie. Di contro, l’apertura della parte anteriore del corpo legata alle asana della seconda serie favorisce una maggiore connessione con il mondo esterno.

Liberarsi dagli ostacoli della mente

Kapotasana
Un’ulteriore vantaggio della pratica della Seconda Serie è la liberazione dalla paura. Paura di asana considerate “troppo” per chi ancora è alle prese con la Prima Serie. Praticarle o almeno tentare di farlo, con regolarità, elimina questa sensazione di paura. E questo si traduce anche nella vita: troviamo il coraggio di “provare”, di darci una chance. Anche se non riusciamo ad essere “perfetti” nella posizione.

In breve, praticare la Seconda Serie ha per Louise Jolly mille risvolti positivi: fisici, mentali ed emotivi. Nel suo caso specifico, la Seconda Serie le è stata di aiuto nel recupero dagli infortuni che aveva riscontrato, e le ha dato la forza di “sfidare” la pratica. Studiare con Nancy, che le ha trasmesso questo approccio, le è stato di grandissimo aiuto anche nell’affrontare i viaggi a Mysore per studiare con Sharath. Chi desiderasse approfondire questi aspetti può leggere l’articolo di Nancy Gilgoff “Ashtanga Yoga as it Was“.

(Fonte: Ashtanga Yoga Brighton – Louise Jolly)

Ashtanga Yoga masters: Greg Nardi

Conobbi Greg Nardi nel 2007, durante un lungo soggiorno a Miami per approfondire lo studio dell’ Ashtanga Vinyasa Yoga. Il Miami Life Centre si rivelò subito un luogo eccezionale. Greg, insieme a Tim Feldmann e Kino MacGregor, era all’epoca co-fondatore dello spazio e le sue classi erano intense, profondamente spirituali, accompagnate da canti in Sanscrito. Ricordo ancora la splendida energia della Shala, la dedizione di tutti gli insegnanti, il senso di condivisione della pratica con tutti gli studenti che partecipavano alle lezioni. La pratica mattutina con Greg divenne subito un appuntamento irrinunciabile. Ogni volta, la pratica insieme a Greg mi regalava un passo avanti, la comprensione di un ostacolo, il modo per superarlo. E soprattutto, Greg riusciva a trasmettermi la pratica come un’autentica meditazione in movimento. Da allora ho sempre pensato a Greg Nardi come ad uno dei miei insegnanti di riferimento, perché la sua grande generosità durante l’insegnamento era riuscita a farmi comprendere il senso della pratica, la capacità di questo metodo di fondere corpo, mente e spirito in un’unica entità, in pura energia. Negli anni io e Greg siamo sempre rimasti in contatto, ne ho seguito il cammino, che lo ha portato a diventare un Insegnante Certificato Livello 2 direttamente da Sri K. Pattabhi Jois e Sharath Jois, e a fondare Ashtanga Yoga Worldwide, un’organizzazione che si pone come obiettivo l’insegnamento tradizionale di questo meraviglioso metodo, decodificandolo per gli studenti occidentali di qualsiasi livello. La mia gratitudine per la sua disponibilità a visitare la nostra Yoga Shala nella provincia lombarda, a portare la sua luce, la sua energia anche qui, dove la pratica è ai suoi inizi, è un dono grandissimo. Per i nostri studenti, che affrontano con dedizione ogni giorno la pratica, che l’hanno accolta con il cuore aperto, è l’opportunità di studiare con uno dei migliori maestri al mondo, dalla grande sensibilità. E’ la certezza di approfondire questo metodo, di fare un significativo passo avanti nella pratica, sul tappetino e nella vita. Gli insegnanti che si sono avvicinati all’Ashtanga Vinyasa attraverso il diretto insegnamento di Guruji e Sharath offrono sempre incredibili spunti per il miglioramento della nostra pratica. Greg fa parte di questo gruppo di persone eccezionali e mi sento davvero onorata dalla sua grande disponibilità nei confronti degli studenti di RespiraYoga, che stanno crescendo avvicinandosi ad Ashtanga e Vinyasa Yoga con la loro meravigliosa energia e curiosità. Trascrivo una recente intervista a Greg perché trovo davvero interessante il suo cammino nello Yoga. Greg ha iniziato a soli 22 anni e sarebbe davvero meraviglioso se anche in Italia i giovani entrassero nelle Yoga Shala per apprendere i grandi benefici fisici, psicologici e spirituali di questa disciplina millenaria. Una grande opportunità per Busto Arsizio e dintorni per conoscere lo Yoga da un grande maestro: tutti i dettagli per partecipare al seminario di Greg sono sul mio sito. Ricordo inoltre che Greg presiederà una conferenza gratuita di introduzione al workshop l’11 maggio alle ore 19:00. Prenotate i vostri spazi, i posti sono limitati!

 
Greg Nardi, Guruji e Sharath: gli inizi

D: Come ti sei avvicinato a quelli che sono oggi i tuoi principali interessi, allo Yoga?

Greg: La spiritualità è sempre stata al centro dei miei interessi: in particolare, mi interessava come le culture diverse dalla mia esprimevano i loro ideali spirituali. Da ragazzo, mi interessava la spiritualità degli Indiani d’America e in generale tutte le religioni legate alla Natura. Ero un campeggiatore convinto e cercavo di passare più tempo possibile a contatto con la Natura.

D: Qual è stato il tuo percorso educativo?

Greg: Ho iniziato studiando nutrizione, e per alcuni semestri mi sono spostato da una materia all’altra al college. In quel periodo la disciplina non era il mio forte, e non riuscivo a frequentare corsi per cui non provassi un autentico interesse. Ho scoperto lo Yoga a 22 anni, e a quel punto ho lasciato gli studi tradizionali per concentrami esclusivamente sull’apprendimento dello Yoga.

D: Qual è il pensiero che guida il tuo modo di insegnare Yoga?

Greg: Che si parli di Yoga o di altro, ad un certo punto della nostra esistenza tutti ci chiediamo quale sia il significato della vita, a livello individuale e più ampio. Questa domanda fondamentale è per me l’inizio dello Yoga. Il resto è cercare di vivere in armonia e con integrità con ciò che incontriamo sul nostro cammino. E’ uno stile di vita naturale. A causa delle richieste che la vita ci presenta, e a causa delle nostre esperienze, ci dimentichiamo quanto sia in realtà semplice vivere in modo naturale. Lo Yoga è il processo di recupero di questa memoria. La filosofia e le tradizioni dello Yoga ci offrono la possibilità di approfondire questa ricerca in molti modi. Il ruolo dell’insegnante è semplicemente facilitare il viaggio dello studente, e condividere qualsiasi conoscenza abbia appreso attraverso le proprie esperienze.

D: Perché hai scelto proprio l’Ashtanga Vinyasa Yoga?

Greg: Da neofita, ero entusiasta dello Yoga in generale e ho provato tutti gli stili possibili. Cercavo uno yoga “autentico”. Quando ho incontrato l’Ashtanga Vinyasa, mi sono innamorato della forza e della grazia di questa pratica, e della sua coerenza con la tradizione. Mi piaceva il suo approccio sistematico, la chiarezza e la costanza del metodo, che diventava uno strumento per misurare i propri progressi. L’intensità di questo stile aveva un effetto profondamente disintossicante. Uscivo da ogni classe completamente rinnovato e, con il tempo, mi sentivo più forte, più sano. Da bambino ero stato asmatico, dunque questo senso di vitalità corporea era una sorta di epifania. Attraverso anni di pratica, ho capito che la sfida fisica che l’Ashtanga Vinyasa Yoga ci pone è la base su cui maturiamo e andiamo al di là di una pratica guidata dall’ego. Praticare le asana in modo sistematico, affontiamo sia posizioni gradite che sgradite, ponendoci davanti ad esse con spirito equanime. Questa è in sé una grande lezione di vita e ci aiuta a scoprire il significato del termine “pace interiore”.

D: Puoi descrivere il termine “Pratica Mysore” per i nostri lettori?

Greg: La Pratica Mysore prende il nome dalla città indiana in cui Sri K. Pattabhi Joisfondò l’Ashtanga Yoga Research Institute. Questo modo d’insegnare è quello che lui stesso ha applicato con me e con innumerevoli studenti nel corso della sua vita, ed è oggi applicato da suo nipote R. Sharath Jois. In questo metodo d’insegnamento, il praticante si pone sotto la guida di un insegnante ma si muove attraverso la pratica in modo autonomo. Questo fa sì che lo studente debba memorizzare la sequenza di posizioni. L’insegnamento è graduale, l’insegnante trasmette nuove asana allo studente in base alla sua capacità di memorizzare e di padroneggiare ogni nuova posizione, fino a portarla ad un certo standard. Nella Shala si incontrano studenti di ogni livello praticare l’uno accanto all’altro. Questa situazione crea un’energia molto motivante, di cui tutti possono beneficiare. Il metodo inoltre consente agli studenti di ricevere istruzioni personalizzate in base alle diverse esigenze individuali, e di interiorizzare l’attenzione muovendosi verso una pratica meditativa, mentre durante una classe guidata è necessario seguire un ritmo ed istruzioni generalizzate.

(Fonte: Jicaro Lodge Blog)

Il dolore nello Yoga è veramente necessario? La parola a Gregor Maehle

Torno a tradurre le illuminanti parole di Gregor Maehle, insegnante di Ashtanga Yoga, titolare del blog ChintamaniYoga e autore di numerosi libri. L’argomento del dolore è attuale oltre che fondamentale nell’affrontare in modo corretto una pratica yoga che sia sostenibile. Sri K. Pattabhi Jois diceva che lo Yoga è una pratica che dura tutta la vita, e per essere tale è importante comprendere quali sono i limiti accettabili nell’affrontare le asana, che sono una parte fondamentale nella pratica.
“Mi è stato chiesto se sia necessario accettare di provare dolore durante l’esecuzione delle asana. Quando il fastidio diventa dolore, è possibile bilanciarlo con i rami più elevati dello yoga, o dovremmo semplicemente cercare di evitarlo a tutti i costi? ” In molti pensano ancora che le asana debbano necessariamente provocare dolore. Di regola tuttavia, le posizioni yoga NON dovrebbero essere dolorose, come gli stessi antichi maestri hanno più volte sottolineato. Patanjali afferma negli Yoga Sutra, “heyam duhkham anagatam,” (“le nuove sofferenze devono essere evitate”, Yoga Sutra II.16).  E la spiegazione di questa affermazione è semplice: qualsiasi esperienza noi abbiamo forma un’impronta nel subconscio (samskara). Ognuna di queste impronte, qualsiasi sia il suo contenuto, tende a ripetersi.
Questo significa che se noi pratichiamo frequentemente asana che ci provocano dolore, tenderemo a creare altro dolore nelle nostre asana in futuro. Il detto “Nessun dolore, nessun risultato” può avere una sua valenza in alcune aree della nostra esistenza, ma applicato alle asana diventa distruttivo. Oltre a provocare danni ai tessuti corporei, rischiamo, portando il dolore come impronta nel nostro subconscio, di aumentare le nostre preoccupazioni relative al dolore e al corpo. Tutte le sensazioni fisiche intense tendono ad aumentare inoltre la nostra identificazione con il corpo, mentre l’obiettivo dello yoga è di liberarci da questa identificazione. Il suo obiettivo è di perfezionare il nostro corpo in modo da trasformarlo in un veicolo capace e affidabile nella nostra strada verso la liberazione. Dobbiamo pensare al nostro corpo come alla nostra automobile: meglio la trattiamo, migliori saranno le sue prestazioni. Dobbiamo portarla regolarmente a fare il tagliando, mantenere in equilibrio il livello dei fludi, e correggere la pressione delle gomme. Trattare il nostro corpo con rispetto NON significa identificarsi con esso.  Se ci identifichiamo con il nostro corpo, esso diventa un ostacolo alla nostra evoluzione spirituale, invece che un veicolo verso la liberazione. Al momento della nostra morte, questo concetto diventa chiarissimo. La morte è uno dei momenti chiave della nostra evoluzione spirituale. Se non impariamo a distaccarci dal corpo, la morte non ci eleverà, anzi: questo momento potenzialmente potentissimo per la nostra evoluzione spirituale si trasformerà in una esperienza dolorosa.
Un’altra “ordinanza restrittiva” nei confronti del dolore è evidente nelle Bhagavad Gita. L’Essere Supremo, in guisa di Lord Krishna, critica chi tortura il proprio corpo (Bhagavad Gita XVII.5–6). Egli, come l’essere autentico dell’intero mondo, vive anche all’interno dei nostri cuori e dei nostri corpi. Chi causa dolore al proprio corpo sconsacra la dimora del proprio Essere Supremo. Questa è la nozione che porta al concetto di corpo come Tempio del Divino. Dobbiamo trattare i nostri corpi come le dimore dell’Essere Supremo.
Esistono tre tipi di sgradevole sensazione fisica durante la pratica delle asana. Esse sono (1) disagio creativo, (2) dolore non necessario, e (3) dolore necessario o karmico.
DISAGIO CREATIVO
Nelle asana, è importante riconoscere la differenza tra dolore e disagio. Quando allunghiamo un muscolo o teniamo una posizione complessa, un certo livello di disagio è necessariamente implicito. Questo disagio proviene dall’allungamento del muscolo o dall’esercizio della forza, entrambi obiettivi della pratica fisica. Possiamo quindi affermare, in questo caso, “Nessun disagio, nessun risultato” (le posizioni tenute per lunghi periodi per effettuare il pranayama e la meditazione sono però un’eccezione a questa regola, dal momento che devono essere assolutamente comode). Se il disagio attraversa la linea del dolore, tuttavia, rischiamo di infortunarci, e questo è particolarmente vero se avvertiamo dolore in un’articolazione, legamento o tendine. Quando e se avvertiamo dolore, dobbiamo fare un passo indietro o modificare la postura, lavorare con maggior precisione per tornare nell’area del disagio. La conoscenza anatomica può guidarci lungo questo percorso.
I praticanti dovrebbero analizzare le posizione e correggere continuamente la loro prestazione fino al raggiungimento della totale consapevolezza corporea. Quando questo avviene, quasi non avvertiamo più la presenza del corpo. Sembra un paradosso, ma solitamente noi “sentiamo” il nostro corpo solo quando qualcosa non va. L’assenza di feedback negativo significa che siamo sulla strada giusta. Quando il corpo è allineato correttamente, proviamo una sensazione di quiete e stabilità, e di vibrante leggerezza. La mente diventa luminosa, serena e libera da ambizioni e tendenze egoiche. Questo è ciò che cerchiamo, lo stato che può condurci alla meditazione. Quando raggiungiamo questa qualità in una posizione, quella posizione diventa una piattaforma per i rami più elevati dello yoga.
Non ha senso attendere che questo stato arrivi improvvisamente e miracolosamente attraverso la ripetizione errata di una o più asana. Da un’azione errata non otteremo un risultato corretto. Le posizioni errate ci condurranno ad altre future posizioni errate.
DOLORE NON NECESSARIO
Qualsiasi forma di dolore in articolazioni, legamenti e tendini, all’origine e all’inserzione di un muscolo è molto probabilmente una forma di dolore non necessario. Questo tipo di dolore è la causa della maggior parte del dolore che avvertiamo nell’esecuzione delle asana, ed è assolutamente evitabile e quasi sempre provocato da una tecnica di esecuzione errata. Può sembrare un’affermazione azzardata, ma questo tipo di dolore può essere facilemente riconosciuto perché scompare quando l’allineamento posturale è analizzato e corretto. Per questo motivo, dovremmo sempre ritenere che il dolore che si manifesta durante l’esecuzione di un’asana cade sempre all’interno della categoria del dolore non necessario. Questo dolore deve essere evitato applicando alle posizioni lo strumento dell’analisi anatomica. Se persistiamo nell’infliggere dolore non necessario al nostro corpo durante la pratica, stiamo rinforzando una tendenza negativa – verso l’auto-tortura, il perfezionismo, l’egotismo – invece che adoperarci per eliminarla.
IL DOLORE NECESSARIO O KARMICO 
Per il praticante occidentale è più complesso comprendere questa forma di dolore, che coinvolge il concetto di karma. Attraverso le nostre passate azioni, parole e pensieri, abbiamo dato forma a ciò che siamo oggi, compreso (secondo Patanjali) la nostra tipologia corporea, la durata della nostra vita e la forma che avrà la nostra dipartita. Quando Patanjali afferma che dovremmo evitare il dolore nel futuro, non elabora il concetto di dolore passato. Il dolore passato, in questo contesto, è il dolore che abbiamo creato attraverso le nostre azioni passate. Possiamo incontrarlo ora o in futuro. Non possiamo cambiare le nostre azioni passate. Una volta sparsi i semi delle nostre azioni, non possiamo intercettare il karma che ne sarà associato, e il dolore che deriva da queste dovrà essere sopportato – non a denti stretti, ma con accettazione e compassione. Se lo accetteremo, ci purificherà a livello karmico, “bruciando” il vecchio karma associato a quella specifica sofferenza.
Ci capita nella vita di dover attraversare momenti in cui dobbiamo “lasciare andare” qualcosa o qualcuno, e questi momenti sono accompagnati da sensazioni dolorose. Il lutto è un esempio di questo processo. Nessuno può mettere in dubbio che durante un lutto per la perdita di una persona cara, la lunga sofferenza ci insegna ad accettare la necessità di “lasciare andare”. Sono processi che si concludono solo se li accettiamo e li accogliamo consciamente.
Il dolore karmico nelle asana è un dolore che non può essere rimosso attraverso l’analisi anatomica o l’attenzione al dettaglio. Se abbiamo fatto tutto il possibile per correggere la posizone e proviamo ancora dolore, potremmo trovarci di fronte ad una sofferenza karmica. E’ molto gravoso per un praticante sapere di aver fatto tutto il possibile, e provare nonostante questo ancora sofferenza. Molti a questo punto smettono di praticare perché ritengono di aver subito un torto. Se continuiamo a praticare, tuttavia, alimentiamo il tapas, ovvero l’abilità di praticare nonostante le avversità. Se rifiutiamo di affrontare la sofferenza karmica ma semplicemente la sopportiamo, provochiamo una stagnazione nella nostra pratica.
In questo ambito, lo Yoga è simile ad un matrimonio. Quando ci sposiamo, ci impegnamo a restare con il nostro partner nella buona e nella cattiva sorte. La pratica delle asana richiede questo stesso impegno. Tuttavia, deve essere un impegno intelligente. Dobbiamo essere in grado di identificare con chiarezza se la sofferenza è il risultato di una tecnica di esecuzione errata o se arriva da demeriti accumulati in passato. Possiamo riuscirci cercando di eseguire le asana con grande attenzione e quindi comprendere se la sofferenza che proviamo è decisamente inevitabile.
Gregor Maehle
Una nota di cautela: Se non identifichiamo correttamente il tipo di sofferenza che proviamo, rischiamo di peggiorare le cose. Ancora una volta, devo sottolineare che il dolore durante la pratica delle asana NON è necessario ed è causato da tecniche errate. Non accettate mai il vostro dolore come se fosse di origine karmica senza aver prima eliminato senza ombra di dubbio che la causa sia tecnica e/o legata all’allineamento. Questo è un punto fondamentale e sottolinea l’importanza dell’analisi anatomica. Se la nostra comprensione dei principi anatomici legati al corpo e alle asana è solida, siamo in grado di capire se abbiamo fatto tutto il possibile per evitare sofferenza. La conoscenza anatomica deve essere utilizzata per capire se la nostra sofferenza è – o non è – di origine karmica.
Le istruzioni che ho fornito nei paragrafi precedenti possono purtroppo essere fraintese. Spesso gli studenti sono felici di credere che la loro sofferenza sia necessaria, perché in questo modo non devono assumersi la responsabilità di cambiare il loro approccio alle asana. Per identificare correttamente la tipologia di dolore che proviamo, dobbiamo consultare un istruttore di yoga qualificato e preparato soprattutto nell’ambito dell’anatomia e dell’allineamento corporeo. Queste indicazioni non sono in alcun modo da fraintendersi come consulenza medica. Il dolore fisico costante richiede SEMPRE che il praticante consulti in prima istanza un medico.” Gregor Maehle
Tratto dal libro di Gregor Maehle del 2009 ASHTANGA YOGA — THE INTERMEDIATE SERIES.

Nada Yoga: musica e vinyasa

Tutto intorno a noi e dentro di noi è musica, suono. Il Big Bang che ha dato origine all’Universo è nato da una vibrazione sonora – molte ricerche ci dicono che il suono di questa vibrazione fosse un OM. Nei testi di quasi tutte le fedi religiose, si dice che “In principio fu il Verbo”, ovvero un suono. Il silenzio completo, nella vita sulla terra, non esiste: anche quando siamo soli, in una stanza insonorizzata, possiamo ascoltare il battito del nostro cuore e il nostro respiro. Ed anche questi suoni sono, a modo loro, una musica. Durante la nostra pratica siamo sempre accompagnati dal suono. Il nostro suono interno, se siamo soli, o il respiro sincronizzato dei nostri compagni di tappetino quando pratichiamo in una classe. La pratica yoga è sempre accompagnata dalla recitazione di un mantra, che sia un semplice Om Shanti, fino ai più complessi mantra di apertura e chiusura della pratica Ashtanga o Jivamukti. In quest’ultimo stile, il suono, la musica hanno un ruolo ancora più centrale. Ricordo la prima lezione Jivamukti a New York, e la sensazione meravigliosa di sentire il movimento accompagnarsi non solo al respiro, ma anche alle musiche selezionate con cura dall’insegnante. Da allora, ho cominciato a cercare con grande attenzione sinfonie che potessero integrarsi armoniosamente alle sequenze che elaboro per le mie classi. Personalmente, trovo che accompagnare le mie classi con la musica aiuti chi arriva da una frenetica giornata di lavoro a “staccare la spina” dalle tante conversazioni e dai rumori della città. Preferisco iniziare le mie classi con musiche prive di parlato e dal ritmo molto lento, per consentire a chi pratica di armonizzare il respiro senza fretta. Quando introduco sequenze nuove, tendo a mantenere il volume basso, in modo da consentire ai partecipanti di ascoltare le indicazioni senza difficoltà. Il tono della voce a mio parere deve essere fluido, morbido, in modo da non creare nel praticante la sensazione di dover “obbedire” ad un ordine ma piuttosto di interiorizzare la parola per trasformarla in movimento. Mi piace introdurre un elemento musicale tribale, per creare un’atmosfera di connessione con la parte più istintiva del nostro essere. Mi piace inoltre che nelle musiche selezionate ci sia, almeno in parte, una strumentalità che riporti alle origini dello Yoga, ovvero all’India. Quando creo sequenze mirate al risveglio di un particolare chakra, cerco di individuare uno strumento che possa in qualche modo attivarlo: muladhara e anahata chakra, ad esempio, rispondono molto ai bassi e alle percussioni: i chakra più alti vibrano con i fiati o con gli archi, e così via. Un elemento occidentale nella selezione musicale può aiutare chi partecipa a sentire la pratica come una parte integrante del proprio vissuto, e quindi si collega a mio parere bene con manipura chakra. Lo yoga del suono (nada yoga) si integra alla pratica delle asana nel Vinyasa Yoga soprattutto quando pratichiamo in gruppo: diventa più semplice armonizzare le diverse energie dei partecipanti quando c’è un ritmo che in parte “guida” queste energie in un’unica direzione. Nella mitologia indiana, la dea che presiede alle arti (inclusa la musica), alle scienze e all’apprendimento è Saraswati, e sicuramente il suo simbolismo può essere avvicinato allo studio delle asana. Shiva, il dio che ha trasmesso agli uomini l’insegnamento dello yoga, è spesso raffigurato come Nataraja, il danzatore cosmico; un ulteriore segno dell’importanza della musica nella pratica. E voi, cosa ne pensate? Usate la musica durante la pratica, o vi affidate solo al suono interiore?

Nodi da sciogliere: i granthi. Parla David Life

Recentemente ho postato la traduzione del focus del mese di marzo di Jivamukti Yoga, magistralmente scritta da David Life. Vi ricordo brevemente che parlava di come, attraverso la pratica, possiamo lavorare sui granthi (blocchi psicologici), facendo delle asana uno strumento fondamentale per renderci più liberi a tutti i livelli. Tra pochi giorni parteciperò ad un workshop di questo meraviglioso stile a Milano, grazie a Magali Lehners e Alexandra Colombo, due colleghe insegnanti che stimo moltissimo, e questo mi ha fatto venire voglia di tradurre anche le note tecniche che David Life propone per approfondire questo argomento. David ci offre alcuni spunti sia per la pratica che per i nostri studi. Ecco i suoi suggerimenti, che io ho trovato molto interessanti:

  • Le pratiche yogiche ci rivelano quali siano i “granthi” (blocchi psicologici) che limitano la nostra crescita, e ci forniscono gli strumenti per affrontare e sciogliere questi limiti. Le asana, la meditazione, il pranayama, il samyama, le buone azioni, una dieta più pura, le buone intenzioni, il rispetto di yama e niyama, i mudra, e le tecniche nada come il canto e la recitazione dei mantra sono tutti metodi per “attraversare” i granthi.
  • Vi suggerisco di praticare i bandha separatamente.
    • Mula: Questo bandha può essere praticato durante la respirazione e il movimento. Questa chiusura energetica si compone di due parti: a) la contrazione dell’area perineale nel corpo maschile, e delle pareti vaginali nella donna, e b) la contrazione e il delicato sollevamento dell’area compresa tra l’osso pubico e l’ombelico.
    • Uddiyana: Il diaframma si muove verso la gola, portando l’intero addome verso l’interno e verso l’alto. Questa chiusura energetica va praticata solo durante la ritenzione successiva all’espirazione, quando non è possibile respirare e il movimento viene interiorizzato.
    • Jalandhara: Può essere eseguito al termine di inspirazione o espirazione, portando il petto verso il mento. La colonna dovrebbe essere mantenuta relativamente diritta, e il mento dovrebbe riposare nella fenditura tra le ossa clavicolari.
  • Per applicare i tre bandha simultaneamente, eseguite Mahamudra come descritto nel terzo capitolo dell’ Hathayogapradipika  (Versi 10-13)
  • Approfondite le barriere psicologiche alla liberazione rappresentate dai granthi: dalla paura della morte all’ansia per la sopravvivenza (Muladhara,) all’accumulo di potere e prestigio (Manipura), fino al rischio egoistico nell’aiutare gli altri, piuttosto che l’autentico servire (Anahata.)
  • Approfondite il Pranamaya Kosha (suggerisco ai neofiti di seguire il link dove vengono approfonditi i “kosha” o strati di cui si compone ogni essere vivente). La pratica delle Asana influenza in modo diretto il Pranamaya Kosha  e trasforma l’energia della coscienza in una forza che può condurci all’illuminazione.
  • Nelle Bhagavad Gita (7.1) il granthi viene identificato come dubbio, e di come il Divino possa liberarci dal dubbio. Nel Srimad-Bhagavatam (1.2.17-21), il bhakti yoga (yoga devozionale) è in grado di tagliare il granthi dell’attaccamento materiale, e ci aiuta a raggiungere lo stato di asamsayam-samagram (completezza). (David Life, marzo 2015)

Yoga dinamico, Yoga passivo: è vero equilibrio?

Sono in molti ormai a sperimentare, nella loro pratica yogica, l’alternanza di stili dinamici con forme di yoga passivo (Yin Yoga, Restorative Yoga, etc.). Ma quali sono i veri benefici nell’alternare queste due pratiche? E’ corretto utilizzare due metodi così diversi tra loro? Dato che la sperimentazione personale richiede molto tempo per dare risultati statisticamente validi, ho pensato fosse interessante rivolgersi a chi da più di trent’anni si dedica alla pratica e all’insegnamento dello Yoga, come Gregor Maehle, autore di libri, esperto in filosofia dello yoga e diretto studente di Pattabhi Jois e Iyengar. Traduco quindi un suo post molto interessante, che come sempre potete trovare in versione integrale sul suo sito.
“Lo Yoga è una meravigliosa combinazione bilanciata di pratiche energetiche ed estroverse, come asana e kriya, ed introverse e introspettive come meditazione e pranayama. Anche nello stesso pranayama è possibile trovare questo equilibrio attraverso la respirazione a narici alternate. Oggi, dato che la nostra società è soggetta ad un aumento dell’estroversione (come risultato di un accumulo di Prana in Pingala – attraverso la narice destra), l’aspetto più estroverso dello yoga (ovvero le asana, le posizioni yoga) ha acquisito maggiore fama. Se pratichiamo solo asana, incrementiamo ulteriormente la tendenza all’estroversione. Da tempo si parla infatti con una certa preoccupazione dell’eccessiva identificazione tra Yoga e la sola pratica fisica delle asana.  A questo proposito, molti insegnanti ritengono necessario bilanciare la pratica dinamica delle asana con una seconda pratica, questa volta più passiva… ma pur sempre una pratica fisica!
Onestamente, ne sono sorpreso. Per migliaia di anni, gli yogi hanno ricaricato il loro corpo con la pratica energetica delle asana, per essere in grado di sedere con calma nelle posture più adatte al pranayama e alla meditazione. La moda attuale di combinare una pratica molto attiva con una seconda pratica più passiva è nella mia pur limitata visione il parto mal riuscito di Kali Yuga (l’era dell’oscurità, quella in cui secondo le scritture yogiche ci troviamo ora). Qualsiasi forma di movimento e/o esercizio è da considerarsi estroversa. Va bilanciata con i rami più elevati dello yoga, come il pranayama e il dhyana. In verità, la soluzione temporanea della pratica di asana in forma energica o passiva, non riduce ma porta all’esacerbazione il problema dell’estroversione di cui soffre la nostra società. Per trovare un vero equilibrio, è necessario ridurre la tendenza a rivolgersi all’esterno, e questo non avviene muovendosi più lentamente, ma piuttosto ascoltando un semplice invito: “smettila di muoverti per un attimo, e stai seduto lì!”
Il mio suggerimento è di attenersi alle indicazioni degli antichi saggi, combinando le asana con gli esercizi di respirazione e con la meditazione, maturando attraverso i rami più elevati dello yoga. Il successo nello Yoga non arriva solo attraverso la pratica fisica delle asana, non importa quante volte al giorno decidiamo di praticarle. Non fraintendetemi: non ho nulla contro lo stretching passivo. Io stesso l’ho praticato e lo raccomando. Ma se ci riduciamo a praticare solo fisicamente, ci limitiamo alla superficie dello yoga, e dobbiamo quindi rivolgerci a pratiche che ci portino maggiormente in profondità.
Poco tempo fa sono stato contattato da un signore interessato a ricevere indicazioni sul pranyama. Quando gli ho chiesto cosa desiderasse ricavarne, mi ha risposto che era in salute fisicamente, ma era interessato ad andare oltre l’aspetto puramente corporeo. Le asana migliorano il nostro corpo e ci allungano la vita. Ma la morte arriverà comunque, presto o tardi. In quel momento, la pratica delle asana non ci sarà di grande aiuto (escludendo ovviamente Shavasana), e gli anni in più che avremo conquistato non ci serviranno a molto nell’attimo dell’ultimo respiro, come conferma lo stesso T Krishnamacharya, che ha affermato come la pratica delle asana conferisca esclusivamente benefici fisici.
Il signore in questione era dunque interessato a sollevare il velo dell’ignoranza per accostarsi alla sua spiritualità. Non voleva rimanere semplicemente un “animale in salute”. Nello yoga esiste la parola Pashu, che significa animale ma si riferisce ad un essere umano che ignora di essere una entità spirituale eterna. Il mitologico fondatore dello Yoga, Shiva, porta anche il nome ‘Pashupatinath – Signore delle Bestie’, che lo ritrae come l’insegnante che ci porta oltre il nostro corpo. Per sviluppare il nostro potenziale e diventare realmente umani, dobbiamo esplorare le nostre dimensioni più elevate.
Quello che maggiormente mi preoccupa in questo tentativo di bilanciare la pratica energica con la pratica passiva delle asana – invece che bilanciare la pratica delle asana con la pratica dei rami più elevati dello yoga – è che c’è chi ne farà l’ennesimo fenomeno di moda che verrà seguito immediatamente da un vasto pubblico, solo perché è una novità. Ho incontrato recentemente un uomo che mi ha detto di ricevere una valanga di telefonate per la sua nuova dieta, la cosiddetta “dieta elettrica”. E il bello è che non era nemmeno stata ancora pubblicata. Stava scrivendo un libro e ne aveva parlato solo a pochi intimi. Ma dato che era una novità, prima ancora di essere un caso mediatico, tutti la volevano sperimentare. Lo Yoga non è nuovo. E’ antico. è stato creato da alcuni esseri straordinari, rishi e siddha (a cui a loro volta è stato rivelato). Perché non ci impegniamo a studiare con serietà i metodi autentici, vedere se funzionano, e poi eventualmente decidiamo se c’è davvero qualcosa da re-inventare?
Praticate tutte le forme di stretching passivo che preferite, ma non dimenticate che state semplicemente facendo stretching passivo, niente di più. Non state sperimentando nessuna forma di equilibrio nell’alternare una pratica di asana attiva con una passiva. Per trovare equilibrio, dovete passare dalla pratica “yang” o rajasica delle asana a quella “yin” del pranayama e della meditazione. Seguendo questo metodo, così come ci è stato tramandato dagli antichi saggi, saremo in grado di bilanciare gli aspetti lunari e solari della nostra psiche, un equilibrio che è il prerequisito delle esperienze spirituali. Gregor Maehle, 22 febbraio 2015
Trovo queste riflessioni davvero interessanti, uno spunto di discussione davvero notevole. Sono molti i temi affrontati: l’eccessiva enfasi posta dalla nostra società così sensibile alle mode sulle asana, la necessità di integrare la pratica fisica, nella sua espressione dinamica o attraverso un atteggiamento più passivo, con quella più elevata del pranayama e della meditazione. E voi, cosa ne pensate?

Jivamukti Yoga FOTM: La pratica che scioglie i nodi dell’anima

David Life, fondatore insieme a Sharon Gannon del meraviglioso stile Jivamukti, propone questo mese sul sito di Jivamukti Yoga un bellissimo spunto di riflessione: ovvero come sciogliere i nodi che ci limitano attraverso la pratica. Mi permetto di tradurre questo interessantissimo articolo, scritto da uno dei maestri più importanti dello Yoga contemporaneo.
In Sanscrito, il termine “granthi” significa nodo o dubbio; in particolare, un nodo particolarmente difficile da sciogliere. In India, chi indossa il sari custodisce il denaro formando una tasca con il tessuto dell’abito e annodandone un lato. Questo portafoglio annodato viene chiamato granthi. Nella pratica spirituale, i Granthi sono barriere psicologiche o psichiche che si frappongono tra noi e la liberazione completa. I granthi impediscono al prana di salire liberamente lungo il canale energetico centrale, sushumna nadi. I granthi limitano lo spirito; ci ingabbiano nelle errate percezioni della realtà (avidya) e dell’ego (asmita). Ci tengono legati alle nostre preferenze (raga e dvesha) e ci radicano nella paura della morte (abhinivesha). La conoscenza (jnana) è una componente chiave per trascendere la paura, e insieme all’azione (karma) mette le ali ai nostri desideri spirituali – il risveglio della Kundalini.

David Life e Sharon Gannon, Jivamukti Yoga

L’Hatha Yoga offre attraverso i bandha – le chiusure energetiche – un modo per sciogliere questi nodi. Concentrando il prana in Sushumna Nadi, i bandha aumentano la potenza della Kundalini ascendente, aiutandoci a superare le restrizioni del pensiero e dell’azione.
Brahma Granthi risiede alla base della colonna, tra Muladhara Chakra e Svadhisthana Chakra, dove sono situate le funzioni primitive del cervello, come il riflesso “lotta o fuga”, preposto alla sopravvivenza. La paura della morte, le ansie nei confronti del cibo, di un riparo o di abiti con cui proteggerci sono tutte manifestazioni di Brahma Granthi. Quando proviamo paura nell’eseguire una verticale sulle mani o una spaccata, e quella stessa paura ci impedisce di avere successo, siamo in presenza di BrahmaGranthi. La mancanza di tempo libero fa parte di questo nodo. Quando le preoccupazioni economiche ci trattengono al lavoro e ci allontanano dalla nostra pratica yogica, siamo vittime di Brahma Granthi.
Mula (Radice) Bandha è il consolidamento di Prana e Apana, ed è un modo per perforare Brahma Granthi. La vitalità, il pensiero, il respiro e la parola si unisco nella ricerca della verità. Possiamo eseguire questa chiusura energetica in ogni momento, trasformando ciò che facciamo in un’azione sacra.
Vishnu Granthi impedisce il fluire dell’energia tra Manipura Chakra e Anahata Chakra. Questo Granthi è un nodo che si relaziona all’ego e al potere individuale. Il nostro attaccamento all’ego, la nostra autocommiserazione e la ricerca di potere personale tendono a rallentare il nostro cammino spirituale. La paura di essere ignorati e di perdere prestigio può compromettere la nostra crescita interiore. Questo nodo, relativo al potere e alla manipolazione, è anche il nodo dell’accumulo. Accumulare potere, possedimenti, e fama, ci ferma a questo livello di consapevolezza.  Per trascenderlo, dobbiamo “abbandonare l’amore per il potere, e scegliere il potere dell’amore!” Il grado di vulnerabilità che dimostriamo nella nostra vita – la capacità di mettere da parte la nostra facciata e sfidare il nostro status quo, può sciogliere Vishnu Granthi.
Uddiyana (Volo) Bandha è il secondo consolidamento di Prana, Apana e Samana Vayu.
Eseguita insieme a Mula Bandha, questa chiusura energetica perfora Vishnu Granthi. L’individuo trascende la sua individualità. L’addome viene risucchiato internamente e sollevato – un simbolo della rinuncia all’accumulo e della concentrazione dell’energia ascendente, diretta verso Anahata Chakra.
Rudra granthi si annoda tra Anahata e Ajña chakra. L’attrazione per l’azione che nasce dal cuore e l’esperienza al servizio degli altri può distrarre lo yogi che desidera “Essere Amore” e non solo provarne l’esperienza. Aiutare gli altri è un modo splendido di passare la propria vita, ma questo servizio può trasformarsi nel nostro ostacolo, se ci porta a provare risentimento per gli altri, o a vederli come esseri inferiori. Dobbiamo sforzarci di trascendere la separazione e di sperimentare l’unicità dell’essere, al più alto livello di coscienza, per completare il cerchio che trasforma la nostra coscienza in azione compassionevole. Quando riusciamo a liberarci dall’illusione di essere diversi/separati dagli altri, le nostre azioni nascono spontaneamente dall’amore. Jalandhara Bandha ci aiuta a compiere questo salto di consapevolezza.
Il consolidamento finale del prana è appunto Jalandhara Bandha (la chiusura della Rete, che deve questo nome al reticolo di nadi che troviamo nel collo), laddove Prana, Apana, Samana e Udana vayu, in Sushumna Nadi sciolgono Rudra Granthi, sollevando il velo della separazione.
Marzo 2015 – David Life