Leggo con interesse sul sito
Love Yoga Anatomy l’interessante articolo di
Iain Grysak sull’approfondimento di un’autentica pratica Yoga. Traduco a beneficio di Yogi e Yogini che non hanno dimestichezza con l’inglese, augurandomi di rendere a tutti voi un servizio utile. E’ un articolo più lungo del solito ma io l’ho trovato illuminante, soprattutto in questo momento della mia personale pratica e in questo momento storico dello Yoga in Italia e nel mondo. Ringrazio come sempre la meravigliosa insegnante
Anurag Vassallo per avermelo segnalato.
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Iain Grysak, autore dell’articolo di oggi |
“Una pratica Yoga autentica è un’esplorazione relazionale. Chi pratica lo yoga come sadhana (e non come divertimento), ha una relazione con il suo insegnante, una relazione con la tradizione o il metodo della pratica, e soprattutto una relazione con se stesso.
Ciò che realmente lo yoga produce è l’approfondimento e il rafforzamento di queste relazioni. Una relazione solida e stabile con l’insegnante e con la tradizione della pratica sono fattori importanti in una pratica yoga salutare e trasformativa, ma alla fine queste relazioni nascono per diventare la base e il sostegno su cui il praticante approfondisce la relazione con se stesso. L’approfondimento della pratica comprende sempre l’approfondimento della relazione.
E’ utile tenerlo a mente quando cerchiamo un modo per approfondire la nostra pratica Yoga.
Oggi sono molte le esperienze disponibili sul mercato, e alcune sono promosse in modo molto efficace.
Queste esperienze possono includere alcuni o tutti gli aspetti che elenco di seguito: a) Un insegnante famoso o carismatico (o più d’uno); b) Un certificato di partecipazione al corso, che possibilmente conferisca il titolo di “insegnante”; c) L’esposizione a nuove asana e/o tecniche innovative, conoscenze, informazioni, trucchi etc; d) Luoghi da sogno in cui praticare; e) E possibilmente forme supplementari di intrattenimento pseudo-spirituale.
Questo genere di ritiri ed eventi yogici possono sembrare eccitanti e stimolanti, ma nel considerare queste esperienze, penso sia importante chiedersi se realmente contribuiscono all’approfondimento della pratica individuale – se realmente rafforzano la nostra relazione con un insegnante, una tradizione, noi stessi – o se sono semplicemente una forma di intrattenimento pseudo-spirituale, un’ulteriore distrazione nel nostro mondo commercializzato, in competizione per una fettina della nostra sempre più debole capacità di attenzione.
Nel pensiero occidentale si ritiene comunemente che approfondimento sia sinonimo di accumulo. Più cose accumuliamo, più cose possediamo, più ci riteniamo in grado di offrire qualcosa.
Un rapido sguardo al sito di uno Yoga Studio occidentale è in grado di esemplificare questo pensiero. Uno studio di successo offre classi di più stili di yoga. C’è qualcosa per tutti, e lo studente potenziale può scegliere qualsiasi insegnante o metodo si adatti al suo umore: uno stile al caldo o al freddo, un ritmo veloce o lento, un approccio gentile o vigoroso. Se scorriamo il menu degli insegnanti, troviamo molti nomi. Le biografie degli insegnanti includono di solito una lunga lista di maestri con cui si sono preparati e una serie di stili che hanno “studiato”. Ci sono anche programmi di certificazione all’insegnamento multidisciplinari, solitamente lunghi un mese, in cui i potenziali insegnanti vengono “allenati” a diversi stili di yoga, da vari maestri, e in seguito lasciati liberi di scegliere quale stile si adatti meglio alla loro carriera di insegnanti.
E’ sempre più raro trovare una scuola di yoga che offra un’educazione completa e strutturata su una tradizione, un sistema, e ancora più raro trovare una biografia che inizi con una frase come “Sono qualificato all’insegnamento perché ho passato 20 anni a praticare con il Maestro X, approfondendo il suo metodo”.
In qualsiasi relazione a lungo termine, è necessario affrontare aggiustamenti e calibrazioni per mantenere il rapporto in buona salute. Accade lo stesso con un insegnante e con una tradizione. Questo tipo di impegno, di continuo aggiustamento e calibrazione può diventare un forte stimolo per un’autentica evoluzione personale, se affrontato con intenzione e consapevolezza. Alla fine, questo tipo di rapporto fornisce una base per approfondire la relazione con noi stessi e diventare esseri umani più sani e funzionali.
Per definizione, una relazione comprende l’interazione o lo scambio tra due entità. Se abbiamo una relazione con noi stessi, e l’approfondiamo attraverso la pratica yoga, significa che esistono due diversi aspetti del nostro sé che hanno bisogno di comunicare tra loro.
L’autore canadese Matthew Remski ha recentemente scritto un articolo in cui cerca di definire il concetto di meditazione. Questa definizione in parte recita: “è utile vedere la meditazione come il processo graduale per migliorare i numerosi strati di conversazione interiore tra l’io istintuale e l’io conscio”. Trovo questa definizione utile nel chiarire il mio personale pensiero sull’uso della pratica yoga per l’approfondimento della comunicazione interiore.
La società moderna ha creato la possibilità, per le nostre menti, di esistere quasi interamente in un mondo di idee, concetti e creazioni. Non abbiamo davvero bisogno di “sentire” molto, se preferiamo evitarlo. Il mondo concettuale della mente conscia non ha molto senso per l’intelligenza innata del nostro corpo istintivo – ci siamo allenati a non ascoltare il nostro corpo mentre lo trasciniamo attraverso l’universo concettuale creato dalle nostre menti.
Solo quando proviamo forte piacere o forte dolore, il nostro corpo istintivo grida così forte che ignorarlo è impossibile: allora iniziamo ad ascoltarlo. Anche in quei momenti, quell’ascolto rappresenta raramente un dialogo salutare tra la mente conscia e il corpo istintivo. Solitamente, comprende la ricerca del modo più rapido e facile per soddisfarne le esigenze o rimuoverne i dolori, così da poterlo nascondere nell’ombra e tornare al nostro mondo prefabbricato di idee e concetti.
Le mie pratiche si sono evolute e intrecciate negli ultimi 15-20 anni, fino ad unirsi in un unico processo: migliorare la comunicazione e approfondire la relazione tra la mia mente conscia e il mio corpo istintivo. In altre parole, la mia pratica è un veicolo per approfondire la mia relazione con me stesso.
Le diverse forme di pratica che intraprendo quotidianamente – meditazione vipassana, ashtanga vinyasa yoga, pranayama, il pancha sila del Buddha o gli yama e niyama di Patanjali (la pratica che investiga l’etica delle relazioni con il mondo), osservanze alimentari etc. – sono tutte diverse lenti attraverso le quali esamino e soppeso questo tema centrale.
Ognuna di queste pratiche mi è necessaria, poiché una sola non è sufficiente a coprire l’intera gamma delle mie esperienze, del mio corpo istintivo.
La scienza si divide in categorie esplorative separate tra loro, come fisica, biologia, chimica e psicologia in modo tale da coprire l’intera gamma di ciò che è osservabile; allo stesso modo le pratiche spirituali come meditazione, asana, pranayama, etica, alimentazione etc. sono a nostra disposizione per coprire l’intera gamma della realtà introspettiva e soggettiva del corpo istintivo.
Secondo alcune interpretazioni degli insegnamenti del Buddha, la mente inconscia è in costante contatto con le sensazioni del corpo istintivo. Non solo, la mente inconscia genera costantemente una reazione di desiderio o avversione rispetto alle sensazioni del corpo istintivo.
Siamo quasi sempre inconsapevoli di questo processo di reazione alle sensazioni, ma i suoi effetti a lungo termine restano profondamente impressi nella nostra psiche. Queste reazioni sono il fondamento di tutti i nostri complessi mentali, delle nostre abitudini, delle tendenze e delle problematiche di cui siamo quasi tutti consapevoli a qualche livello, e su ci diciamo che forse “dovremmo lavorarci”. Il Buddha le ha chiamate “sankhara” (in lingua Pali), e Patanjali le ha nominate “samskara” (in Sanscrito). Secondo entrambi questi Maestri, esse sono la fonte di tutte le nostre sofferenze, interiori ed esteriori, poiché le riflettiamo nelle nostre relazioni con il mondo.
Il primo passo per lavorare su queste abitudini reattive è diventarne consapevoli. Il modo più efficace per riuscirci è andare direttamente alla fonte che le ha generate – l’interazione della mente con il corpo istintivo. L’essenza della pratica vipassana del Buddha è diventare consapevoli del corpo istintivo senza generare alcuna reazione ad esso, nel modo più continuativo possibile.
Nel Satipatthana Sutta, il Buddha afferma che se riusciamo a restare consapevoli delle sensazioni del corpo istintivo, senza generare alcuna reazione di desiderio o avversione a queste sensazioni o sentimenti, e se riusciamo a farlo in modo continuativo, senza interruzione, senza perdere nemmeno un istante questa consapevolezza per sette giorni o sette anni, allora siamo completamente liberi dal nostro sankhara. Se ci vogliano sette giorni o sette anni dipende dal livello di accumulo del sankhara, che è assolutamente individuale.
Sembra quindi abbastanza semplice diventare liberi. Dobbiamo solo fare una cosa per 7 giorni o 7 anni. Sfortunatamente, osservare il corpo istintivo in modo oggettivo, non è cosa facile. Anzi, è un lavoro di proporzioni epiche.
Una pratica autentica, che ci porti in profondità in questo tipo di esperienza, non è qualcosa che si possa facilmente acquistare. E’ una sfida immensa osservare cosa accade dentro di noi senza esitare o fuggire. Tuttavia, le mie personali esplorazioni mi portano a credere che questo sia il modo più diretto per diventare esseri coerenti, integrati, funzionali e dotati di significato. E’ il solo modo per rafforzare e approfondire la nostra relazione con noi stessi. E’ la comunicazione più onesta che esista.
Una volte che la mente conscia e il corpo istintivo hanno imparato a comunicare tra loro più armoniosamente, cominciamo a fare scelte di vita più salutari a tutti i livelli, da ciò che scegliamo di mangiare a come decidiamo di passare il nostro tempo, a come reagiamo e interagiamo a livello profondo con tutto ciò che ci circonda, inclusi gli altri esseri viventi. Ho osservato questi benefici crescere dentro di me negli ultimi 15 anni di pratica costante e coerente. Capisco quindi cosa intenda Sharath Jois quando si riferisce, durante le sue conferenze, allo “yoga che avviene dentro di voi”. Mentre ho dubbi e riserve su come questi benefici possano essere estrapolati dalla definizione del Buddha di “liberazione totale”, non ho dubbi invece che questi benefici esistano e continuino a crescere con una pratica a lungo termine.
Le pratiche di Yoga e meditazione disponibili “sul mercato” vengono spesso definite “sogno”, “pace”, “felicità”, etc. Non c’è dubbio che a lungo termine queste pratiche possano, a lungo termine, portare un senso di profondo appagamento, coerenza e funzionalità. Siamo altresì in grado di sperimentare effetti a breve termine che possono essere al tempo stesso magici e intossicanti.
Tuttavia chi pratica con autenticità, quindi utilizzando la pratica come mezzo di approfondimento della propria consapevolezza e comunicazione con il proprio corpo istintivo, ha modo di sperimentare in tempi abbastanza brevi esperienze e sentimenti non sempre piacevoli. Anzi, a volte questi possono essere l’esperienza dominante per lunghi periodi durante il nostro cammino.
Tutto il nostro sankhara negativo e sgradevole emerge alla luce della mente conscia attraverso il corpo istintivo. Dobbiamo vederlo e guardarlo negli occhi, imparare ad accettarlo; solo allora queste abitudini negative si indeboliscono e cominciano a dissolversi. La buona notizia è che non abbiamo bisogno di nient’altro che della nostra costante consapevolezza per arrivarci. Non abbiamo bisogno di protezione da strane divinità. Non abbiamo bisogno di mantra, benedizioni, incensi o preghiere. Non abbiamo bisogno di shaktipat. Non abbiamo bisogno di un pranoterapeuta o di un esorcista. E’ tutto alla nostra portata – tutto ciò che dobbiamo fare è aver voglia di conoscere e sentire in modo completo il nostro sankhara, utilizzando una pratica autentica per arrivarci. A questo punto la trasformazione accade naturalmente, senza sforzo e senza essere voluta dalla mente conscia. Una volta creata l’unione non reattiva tra mente conscia e corpo istintivo, il riallineamento accade automaticamente. Per il 99% delle persone, avere una relazione stabile con una tradizione e una guida è un elemento necessario al sostegno di questo tipo di lavoro.
Un concetto semplice, ma una sfida epocale. Gli esseri umani sono programmati per cercare il piacere ed evitare il dolore. Quindi, se intraprendiamo una pratica che ci porta in contatto consciamente con esperienze fisiche potenzialmente sgradevoli, l’istinto ci dice di allontanarcene. E’ necessario comprendere il processo, ci vuole determinazione, concentrazione e fede per mantenere il passo e superare il nostro istinto ad evitare la sofferenza. Dobbiamo cercare di farlo in modo bilanciato, proponendoci di affrontare solo ciò che siamo in grado di assimilare e integrare nelle nostre vite. Non tutti desiderano affrontare questo lavoro in profondità, ecco perché passare 20 anni con un maestro di una particolare pratica è un fenomeno poco comune. Quando le persone lavorano in modo autentico, iniziano ad incontrare strati più profondi del loro sé durante la pratica. In particolare ho notato tre tendenze:
1. Smettere di praticare – allontanamento e repressione del sankhara.
Questo è il caso più comune. Smettere di praticare significa praticamente cedere. Smettono per esempio di praticare Ashtanga (o qualsiasi altra pratica) e si spostano verso altre forme di Yoga. Ma questo può manifestarsi anche in forme più sottili. Ad esempio un insegnante può fermare uno studente in una particolare asana perché ritiene non sia ancora pronto. L’asana è una sfida perché fa affiorare sensazioni sgradevoli nel corpo istintivo, e la mente reagisce a questi stimoli. Lo studente decide che ne ha abbastanza di questo insegnante, e ne cerca un altro che sia meno esigente e gli permetta di evitare, modificare o addirittura eliminare quell’asana. Lo studente non abbandona la pratica Ashtanga, ma riesce ad evitare la grande opportunità trasformativa di questa disciplina. Altri praticanti riescono invece a praticare senza “sentire” realmente se stessi. Invece che usare la pratica per approfondire la propria sensibilità verso il corpo istintivo, si anestetizzano per attraversarla. O accendono la TV, mettono la musica, parlano etc. etc. Questi sono tutti modi per evitare il vero lavoro, l’incontro introspettivo del sé attraverso la pratica. Il praticante attraversa fisicamente le asana, ma non sta realmente praticando.
2. Usare la pratica per nutrire e rendere più profondo il proprio sankhara.
Questo è un altro caso molto comune. Chi ha tendenze ad una forte autocritica o all’autolesionismo trova purtroppo terreno fertile nella pratica dell’Ashtanga per rendere questo sankhara ancora più profondo. L’Ashtangi modello, con un corpo perfetto e una pratica bella da guardare, diventa un ideale che la mente conscia dello studente cerca di impersonificare, negando la realtà del proprio corpo istintivo nel tentativo di emulare questa visione di perfezione. L’era dei selfie su facebook e le copertine dei vari Yoga Journal hanno contribuito in larga parte a questo sfortunato fenomeno. Come risultato, si manifestano o peggiorano disfunzioni alimentari, ci si infligge traumi fisici ai danni di schiena e ginocchia, e la divisione tra mente conscia e corpo istintivo diventa sempre più vasta.
Anche chi ha tendenze narcisistiche trova terreno fertile per rendere quest’attitudine più radicata. La forza e l’energia generata dalla pratica vengono incanalate in tendenze alla manipolazione e al controllo. Quando questo genere di persona diventa a sua volta insegnante, gli effetti possono essere disastrosi, per loro e per chi li frequenta. Si sentono fin troppe storie di insegnanti dal comportamento scandaloso. Purtroppo non si tratta di casi isolati.
3. Osservare con calma e continuare a praticare.
Si possono coltivare pazienza e osservazione oggettiva. Qualsiasi cosa il nostro corpo ci dice, lo ascoltiamo cercando di sentire in modo chiaro. E di accettare quello che ci vuole dire. E con questa sensibilità, continuiamo a praticare con consapevolezza lasciando che i cambiamenti si manifestino in modo spontaneo. Se comprendiamo con chiarezza ciò che stiamo facendo con la nostra pratica, e combiniamo questa comprensione con fede, attenzione, umiltà e pazienza, insieme al sostegno e alla guida di un buon insegnante e di una sana tradizione, possiamo gradualmente attraversare il nostro sankhara, via via che la nostra pratica lo rivela ai nostri occhi.
E’ un processo difficile che richiede un’autentica volontà di adattamento e cambiamento. Richiede umiltà e volontà di arrendersi – alla nostra tradizione, al nostro insegnante e soprattutto al nostro corpo istintivo. Chi intraprende questo cammino diventa un praticante molto stabile, equilibrato, sano e compassionevole o un insegnante in grado di fare del bene attraverso le proprie azioni.
Nessuno è perfetto, e anche con le migliori intenzioni, tutti finiamo nella categoria 1 o 2 a volte. Ecco un altro motivo per cui è importante il sostegno di una comunità sana, di un buon insegnante, e di tanto lavoro su se stessi. Se abbiamo questi sostegni e questa intenzione, e se insistiamo, avremo successo nel praticare in modo autentico e la pratica diventerà un supporto nel rendere le nostre vite migliori.”