Lettera di un’insegnante di Yoga al CONI

Negli ultimi giorni chi pratica e soprattutto insegna Yoga è rimasto profondamente colpito dalla decisione del CONI di escludere lo Yoga dalle discipline riconosciute dal suo registro, atto che farebbe decadere le (poche) agevolazioni di cui godono le scuole e i centri Yoga fino ad oggi inseriti tra le Associazioni Sportive Dilettantistiche.

Per alcuni giorni ho riflettuto se lo Yoga potesse effettivamente essere incluso tra le discipline riconosciute dal CONI. Erroneamente ho pensato, all’inizio, che non essendovi competizione, lo Yoga fosse effettivamente sul “filo del rasoio” per poter reclamare il suo diritto a far parte di questa rosa di “sport”. Sono quindi andata a consultare non solo il registro delle attività riconosciute dal CONI, ma la definizione a cui il CONI si appella per prendere in considerazione l’inserimento di una attività nel proprio registro. Analizzerò entrambe più avanti, ma prima di far ciò vorrei sottolineare che far parte di un’Associazione Sportiva Dilettantistica ad oggi è l’unico modo, per chi insegna Yoga, di tutelare in primis i propri studenti, garantendo loro una formula assicurativa, e la certezza di praticare in un ambiente che corrisponde agli standard di sicurezza e di trasparenza previsti dal CONI. Non scrivo dunque per chiedere al CONI agevolazioni dettate da interessi personali, cosa che è impossibile dal momento che le associazioni sportive (ed i loro membri) non hanno fini di lucro, ma per sottolineare la necessità, per chi insegna da anni in modo serio e si impegna da sempre nella formazione (propria e altrui), di esistere all’interno di un organismo ufficiale e riconosciuto dallo Stato italiano. Con questa lettera quindi vorrei esprimere non la mia personale perplessità ma quella, penso, di tutti i centri e le scuole di Yoga italiane, che da molti anni, ben prima che la parola “Yoga” diventasse moda, si impegnano sul territorio nella promozione di un percorso di salute fisica e mentale così importante da essere stato addirittura riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità.

Nel registro delle attività riconosciute dal CONI, che dovrebbe in primissimo luogo interessarsi alle discipline che portano un reale beneficio fisico e mentale all’individuo, troviamo ad oggi, per fare alcuni esempi: il tiro a piattello (e come figlia di un tiratore esperto, posso garantirvi che i danni del rinculo del fucile sull’articolazione della spalla sono notevoli, per non parlare dei danni all’udito, nonostante l’uso delle cuffie), tutti gli sport su automobili da rally e da corsa (non credo sia necessario elencarne i rischi), il bridge (penso che stare seduti ore con le carte in mano, spesso fumando sigarette a più non posso, non sia l’attività più salutare del mondo), la dama e gli scacchi (idem). Mi si potrebbe obiettare che, in qualche misura, tutte queste attività sono in qualche modo competitive, e possono quindi a buon diritto essere inserite nel registro di un Comitato Olimpico. Continuando a scorrere la lista, tuttavia, troviamo discipline che di competitivo non hanno nulla, come il volo e la motonautica da diporto, dove peraltro l’uso del corpo a fini dell’ottenimento di uno stato di salute e benessere è a mio parere ben lontano.

Questa è la comune definizione di SPORT: “[…]insieme delle attività, individuali o collettive, che impegnano e sviluppano determinate capacità psicomotorie, svolte anche a fini ricreativi o salutari […]”. In questo senso, possiamo considerare lo Yoga come uno sport? Esiste un’attività fisica che, più dello Yoga, tende allo sviluppo delle capacità psicomotorie dell’individuo e/o di gruppi di individui? Gli asana, siano essi praticati in modo statico che in sequenze dinamiche, insieme al pranayama e alla meditazione, svolgono un intenso lavoro a favore del mantenimento della buona salute di qualsiasi individuo decida di praticarli, purché sotto la guida di un insegnante qualificato. Flessibilità, forza, equilibrio, concentrazione, rilassamento, lavoro di stimolazione e purificazione degli organi interni. Non a caso lo Yoga è praticato sempre più di frequente da campioni olimpici che sentono la necessità di integrare la loro preparazione fisica e mentale. La materia è da anni al centro di studi scientifici in tutto il mondo. Addirittura lo Yoga si rivela di ausilio nella riabilitazione degli infortuni, nel recupero da stress post-traumatici, nell’alleviare le difficoltà di chi soffre di disabilità fisiche e/o psichiche. In mancanza di enti riconosciuti dallo Stato italiano a tutela delle scuole e degli insegnanti di Yoga, quale organismo, se non il CONI, dovrebbe prendersi cura del nostro universo, che anno dopo anno attira un numero sempre maggiore di praticanti?

Chi insegna Yoga e chi con coraggio si fa carico oggi, in Italia, della gestione di un centro o di una scuola di Yoga può testimoniare in prima persona che è praticamente impossibile “lucrare” su questa attività. Non esiste disciplina più meritevole dello Yoga in questo senso. Eliminarla dalle attività regolamentate dal CONI significherebbe privare chi pratica della possibilità di accedere a corsi che in molti casi hanno prodotto incredibili vantaggi alla salute o al recupero della stessa. Non solo: questa esclusione renderebbe praticamente impossibile il lavoro dell’insegnante all’interno di un ambiente sicuro, tutelato e trasparente.

pic by Marco Pantani

Ho notato che su change.org è stata attivata una petizione a questo proposito, che ha finora raccolto un numero irrisorio di firme. Io stessa, come alcuni di voi avranno certamente notato leggendo qua e là alcuni miei commenti su facebook, ho avuto la necessità di riflettere a lungo e anche di cambiare idea prima di arrivare a postare questo articolo prendendo una posizione definitiva. Ritengo però che sia necessario, da parte di tutti noi insegnanti, e dei titolari di scuole e centri di Yoga, unirsi, fare quadrato, opporsi in modo pacifico ma fermo a questa decisione, inducendo il CONI a tornare sui suoi passi, rivedendo la sua posizione e aprendo, se necessario, un tavolo di discussione per trovare la formula più adatta per proseguire.

Dimostriamo tutti insieme di avere un’altra delle caratteristiche delle discipline annoverate nel registro del CONI: la capacità di essere coesi, di avere spirito di gruppo, di fare squadra al di là delle diversità della tradizione di appartenenza. E’ vero, lo Yoga non è solo uno sport, perché nella sua visione completa comporta caratteristiche che vanno ben oltre questa parola: ma la pratica degli yogasana (le posizioni che compongono la parte corporea della nostra amata disciplina) è forse l’espressione più pura dell’attività fisica svolta per rendere la nostra vita migliore. Proprio come lo sport.

Firmiamo.

Francesca d’Errico

 

Trataka meditation and Tarot symbolism ITA/ENG

Quando si pratica da tanti anni, come nel mio caso, avviene che alcune facoltà mentali risultino acuite, grazie all’intenso lavoro di apertura dei chakra (centri energetici) attraverso asana e pranayama. L’intuizione si raffina, come la capacità di comprendere chi abbiamo davanti attraverso il linguaggio corporeo, e quella di captare le energie di un luogo – anche di una Shala.

Ho avuto la fortuna, fin da ragazzina, di avere una forte capacità di intuizione, che ho coltivato studiando astrologia e Tarocchi, che mi sono stati tramandati da mia nonna, insieme a guide esperte. In particolar modo, questi ultimi sono stati negli anni per me un valido ausilio alla meditazione, che come ben sappiamo è molto più potente di qualsiasi metodo di divinazione (come diceva Sri K. Pattabhi Jois, che era tra l’altro un grande astrologo vedico, “Quando vediamo Dio, non abbiamo bisogno di conoscere il futuro”). Vediamo come.

Cosa sono i Tarocchi?

I Tarocchi sono un mazzo di carte da gioco, di origine italiana, che si diffuse nel XV secolo. A partire dal XVIII secolo il loro utilizzo passò dal semplice gioco alla divinazione, e le immagini dei 21 Trionfi o Arcani Maggiori cominciarono ad arricchirsi di simboli tratti da diverse tradizioni esoteriche, dalla Cabala ebraica agli occultisti francesi. Sono proprio gli Arcani Maggiori ad essere utilizzati per la divinazione, grazie al loro forte simbolismo. Senza volersi trasformare in improvvisati oracoli, è sufficiente estrarre una semplice carta dal mazzo, prima di eseguire i nostri esercizi di concentrazione e meditazione, per avere qualcosa di concreto su cui meditare. Mi incoraggia sapere che anche il grande Eddie Stern, uno tra i più famosi insegnanti di Yoga al mondo, utilizza con fiducia queste splendide carte ricche di simboli!

Mi è stato insegnato che estrarre alcuni tra i 21 Arcani Maggiori è un modo per interpretare le energie di cui siamo circondati al momento. I Tarocchi possono essere uno strumento simbolico utile a comprendere una situazione in cui ci troviamo, uno stato d’animo, un’emozione. Esattamente come avviene per i sogni, che ci rivelano qualcosa che il nostro io conscio fatica a riconoscere. Non amo parlare di “prevedere il futuro”, perché credo che il futuro sia qualcosa che costruiamo attimo dopo attimo. E anche perché penso che volersi proiettare in un tempo che ancora non c’è sia in contraddizione con le tecniche dello Yoga, che ci insegnano a vivere nel momento presente. Penso però che non sempre riusciamo ad essere lucidi nell’esaminare le circostanze in cui ci troviamo, perché la mente ci indirizza sempre nella stessa direzione. Oppure, a volte, tendiamo a voler sovrapporre la ragione all’istinto, cosa che non sempre si rivela di aiuto. Quindi estrarre una di queste carte, quando la nostra mente è sgombra e pronta alla concentrazione, può offrirci uno spunto per interpretare il nostro momento attuale, all’inizio della nostra meditazione, dopo asana e pranayama. Trovo inoltre che questo esercizio possa essere considerato parte della tecnica del Tatraka esterno (Bahiranga), suggerita anche nell’Hatha Yoga Pradipika e a cavallo tra hatha e raja yoga. Tatraka significa “fissare lo sguardo in un punto”, ed è un ausilio alla meditazione in grado di sviluppare la nostra concentrazione e le nostre capacità mentali.

Il Trataka con i Tarocchi

La tecnica di esecuzione del Trataka è semplice: seduti in meditazione, in un luogo buio, accendiamo una candela e ne fissiamo la fiamma cercando di non chiudere gli occhi. Quando lo sguardo è stanco, abbassiamo le palpebre e manteniamo la concentrazione sull’immagine della fiamma che abbiamo guardato. Riapriamo gli occhi e ripetiamo, per alcuni minuti. La meditazione sui Tarocchi segue lo stesso principio. Seduti in posizione comoda, con la mente rilassata dalla pratica e sgombra da preoccupazioni e pensieri, estraiamo una carta dal mazzo dei 21 Arcani Maggiori. Posizioniamo la carta davanti a noi, e osserviamola senza giudicare. Non esistono infatti carte positive o negative: ogni simbolo rappresenta in questo caso il nostro stato d’animo o una particolare situazione che stiamo vivendo (sto preparando un piccolo manuale in cui analizzo ogni Arcano Maggiore per offrirvi maggiori informazioni, frutto dei miei studi e della mia esperienza con questi simboli).

L’Arcano Maggiore XVII, La Stella

Facciamo un esempio pratico: il Trionfo o Arcano Maggiore estratto questa mattina è “La Stella”, l’arcano XVII.

La carta del mazzo dei Tarocchi raffigura un cielo stellato, al cui centro risplende una grande stella. Una donna nuda, china su uno specchio d’acqua posto al centro di un vasto campo verde, ha in mano due anfore che irrigano il terreno e lo stagno. Sullo sfondo, un uccello si posa sui rami di un albero.

Questo Arcano, preso singolarmente, ha un significato molto favorevole. La Stella rappresenta una luce che ci guida. Può essere una visione, un sogno che stiamo cercando di realizzare, o un progetto che stiamo coltivando, a cui stiamo dedicando attenzione e cura. Il cielo sereno, le Stelle luminose, ci segnalano che possiamo fidarci delle nostre sensazioni e di quello che stiamo facendo, o ci incoraggiano a seguirle, ad agire nella direzione che abbiamo scelto o che sentiamo più vicina alla nostra autentica vocazione. Se siamo preoccupati per la nostra salute o la salute di una persona cara, La Stella ci rassicura, ci incoraggia ad intraprendere un percorso di purificazione, che ci ricompenserà. E’ insomma il momento giusto per occuparci di noi stessi. Se ci sentiamo soli, o abbiamo una preoccupazione relativa alle relazioni interpersonali, La Stella ci invita a guardarci intorno con occhi davvero aperti, perché possiamo facilmente circondarci di persone affini, che ci apriranno nuovi orizzonti.

Poniamo la carta estratta dal mazzo dei Tarocchi davanti a noi, e concentriamo su di essa il nostro sguardo. Quando gli occhi iniziano a lacrimare o sentiamo la necessità di sbattere le palpebre, chiudiamoli, e continuiamo a visualizzare questa carta, con tutti i simboli che rappresenta, con il nostro sguardo interiore. Quindi, apriamo di nuovo gli occhi, e torniamo a guardare la carta. Cerchiamo di capire il messaggio dell’Arcano Maggiore, di trovare i punti di contatto tra questo simbolo e la realtà che stiamo vivendo. Accettiamo il consiglio che il nostro inconscio ci ha inviato attraverso questo simbolo, e terminata la meditazione, affrontiamo la nostra giornata in sintonia con noi stessi e l’ambiente che ci circonda.

– Francesca d’Errico, 2017

Per una consultazione personale sul proprio Arcano Trataka, e maggiori informazioni su Tarocchi e meditazione, fmderrico@gmail.com

ENGLISH TRANSLATION

If you have been practing for  a few years, as in my case, some mental faculties are enhanced. This comes from an intense work on chakras (energy centres) opening through asanas and pranayama techniques. Intuition is refined, and we become more aware of other people’s mood and even places (like shalas) energy.

I have been very lucky to be gifted with a strong intuition from a very early age. I cultivated this gift studying astrology and Tarot symbolism – two fine arts that have been taught to me by my very first teacher, my grandmother, who introduced me to expert guides. Tarots in particular have been an incredible aid for meditation, which in turn is the most powerful tool we can turn to, rather than relying on divination or clearvoyancy (as Sri K. Pattabhi Jois, a vedic astrologer himself, used to say: “When we see God, we don’t need to know our future”). Let’s see how.

What are Tarot cards?

Tarots are Italian play cards created in the XV century. Since XVIII century they become mainly used for divination purposes, and the 21 Major Arcana or Greater Secrets were enriched with symbols from various exoteric traditions, from the Jewish kabbalah to the French occultists. The Major Arcana are in fact the cards mainly used by clearvoyants thanks to their strong symbolism. But even if we do not want to improvise ourselves as card readers, we can use these symbols as a meditation aid. All we need to do is draw a card from the deck right before our concentration/meditation exercises. I am glad to know that even one of the most famous yoga teacher worldwide,  Eddie Stern, trusts these cards and their symbols! 

I have been taught that drawing some of the 21 Major Arcana out of the deck is a very good way to better understand which energies are surrounding us at the moment. Tarots can be a useful symbolic tool to read our circumstances, our moods, our emotions. It’s just like understanding our dreams as a key to reveal something we fail to see when we are awake. I don’t like talking about “reading the future”, since I truly believe we build our future every minute. Also, I believe that projecting ourselves into a time that has not come yet is a contradiction with Yoga philosophy and its techniques, teaching us to live in the present moment. I do think, however, that we are not always objective in analising a situation, since our mind often sends our thoughts always in the same direction. Or, at times, we tend to favor reason over instinct, and that’s not always a good thing. Therefore drawing a Tarot card when our mind is free and ready for meditation can be a way to read our present moment. We can do this at the beginning of our meditation time, right after asanas and pranayama. Such exercise can very well fit into the external  Tatraka technique called Bahiranga (found in the Hatha and Raja Yoga tradition) as explained in the Hatha Yoga Pradipika. Tatraka means “fixing our gaze to a poin”, and it’s a meditation aid that helps developing our concentration and mental abilities.

Trataka with Tarot cards

The Trataka technique is rather simple: sit in meditation, in a dark room, lit a candle and fix the flame trying not to blink the eyes. When the eyes get tired, we can close them and keep our concentration on the internal image of the flame. We then re-open our eyes and repeat the whole cycle a few times. Meditation on Tarot cards follows the same principle. Sit in a comfortable posture, relaxing and emptying the mind, we draw a card from the 21 Major Arcana deck. We position the card in front of us, observing it with no judgement. There are no positive or negative cards: in this particular instance, every symbol simply represent our mood or our current circumstances (by the way: I am preparing a manual offering more info on Tarots, based on my studies and personal experiences).

A practical example: this morning Tarot is “The Star”, XVII. 

The card picture a star-filled sky. A big star shines right in the middle. A naked woman lean over a pond placed in the middle of green field. She holds two jars, pouring water on the earth and in the pond itself. On the background, a bird stands on a tree.

This card usually heralds very good news. The Star represents a light guiding us through life. It can be a vision, a dream we are trying to turn into reality, or a project we are working on. The sky is clear, full of bright stars: a sign that we can trust our feelings and what we are doing, or an encouragement to follow our vocation. If we are worried about our or somebody else’s health, the Star is very reassuring and tells us that any purification ritual will be favorable. It’s the right time to look after ourselves. If we are or feel lonely, the Star is an invitation to open our eyes and find like-minded people.

Let’s place the Tarot card right in front of us, and let’s fix our gaze on it. When our eyes feel tired, we can close them and keep concentrating on the internal image of the card and its symbols. We can repeat this cycle several times. Let’s try to understand the message of the card, its points of contact with our current experience. Let’s open our mind and our heart to the advice that is coming from deep inside through this symbol. After meditation, let’s go back to our daily chores with renewed energy and trust in ourselves and the energies that are surrounding us.

– Francesca d’Errico, 2017

For a personal consultation on your personal Tarot Card for Trataka meditation, and more info on Tarots and meditation, email me:  fmderrico@gmail.com

Shakti ed energia: la forza del cambiamento

“Come termine, śakti indica, nell’Induismo, il potere di un Dio di dare luogo al mondo fenomenico e al piano cosciente della creazione, la Sua capacità creativa immanente; come nome proprio, Śakti indica l’Energia divina personificata.” (wikipedia)

‘Shakti and Shiva’, immagine di J.B. Hare, 2003

Tra i termini in sanscrito più abusati sui social c’è sicuramente la parola “Shakti” – e in italiano, segue a ruota la parola energia. Shakti è di solito utilizzata per descrivere la controparte del maschile Shiva, o più in generale per esprimere il concetto di “energia femminile”. Ma cosa significa realmente Shakti, e soprattutto, se parliamo di energia nello Yoga e nel Tantra, a cosa ci riferiamo? Sfogliando il bellissimo blog di Christopher Hareesh Wallis, studioso di Tantra e autore dell’articolo sui chakra che ho tradotto qualche settimana fa, ho trovato questo interessante approfondimento, che traduco per voi. Il concetto è ben più complesso di quanto vogliano farci credere i siti che tendono a semplificare lo yoga, e più in generale il linguaggio con cui esprimiamo il tantra e le filosofie che sottendono queste discipline. E’ tuttavia immensamente affascinante e stimolante immergersi in questi concetti, soprattutto per chi desidera approfondire ed aprirsi ad una comprensione più profonda. In nessun modo il post può essere conclusivo perché, come dice giustamente l’autore, le parole possono solo indicare, ma non descrivere, l’esperienza dello Yoga. Buona lettura!

Di cosa parliamo quando diciamo ‘energia’?

“Ho un nuovo studente in classe. Come tutti i ‘principianti’ mi pone domande fondamentali che non sono mai una perdita di tempo. Nelle cerchie spirituali, non c’è parola più utilizzata di ‘energia’ – e qualche giorno fa, durante una lettura in classe, questo studente mi ha chiesto, semplicemente: “Ma cosa significa veramente energia?”. Mi ha quindi scritto, riportando i seguenti esempi, tratti dalla nostra lettura:
 
“Ecco alcuni dei modi in cui Sally Kempton (nella prefazione al libro Shakti Coloring Book), usa la parola energia. Ognuno di essi presuppone un significato diverso:

1) ‘Le divinità qui rappresentano sottili energie archetipiche, presenti nell’universo e all’interno di ognuno di noi. E possiamo lavorare con queste immagini e suoni sacri come punti focali per la meditazione, nel tentativo di introiettare l’energia della divinità’.                                                             2) ‘Ho notato che gli yantra evocano precise energie in me’ e ‘ma allo stesso tempo, emanano una sensazione di morbidezza, di energia dolce e palpabile’.
3) ‘Colorare questi mandala e queste divinità può essere una profonda pratica spirituale, che può integrare le energie separate nella nostra psiche, e connetterci alle loro ottave più elevate’.

Quindi ‘energia’ ha significati diversi a seconda del contesto?”

Ecco la mia risposta: ‘Energia’ è la traduzione del sanscrito shakti, che significa anche ‘potenza, potere, capacità’. Letteralmente la parola ‘energia’ significa ‘il potere di eseguire un lavoro interno’ – sia in inglese (dal greco energeia) che in sanscrito. A volte la parola viene usata in modo generico nelle cerchie spirituali, oscurandone questo fondamentale significato. Per esempio, è spesso usata (a mio parere impropriamente) come equivalente del sanscrito bhāva, che significa ‘sensazione’, ‘stato mentale’ o persino ‘vibrazione’ in modo più colloquiale (come quando diciamo ‘questo posto ha una bella energia’, per dire ‘sto bene in questo posto’, o quando diciamo ‘mi piace la tua vibrazione’). Sally nel suo scritto usa al punto 1. il termine in modo corretto, per indicare ‘potere spirituale che può influenzare la trasformazione interiore’; al punto 2. in modo più generico, come equivalente di ‘sensazione’, quindi bhāva.  Al punto 3. utilizza questa parola come equivalente delle ‘divinità’ che dobbiamo evocare e/o integrare per provocare la trasformazione interiore di cui sono capaci. Certamente ci sono energie latenti nel nostro essere che vengono attivate attraverso queste pratiche. 

Lo studente mi ha risposto: “Non ho capito bene. Nello specifico:

1) Cosa significa un ‘aspetto del mio essere’ qui? E’ una rappresentazione, o provare delle emozioni, o la sessualità – semplicemente una parte dell’esperienza dell’esistere? O qualcosa di più?
2) Cosa significa ‘integrare’ in questo contesto?
3) Che cos’è la trasformazione interiore?

Se tu potessi darmi qualche esempio per illustrare questi punti, penso che capirei meglio e più chiaramente il concetto (ho sentito queste parole e queste frasi molte volte, ma sempre senza esempi o spiegazioni, e non le ho mai comprese davvero)”.

Fantastico! Ho pensato tra me e me. Sono sempre troppo pochi gli studenti che chiedono di fare chiarezza sui concetti fondamentali, e troppo pochi gli insegnanti che spiegano ciò che assumiamo sia già adeguatamente compreso. Gli ho risposto così:

Ci sono innumerevoli aspetti del nostro essere – sia che parliamo di raccoglimento, sessualità (che si suddivide a sua volta in molti aspetti, dall’animalesco all’infantile, dal raffinato allo spirituale), di giocosità, di capacità di auto-sabotarci, o al contrario di onorare e riverire ciò che proviamo, la nostra capacità di esperire la libertà radicale – e infiniti altri. Siamo immensi – conteniamo moltitudini! E alcuni di questi aspetti sono già attivi ed espressi, mentre altri sono latenti e attendono di emergere. Alcuni aspetti sono coerenti con un modello sottile che possiamo chiamare divinità. Ad esempio, Shiva relaziona la nostra capacità di esperire la libertà e il senso di vastità alla capacità di essere immobili e silenziosi – una relazione importante che la nostra mente potrebbe non aver identificato. Pārvatī connette potere e disciplina ad umiltà e arrendevolezza, unendo questi concetti in un modello che, una volta esperito, produce un enorme beneficio, molto superiore all’esperienza singola di ognuna di queste facoltà. Questo è uno degli scopi primari delle divinità: ci mostrano schemi che altrimenti resterebbero oscuri, danno forza a modelli che possiamo coltivare. 

Quando parliamo di integrazione siamo davanti ad un immenso argomento, ma brevemente, ci sono molti aspetti di un individuo che non operano in perfetta armonia con il tutto, perché questi aspetti sono stati rifiutati, giudicati o demonizzati (e la sessualità è un buon esempio, ma ce ne sono molti altri, come la capacità di agire in modo naturale e spontaneo, ed altre qualità positive come l’entusiasmo, che in molti sono state giudicate e represse). Qualsiasi aspetto che abbiamo rifiutato (anche moderatamente) diventa parzialmente ‘separato’ o diviso dall’immagine conscia del nostro sé, e può essere esperito solo in circostanze speciali. (In casi estremi, alcuni sviluppano un Disturbo Dissociativo dell’Identità, o personalità dissociate – ma tutti noi abbiamo una moderata dissociazione finché non compiamo il nostro cammino yoga). Quindi questi aspetti separati/rifiutati devono essere reintegrati. 

Ci sono dunque aspetti del nostro essere che sono latenti, dormienti, in attesa di essere espressi. Ma quando gli aspetti latenti riemergono, solitamente non rientrano nella veste dell’immagine conscia del sé, e devono quindi essere ‘integrati’ – ovvero accettati pienamente, accolti, ricevuti nel nostro essere (azione che richiede un’ammorbidimento o un’arrendevolezza delle immagini statiche del nostro sé). Quando questa integrazione di aspetti a lungo rifiutati ha luogo, spesso proviamo un flusso intenso di emozione e/o prāna (energia della forza vitale), che emerge attraverso il nostro essere (specialmente se questa integrazione, invece che graduale, è improvvisa), perché ognuno di questi aspetti contiene energia accumulata non accessibile al nostro intero sistema, fino a quando non viene disgregata per diventare quindi accessibile e fondersi con l’insieme attraverso l’integrazione. 

Sebbene questa risposta somigli più alla psicologia che allo yoga, mi sto limitando ad articolare principi presenti in testi yogici e tantrici (si legga il capitolo 11 di The Recognition Sutras), che sono raramente dettagliati in quei testi, poiché il sanscrito non possiede il vocabolario sistematico che oggi abbiamo a disposizione. 

La ‘Trasformazione Interiore’, dunque, è questo misterioso processo di scoperta e re-integrazione delle nostre parti ‘perdute’, e al tempo stesso la capacità di toccare la piena vastità del nostro essere più autentico attraverso la pratica spirituale. Entrambi i concetti ci rendono una ‘massa estatica di consapevolezza armonicamente unificata’ (in sanscrito. chidānanda-ghana-svātma e ci donano la capacità di esperire spontaneamente e senza ostacoli il flusso dell’energia della forza vitale, a beneficio di tutti gli esseri (e a dispetto del linguaggio ‘grandioso’, si tratta spesso di una sensazione assai semplice e soave). 

Appendice 1: Sarebbe negligente non aggiungere un commento sull’aggettivo più abusato nelle cerchie spirituali, ‘energetico’. Molti, oggi, utilizzano ‘energetico’ in luogo di ‘sottile’ (dal sanscrito sūkṣma), ovvero ‘non percepibile attraverso i cinque sensi’.  (L’ho sentito usare anche durante lezioni di asana al posto di ‘isometrico’, presumibilmente perché l’uso isometrico dei muscoli non è percepibile all’occhio dell’osservatore. Questo è un errore. Immaginate di tradurre sūkṣma-śakti ‘energia energetica’!  Vi prego non fatelo).

Appendice 2: come disse Ekabhūmi, dovremmo evitare di formare categorie fisse basate su questi insegnamenti relativi a shakti. Formare ‘categorie definite, controllate, strutturate, prevedibili’ è problematico, perché queste strutture mentali (vikalpas) si ossidano e si pietrificano velocemente, resistendo quindi al libero flusso dei processi a cui ci siamo riferiti in questo post. Le parole, in questa dimensione dell’esperienza umana, possono solo indicare, ma non descrivere.

Christopher Hareesh Wallis

Christopher Hareesh Wallis

Traduzione e commenti, Francesca d’Errico

Hatha Yoga, la ricerca di uno standard

… Ovvero standardizzare ciò che non ha standard

Recentemente mi sono occupata su queste pagine della difficile situazione dello Yoga e degli organismi che tentano di creare degli standard per l’insegnamento di questa disciplina (come la Yoga Alliance). Scorrendo l’interessante blog di James Dylan Russell, ho scoperto che anche in UK, dove mi sono formata come insegnante dieci anni fa, la situazione si sta complicando, riflettendo un dilemma che sta diventando di proporzioni globali. La domanda che si pone sempre più frequentemente, soprattutto tra praticanti avanzati e insegnanti, è se è davvero possibile identificare degli standard che qualifichino all’insegnamento dello Yoga, e sotto quale egida debba finire la nostra amata pratica. In Italia, al momento sembra che il CONI stia per cambiare idea togliendo lo Yoga dalle discipline sotto il suo patrocinio, azione che getterebbe non poco scompiglio a livello organizzativo e fiscale per quasi tutte le scuole italiane (sebbene io stessa nutra delle perplessità sull’inserimento dello Yoga tra le discipline sportive, principalmente perché la sua caratteristica è proprio l’assenza – almeno come principio – di competizione nella pratica).

Anche all’estero la situazione si fa difficile. Si direbbe che, un po’ ovunque, le amministrazioni pubbliche abbiano “fiutato” nel dilagare dello Yoga aria di business, e più che interessarsi alla qualità dell’insegnamento, rivolgano la loro attenzione a come tassare quella che probabilmente ritengono una fonte di guadagni (ahimé assai scarsi, e chi lavora seriamente lo sa) finora passata inosservata. In realtà, e chi insegna lo sa bene, a guadagnare non sono quasi mai scuole ed insegnanti, che si limitano a restare a galla, ma i business paralleli allo yoga, che sfruttano la sua attuale popolarità in modo più o meno onesto. Ma questa sarebbe materia di un altro post: quello che mi ha colpito nell’articolo di James è invece l’aspetto filosofico che sottende la questione, ovvero se sia davvero possibile, in quale misura e da parte di chi, creare uno standard identificativo per chi insegna con serietà e passione. Lascio a voi le riflessioni del caso, e traduco qui di seguito il bellissimo lavoro di James.

Hatha Yoga Pradipika – immagini di Global Hindus

“La comunità Yogica britannica si è recentemente trovata a discutere in modo acceso la proposta governativa di creare degli standard occupazionali nazionali per l’insegnamento dello Yoga (National Occupational Standards, NOS). Molti insegnanti mettono in dubbio le capacità dell’organizzazione preposta all’identificazione di questi standard, la Skills Active (SA), che sta rivolgendo la sua attenzione proprio alle forme di Hatha Yoga.

‘Il NOS si limiterà a coprire l’insegnamento dei principi fondamentali dell’Hatha Yoga, e non intende controllare o classificare i singoli insegnanti, le loro pratiche e il loro credo. Il processo di sviluppo del NOS si concentrerà sull’insegnamento dell’hatha yoga, che non prevede pregiudizi, scopi o obiettivi religiosi, quindi promuoverà lo yoga in senso inclusivo, aperto ad ogni fede e non confinato ad una sola’ (C. Larissey, Standards & Qualifications, SA)

Da praticante di Hatha Yoga, questa dichiarazione mi porta a considerare:

  1. Quali sono, ed esistono, i “principi fondamentali dell’Hatha Yoga”?
  2. E’ corretto dire che l’hatha yoga non ha pregiudizi, scopi o obiettivi religiosi?

Cos’è l’Hatha Yoga?

Hatha Yoga è una definizione generica che denota una serie di tecniche fisiche ed energetiche che facilitano l’esperienza dello Yoga. ‘Hatha’ è un termine sanscrito che significa ‘forza’. Tradizionalmente, il termine “qualifica gli effetti delle sue tecniche, piuttosto che gli sforzi richiesti per eseguirle” (Birch, 2011). Per esempio, l’esperienza dell’energia ascendente della kundalini attraverso l’asse centrale del corpo potrebbe essere definita una di queste ‘forze’.

Una interpretazione alternativa, e più recente, fornita da Sri K. Pattabhi Jois, recita:

“Per comprendere il termine Hatha, dobbiamo sapere che ‘ha’ identifica Surya Nadi (il canale energetico solare), e ‘tha’ Chandra Nadi (il canale energetico lunare). Il processo di controllo del prana (respiro) che si muove attraverso queste due nadi è conosciuto come Hatha Yoga”.

Entrambe le interpretazioni puntano ad una metodologia di trasformazione fisica, in cui l’energia sottile è diretta all’obiettivo ultimo, ‘moksa’ – o la liberazione dello/a yogin durante la sua esistenza terrena.

Origini

“Ode a Sri Ganesha/l’Hatha-pradipika è ora composto/mi inchino a Sri Adinath – Shiva, che propagò la saggezza dell’Hatha Yoga, che è considerata la scala per raggiungere il più alto stato del Raja Yoga” (Hatha-pradipika 1.1)

L’Hatha Yoga si è sviluppato originariamente nel nono-decimo secolo ed è una sintesi di Tantra e Ascetismo, che consolida un vasto spettro di tecniche che si concentrano sul contenimento dell’energia sottile; trattenimento del seme e risveglio di una potente energia spirituale – ‘kundalini sakti’. I pionieri dell’hatha yoga erano asceti che vivevano ai margini della società indiana. Inizialmente, i loro insegnamenti venivano trasmessi oralmente, e a partire dall’undicesimo secolo vennero trascritti in sanscrito. L’Hatha Yoga crebbe quindi in popolarità attirando a sé seguaci Induisti, Buddisti, Jainisti, Musulmani e Sufi. Uno dei primi manuali illustrati di hatha è un testo persiano chiamato ‘Bahr al-hayat’ – Acqua di Vita (1602).

Sebbene l’interesse nell’hatha yoga incontri un declino tra il 18esimo e il 19esimo secolo, il 20esimo secolo mostra un rinascimento di questa disciplina, capeggiato da maestri come T. Krishnamacharya, Swami Kuvalayananda e Swami Sivananda, che combinano l’hatha con lo Yoga di Patanjali, i Neo-Vedanta e il Tantra.

Nel convergere con la modernità, i parametri e l’identità dell’hatha sono mutati, e molti dei suoi elementi più estremi ed esoterici si sono persi. L’automortificazione si è intersecata con la cultura fisica occidentale: il patriarcato con il femminismo e la rinuncia con il consumismo. La pratica che ne è emersa promuove l’hatha come un’attività che mira alla salute e al benessere a tutto tondo. In questa nuova veste l’hatha yoga è stato esportato con successo in occidente, dove vive una rinnovata popolarità.

L’Hatha moderno

Contemporaneamente, lo yoga transnazionale è spesso caratterizzato dall’enfatizzazione degli asana – posizioni, al punto che per molti la parola ‘hatha’ è diventato sinonimo di posture:

“Hatha si riferisce semplicemente alla pratica delle posizioni fisiche dello yoga, quindi Ashtanga, Vinyasa, Iyengar e Power Yoga sono tutti appartenenti all’Hatha Yoga” (YogaJournal.com – n.d.t.: e questa definizione superficiale arriva dalla testata di Yoga più famosa al mondo. Aiuto).

I ricercatori hanno coniato il termine ‘Yoga Posturale Moderno’ per distinguere questo approccio dal più vasto sistema dell’hatha yoga. Per alcuni insegnanti, ‘hatha’ può sembrare un’etichetta sempre più ridondante e legata a un sistema medievale che ha ben poco a che fare con la loro personale interpretazione dello yoga. Molti altri insegnanti continuano ad allineare il loro yoga con l’hatha, ed è uso comune trovare l’hatha yoga nell’orario di centri o palestre – termine che solitamente denota una lezione facile, che può contenere una varietà di pratiche.

L’Hatha Yoga è alla fine un concetto amorfo, generico, in cui il significato è costruito, formato e adattato attraverso le pratiche e le esperienze condivise da chi vi partecipa.

I principi fondamentali dell’Hatha Yoga?

Tra i testi principali e fondamentali dell’hatha yoga sono riconosciuti: ‘Hatha-pradipika (15esimo secolo), ‘Siva Samhita (16esimo) e ‘Gheranda Samhita’ (17esimo). Sono testi che descrivono in dettaglio molti dei gruppi chiave delle pratiche comuni a quasi tutte le tradizioni:

  • Yama & Niyama – restrizioni etiche e osservanze individuali (HP)
  • Asana – posture (HP, GS)
  • Sat-karma/Kriya – purificazioni (HP, GS)
  • Mudra & Bandha – continimento delle energie sottili (HP, GS, SS)
  • Pratyahara – ritiro sensoriale (GS)
  • Pranayama & Kumbhaka – regolazione/sospensione del respiro/forza vitale (HP, GS)
  • Dhyana – meditazione (HP, GS, SS)
  • Samadhi – chiara percezione (HP, GS, SS)

Sebbene queste componenti formino la base pratica dell’hatha yoga, la definizione ‘principi fondamentali’ è inadatta, poiché le pratiche non sono prescritte come pre-requisiti assoluti o soggetto di fede.

All’interno del più vasto contesto dello yoga, alcuni autori hanno posizionato l’hatha come ausiliario alla pratica del raja yoga (yoga regale) che viene variamente ascritto al Tantra o allo Yoga di Patanjali: “Non è possibile avere successo nel Raja Yoga senza Hatha, e viceversa” (Hathatatvakaumudi 2.28)

Spiritualità rappresentata

A differenza di tradizioni yogiche antecedenti, in cui il corpo è respinto come un ostacolo alla liberazione, gli hatha yogin utilizzano il corpo come strumento per la liberazione, e in virtù del loro ‘sadhana’ (pratica), trasformano il ‘ghata’, il vascello corporeo, da mondano a divino.

“L’Hatha Yoga non cerca la mera esperienza trascendentale. Il suo obiettivo è trasformare il corpo umano rendendolo un veicolo utile alla realizzazione individuale”. (Fuerstein 1990)

La concezione del corpo è metafisica: è percepito come una sottile matrice di canali e vortici energetici, attraverso i quali l’energia spirituale e il potenziale super-umano posso essere percepiti e resi manifesti.

“Il corpo non è, per l’hatha yogin, mera massa di materia vivente, ma ponte mistico tra esistenza fisica e spirituale” (Aurobindo, 1970)

Pregiudizio religioso

  1. “Religione: una serie di credo relativi alla causa, alla natura e allo scopo dell’universo, specialmente quando lo si considera la creazione di uno o più agenti super umani, solitamente comprensiva di osservanze e rituali votivi, e spesso contenente un codice morale che governa la condotta delle vicende umane.
  2. Una specifica serie di credo e pratiche generalmente concordate da un numero di persone o da sette: la religione cristiana, la religione buddista.
  3. Un corpo di individui che aderiscono ad una particolare serie di credo e pratiche.” (dictionary.com)

Se ci basiamo sulle definizioni sopra elencate, l’hatha yoga corrisponde a molti dei criteri di una religione:

1.  Una serie di divinità e agenti sovrannaturali vengono citati in seno alla sua letteratura. Queste entità sono generalmente associate all’Induismo, o al suo vernacolo precedente, ‘Sanatana-Dharma’.

“Una volta avvicinai Brahma, che sedeva su un fiore di loto, dotato di quattro volti, eterno e non deperibile, creatore del mondo e di tutti i suoi oggetti animati e inanimati, noto come ‘parameshti’. Esprimendogli la mia devozione e prostrandomi dinanzi a lui con riverenza, gli chiesi della materia (lo Yoga) di cui voi mi chiedete ora” (Yoga Yajnavalkya 1.17-18).

Sebbene il panteon delle divinità frequenti i testi dell’hatha, e le pratiche votive facciano parte del sadhana di alcuni yogin, le tecniche non sono settarie. Il credo in dottrine teologiche o nell’eziologia è opzionale, così che il successo nell’hatha yoga non dipende dalla fede o dalla provvidenza divina. Un ‘codice morale che regola le vicende umane’ è presente nel corpo dei dieci Yama e dieci Niyama, restrizioni etiche e osservanze individuali (in modo simile, l’Ashtanga Yoga di Patanjali contiene 5 yama e 5 niyama).

“Per essere degni di insegnare, gli studenti devono prima rispettare i requisiti morali noti come Yama e Niyama, pre-requisiti morali allo studio dello Yoga” (Theos Bernard, 1950).

2. I praticanti partecipano ad una varietà di pratiche, condividendo e affermando il credo fondamentale che tali pratiche abbiano il potenziale di facilitare la crescita individuale. La struttura di una tipica lezione moderna di yoga è altamente ritualizzata e i temi della trasformazione e della trascendenza restano centrali. Robert Orsi ha classificato queste tipologie di esperienze e narrative condivise come “religione vissuta”.

3. La comunità globale dei praticanti di hatha è un esempio di “gruppo di persone che aderiscono ad una particolare serie di credo e di pratiche”.

Sebbene il pregiudizio religioso possa essere dimostrato con certezza, l’hatha yoga è sempre stato inclusivo – attirando e accogliendo praticanti provenienti da una moltitudine di fedi e comunità:

“Che sia un bramino, un asceta, un buddista, un jainista, un portatore di teschi o un materialista, il saggio che si impegna con fede e devozione costante alla pratica dell’hatha yoga sarà premiato con il successo” (Dattatreyyogasastra – il testo più antico sull’insegnamento dell’hatha yoga).

Scopi e obiettivi

Storicamente l’hatha yoga ha un definito proposito, che è condiviso in tutte le tradizioni: ‘Moksa’, la liberazione dall’inerente ‘Duhkham’, difficoltà del ‘Samsara’, l’esistenza terrena.

“Non c’è altra via se non lo yoga, che porta alla liberazione dell’essere umano” (Hathatatvakaumudi, 1.18)

Gli scopi associati dell’hatha yoga (passato e presente), includono: la trascendenza, l’immortalità, un corpo adamantino, il benessere, la buona salute, il contenimento del seme, i poteri soprannaturali, la pace mentale, la meditazione, la regolazione del respiro, la realizzazione individuale, l’illuminazione e la terapia. Tutte queste aspirazioni condividono la fondamentale premessa che l’hatha yoga sia un mezzo per la crescita individuale.

Conclusione

L’Hatha Yoga è un cammino di trasformazione fisica e liberazione spirituale. Sebbene il termine ‘principi fondamentali’ sia inappropriato, esistono serie distinte di tecniche comuni a molte tradizioni. Comunque, nessuna di queste parti è obbligatoria, ed è presente una considerevole libertà di adattamento e innovazione.

L’Hatha Yoga si è evoluto attraverso le lenti filosofiche e la visione del mondo del Sanatana Dharma, e, in ciò, è dimostrabile un pregiudizio. Ha inoltre definiti scopi e obiettivi. I temi della trasformazione personale, della trascendenza, della meditazione e della liberazione sono durevoli e persistenti. Un buon numero di praticanti sceglie di seguire l’hatha yoga insieme ad altre forme di yoga, spiritualità e indagine personale.

Tuttavia, per alcuni praticanti contemporanei, l’hatha yoga non è un’attività religiosa né spirituale. Un’interpretazione popolare dello Yoga è concepirlo come una serie di esercizi respiratori e di allungamento per il raggiungimento della forma fisica e della salute. Alcuni rigettano interamente il termine Hatha e la sua associazione con un sistema arcaico che ha ben poco in comune con la loro pratica.

Quindi: mentre per alcuni l’hatha yoga è una pratica religiosa, o un’aggiunta ad altre forme di religione e spiritualità, per altri non lo è. Entrambe le prospettive sono valide e importanti. La libertà ideologica si è alimentata in tutta la storia dell’hatha yoga e ritengo sia cruciale continuare ad onorare e rispettare la nostra diversità collettiva.

Nella dichiarazione rilasciata originariamente da Skills Active si dice che il NOS “non intende controllare o classificare i singoli insegnanti, le loro pratiche e il loro credo”. Tuttavia la stessa dichiarazione descrive l’hatha yoga come privo di “pregiudizio, scopo o obiettivo religioso”. Sembra esserci una contraddizione dovuta ad una scarsa comprensione della pratica stessa.

La mia preoccupazione è che se lo standard proposto si concentrasse principalmente sulla pedagogia posturale, sarebbe riduttivo e fallirebbe nell’assimilare l’immenso scopo dell’hatha yoga. Non possiamo ignorare significato, cultura, costumi e testi che appartengono a una tradizione che ha migliaia di anni. Allo stesso modo, non possiamo ignorare i mille diversi modi in cui le persone oggi scelgono di costruire significato e identità nel partecipare alle metodologie di questa tradizione. L’Hatha Yoga è un fenomeno transnazionale che affonda le sue radici nelle tradizioni spirituali dell’Asia meridionale. Come tale, ritengo che dovrebbe essere considerato in seno ad un contesto globale e dalla prospettiva dei suoi partecipanti, insegnanti, ricercatori e degli yogin indigeni.

Mi oppongo al tentativo che una minoranza che si è autoeletta imponga la sua interpretazione dello yoga su una vastissima comunità. Uno standard per l’hatha yoga che manchi di considerare l’intera vastità delle sue pratiche e la diversità dei suoi praticanti, finirebbe per legittimare la secolarizzazione, la diminuzione e la trivializzazione di una tradizione vibrante e viva.

“Non esiste uno standard per l’insegnamento dell’hatha yoga, perché non esiste uno standard per la pratica dell’hatha yoga”.

– James Dylan Russell

James Dylan Russell

Traduzione e commenti, Francesca d’Errico

I fondamenti dello Yoga del coraggio

Io, a Mysore. Foto di Alessandro Sigismondi

David Garrigues sta conducendo online, in questi giorni, una bellissima serie dedicata ai fondamenti degli asana che compongono le serie dell’Ashtanga Vinyasa Yoga. E’ un progetto davvero interessante soprattutto per chi pratica da molto tempo, e si inserisce nel contesto di ricerca che ultimamente sto affrontando, per apprendere tutti gli strumenti necessari a rendere questa pratica accessibile a tutte le età e in qualsiasi condizione fisica. Comprendere fino in fondo gli elementi che compongono ogni asana è un passo funzionale all’accesso delle posture più complesse. Ogni posizione affonda le sue radici nel respiro e nell’attivazione dei bandha, eppure tendiamo, nella fretta di raggiungere l’obiettivo, a dimenticare di mettere in pratica proprio questi due elementi che ci rendono possibile ottenere “sthira sukham asanam“, la posizione stabile e confortevole descritta da Patanjali negli Yoga Sutra.

Tuttavia non sono solo fisiche le basi dello Yoga. Anzi. Le fondamenta psichiche o spirituali (a seconda di come vogliamo approcciare questa disciplina) sono sicuramente quelle a cui dobbiamo guardare più spesso. E ancora una volta, spesso preda di meccanismi egoici e competitivi tipici della nostra cultura, tendiamo a dimenticare cosa ci ha spinto verso lo Yoga, tanti anni fa, quando abbiamo iniziato. Nel mio caso la spinta è arrivata dalla sofferenza. Soffrivo fisicamente nell’eseguire i miei allenamenti (ero ballerina e personal trainer, e mi allenavo quotidianamente in palestra) e soffrivo psicologicamente (ero ad un punto di rottura con il mio impiego in una multinazionale). Dunque alla base del mio approccio allo Yoga c’era il desiderio di superare la sofferenza. Eppure anche per smettere di soffrire occorre avere coraggio: perché siamo esseri abitudinari, e a volte all’essere felici preferiamo la sicura palude dell’infelicità che conosciamo. Ecco perché il post di David Garrigues, oggi, mi è sembrato particolarmente interessante: perché parla dei fondamenti dello Yoga non solo dal punto di vista fisico. Lo traduco per voi. Buona lettura!

La ricompensa arriva quando i nostri sforzi sono indirizzati ad un preciso obiettivo. 

“Lo Yoga nasce come ausilio alla sofferenza. Questo è uno dei più importanti fondamenti dello Yoga. Pratichiamo Yoga perché stiamo soffrendo. All’inesperto, lo yoga può sembrare un modo negativo per rivolgersi alla sofferenza. Lo Yoga oggi viene infatti presentato come esercizio estatico. Quando lo pratichiamo stiamo bene, ed è per questo che lo facciamo. Andiamo a lezione di Yoga perché vogliamo stare bene. In realtà, lo Yoga è una forma di allenamento che ci torna utile quando soffriamo. Proprio così, ecco cos’è lo Yoga. Pensate a come suona meglio, detta così. Non lo pratichiamo per “sentirci bene”. No: lo facciamo perché stiamo soffrendo, ed è la nostra risposta alla sofferenza.

Abbiamo bisogno di un serio allenamento per rispondere in modo efficace e curativo a ciò che ci fa soffrire. Non è un’impresa facile, perché la nostra cultura e la nostra natura umana tendono ad evitare la sofferenza. Evitiamo di soffrire appagando i nostri sensi. Usando i farmaci. Cerchiamo di evitare e di non sentire, di non esperire. In questo senso, utilizziamo in modo il mondo materiale in modo errato. Usiamo il mondo esterno per cercare di alleviare la sofferenza, e fino a un certo punto i beni materiali possono aiutarci. Da ragazzo ho frequentato una scuola “hippy”, dove non esistevano i voti ed era possibile creare da soli il proprio programma scolastico. Avevo un insegnante che adoravo, entrava in classe e diceva: “quando sono giù, mangio una fetta di dolce fatto da mamma”, e lo mangiava davanti a noi. Quindi certo, possiamo usare le cose materiali, come un dolce, per non sentire la sofferenza.  Non sto dicendo che sia un male. Il punto è che lo facciamo troppo spesso, e purtroppo c’è un limite al sostegno che questi beni possono darci nell’alleviare il nostro dolore. Lo Yoga invece ci offre una preparazione, un mezzo interiore, indipendente, qualcosa a cui possiamo attingere autonomamente, e questa è la sua base, il suo fondamento. 

dal sito di David, il corso dedicato ai fondamenti della pratica

Spesso abbiamo bisogno di un evento traumatico per riconoscere la nostra sofferenza, ma in sintesi, tutti noi passiamo una parte della nostra giornata soffrendo, preoccupandoci, provando paura, o desideri distorti, incontrando persone che ci causano problemi – eppure, non vogliamo parlarne e tantomeno pensarci. Dobbiamo invece riconoscere e guardare il momento stesso in cui proviamo sofferenza. Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione all’interno, e notare cosa avviene: cosa proviamo?   Questo è il nostro allenamento yogico: essere autentici e ricettivi rispetto ai nostri sentimenti. E questo, in sé, ci rende più forti. Diventiamo alleati di noi stessi. Quando sappiamo che stiamo soffrendo, e guardiamo in faccia questa sofferenza invece che proiettarla altrove, qualcosa avviene dentro di noi. E’ qualcosa che rende questa sofferenza meno intensa, quantomeno più gestibile. La vita non ci butta addosso situazioni che non possiamo gestire, se decidiamo di abbracciare e sottoporci a questo allenamento. Se comprendiamo questo elemento fondamentale, praticare sarà più facile, perché incontreremo la nostra sofferenza in modo più organico.  E’ un’arma importante nel nostro arsenale; anche il dolce della mamma lo è, certo, ma ancora di più lo è il nostro respiro, ed eseguire una posizione yoga. 

Questo porta la tecnica di esecuzione degli asana nel contesto corretto. Credo che il modo in cui eseguiamo, ad esempio, gli inarcamenti, sia importante. Ma lo è altrettanto costruire, nella nostra pratica, un luogo di perdono, compassione e cura di noi stessi. Sembrano concetti ovvi, ma non è così. La cura di sé non è automatica: molto spesso non ci prendiamo cura di noi. Ci comportiamo in modo aggressivo, egoista, evasivo. E il perdono è la chiave. Perdono per i nostri errori, la nostra ignoranza, la nostra rabbia, la nostra mancanza d’amore, i nostri difetti caratteriali. E’ una sfida. Ecco perché lo yoga è un allenamento ed ecco perché è così difficile: perché ci costringe a guardarci in faccia, e a guardare come combattiamo contro noi stessi. E questa è la ragione per cui lo yoga è una pratica spirituale, e anche una pratica molto dura. Non è una regola fisica: nessuno è obbligato a seguirla. Possiamo benissimo vivere senza praticare. Praticare Yoga è una scelta importante. L’uomo consapevole è un uomo dannato, la consapevolezza è una croce pesante da portare. E’ molto più facile rimanere nell’ignoranza. Quando cominciamo a guardare, spesso vediamo cose che ci fanno paura. Guardarsi dentro richiede coraggio.”

– David Garrigues

Traduzione e commenti, Francesca d’Errico

Luna piena e Luna nuova: praticare o no?

“Si ritiene che la luna, per esperienza diretta, influenzi non solo gli oceani ma tutto ciò che è composto d’acqua, e di conseguenza anche il cervello umano”  (C.16, Moon Lore)

Chi di noi non si è mai sentito influenzato dalle fasi della luna? La luna influenza le maree e, nei detti popolari, tutto ciò che è composto d’acqua. Dunque, perché no, anche noi. Tuttavia nell’Ashtanga Vinyasa Yoga, questo detto è diventato una regola, e da sempre noi praticanti ci asteniamo dagli asana nei giorni di luna piena e luna nuova. Il motivo? Ce lo spiega oggi James Dylan Russell, che ha effettuato un’accurata ricerca tra testi antichi e ricerche scientifiche. E al termine dell’articolo, la mia personale e modesta opinione. Che forse ribalterà tutto ciò che leggerete.

“Questo mese ho condotto una lezione durante la fase di luna piena. All’inizio della mia lezione, uno studente ha informato il gruppo della ricorrenza di questa particolare fase lunare e mi ha chiesto se ritenessi opportuno praticare asana. Era preoccupato che questa fase lunare potesse renderci più inclini agli infortuni.

Gli ho spiegato che sebbene nell’Ashtanga Vinyasa Yoga sia consuetudine evitare la pratica durante le fasi di luna piena o nuova, questa particolare abitudine non faceva parte degli insegnamenti che avevo ricevuto. Ne è nata un’accesa discussione sulla possibile influenza delle fasi lunari non solo sulla pratica yoga, ma in generale sulla nostra vita. Sebbene non potessi offrire una spiegazione razionale per astenersi dalla pratica degli asana durante la luna piena o nuova, mi sono ritrovato a riflettere se non fosse il caso di praticare in modo più morbido e gentile.

“Nella tradizione dell’Ashtanga Yoga, da sempre è consuetudine riposare e astenersi dalla pratica degli asana durante i giorni di Luna piena e Luna nuova” (Jois Yoga)

La spiegazione più popolare e al tempo stesso più controversa per l’osservanza dei cosiddetti “moon days”, nasce dalla supposizione che la forza gravitazionale della luna influenzi i cicli respiratori:

“Come tutte le cose di natura acquatica (gli esseri umani sono composti per il 70% di acqua) siamo influenzati dalle fasi lunari. Sia il sole che la luna esercitano una forza gravitazionale sulla terra. Le loro posizioni creano esperienze energetiche diverse che possono essere paragonate ai cicli della respirazione. La luna piena corrisponde al culmine dell’inspirazione, quando la forza del prana è alla sua massima espressione. E’ una forza espansiva e diretta verso l’alto, che ci fa sentire carichi di energia e molto emotivi, ma ci rende poco stabili. Nelle Upanishad, si ritiene che il prana principale risieda nella testa. Durante la luna piena, siamo più caparbi”. (Ashtanga Yoga Center)

James Dylan Russell

Sebbene questa spiegazione possa risultare credibile, si basa su inesattezze scientifiche e mitologia popolare. E’ vero che le masse composte d’acqua, come gli oceani, sono influenzate dalle forze gravitazionali della luna, ma tali forze non sono collegate alle fasi lunari. Il grado di forza gravitazionale dipende dalla massa della luna e dalla sua distanza dalla terra. La massa rimane costante, e la distanza fluttua ogni mese tra perigeo (distanza minima dalla terra) e apogeo (distanza massima). Il perigeo e l’apogeo possono avere luogo in un qualsiasi momento delle fasi lunari. 

Non esiste una spiegazione per cui “l’energia della luna piena” corrisponda al culmine dell’inspirazione, né per cui la “forza del prana” (un altro concetto problematico per lo scienziato materialista) sia al suo massimo durante questa fase del ciclo respiratorio. Anche se accettiamo, attraverso lo studio dell’Hatha Yoga, l’asserzione che il prana (vayu) sia una sottile forza energetica ascendente, non esiste una correlazione dimostrabile tra questo tipo di energia e la forza gravitazionale della luna.

La fallace logica popolare vuole che, in questa fase mensile, un eccesso di prana renda il praticante più caparbio, e quindi più prono agli infortuni: “Tradizionalmente, l’Ashtanga Yoga non viene insegnato nei giorni di luna piena o nuova, poiché in questi giorni è più alto il rischio di infortuni” (Ashtanga Yoga London). Ma questa teoria solleva più domande che risposte, e soprattutto non esiste uno studio che provi la ricorrenza di un maggior numero di infortuni legati alle fasi lunari.

“Moon days” e astrologia

Il concetto di “moon day” ha le sue origini nell’astrologia indiana: Joytisha (che in sanscrito significa “luce” o “corpo celeste”). All’interno del Joytisha troviamo tithi, il nome di un giorno lunare, o il tempo che occorre all’angolo longitudinale tra luna e sole per aumentare di 12 gradi. Questo processo può richiedere tra le 19 e le 26 ore. Una traduzione accurata la definirebbe una “fase lunare”.

“Dalla prospettiva del nostro maestro (Sharath Jois), i giorni di luna piena e luna nuova corrispondono al 15esimo e 30esimo tithi del sistema astrologico indiano (Joytish)”. (Jois Yoga)

All’interno di questo sistema, troviamo approssimativamente 30 tithi ogni mese. Ogni fase è presidiata da una specifica divinità, e da una varietà di attività favorevoli. Il tithi della luna nuova si chiama Amavasya, e quello della luna piena Purnima. Durante la luna nuova si raccomandano pratiche di austerità, e durante la luna nuova si incoraggiano cerimonie di buon augurio.

Nel Joytisha, la luna è solitamente associata alla mente. In modo simile, nell’astrologia occidentale, la luna corrisponde agli stati emotivi, al subconscio e alla memoria. Mallinus, poeta del primo secolo, descriveva la luna come “malinconica”, e la luna è spesso associata alla follia e alle intossicazioni (n.d.t. vedi anche nella simbologia dei Tarocchi, che saranno argomento di un mio prossimo post). La paura della luna è uno spettro oscuro che risiede nelle profondità della nostra psiche collettiva, e attraverso la storia troviamo una serie di mali e pazzie attribuiti alle influenze della luna. La parola “lunatico” (n.d.t. che in inglese ha il significato letterale di ‘pazzo’) deriva proprio dalla radice della parola “luna”.

Come avviene per l’astrologia occidentale, anche l’astrologia indiana è sempre stata messa al bando dalle comunità scientifiche, che non sono in grado di “provare” la maggior parte delle sue affermazioni.

I Moon Days nella tradizione Yoga

Nella tradizione dell’Hatha Yoga, da cui derivano alcune delle pratiche dell’Ashtanga, è noto che i testi inizino con una serie di severe avvertenze e indicazioni per la pratica, molte delle quali oggi ci sembrano arcaiche o misogine. Per esempio, l’Hatha Pradipika del 15esimo secolo cita: “E’ opportuno evitare la compagnia di persone malvagie, il fuoco, le donne, le lunghe passeggiate, il bagno al mattino, saltare i pasti e fare attività fisica troppo intensa”. (HP 1.49)

A queste indicazioni si aggiungevano suggerimenti sul luogo in cui praticare, sull’alimentazione da seguire, sulle stagioni, oltre a severe avvertenze su cosa sarebbe accaduto contravvenendo a tali indicazioni.

Sebbene non abbia ancora trovato un testo in cui vengano date precise indicazioni su come praticare durante le fasi lunari, candra, la luna, è certamente un simbolismo ricorrente nell’Hatha Yoga. Candra è spesso associata al passaggio delle energie sottili conosciuto come Ida Nadi, ed è inoltre definito come la fonte di bindu o amrta che risiede nella corona della testa. Lo Yoga Bijia fornisce in epoche più recenti una creativa interpretazione del termine Hatha, in cui Ha sta per sole, e Tha per luna.

Candra è spesso sinonimo di passivo, inerte, freddo. Nello Yoga Yajnavalkya si consiglia di assumere una postura stabile e confortevole “dirigendo lo sguardo verso la punta del naso, concentrandosi sempre sui raggi freddi della luna, con il flusso del nettare dalla cima del capo” (YY 5.15).

L’osservanza dei Moon Days non appartiene alla tradizione dell’Hatha Yoga, quindi, né all’Ashtanga di Patanjali, da cui si ritiene che derivi, filosoficamente e metaforicamente, l’Ashtanga Vinyasa. Il solo, esplicito riferimento alla luna negli Yoga Sutra di Patanjali si trova nel terzo libro, in cui il saggio asserisce che dalla meditazione sulla luna “deriva la conoscenza dei moti delle stelle” (YS 3.28). Nel commento degli Yoga Sutra di Vacaspati Misra, nel decimo secolo, troviamo la metafora di Purusa paragonata al riflesso della luna nell’acqua.

Una Tradizione dell’Ashtanga Yoga?

Sri K. Pattabhi Jois, “Guruji”

E’ probabile che la tradizione di astenersi dalla pratica durante i Moon Days appartenga agli elementi introdotti da Sri K. Pattabhi Jois. Il suo maestro, T. Krishnamacharya, non li osservava durante la pratica, né li menziona nella sua immensa opera del 1934  Yoga Makaranda (n.d.t. Il Nettare dello Yoga, in italiano edito da Ubaldini). Qualche anno fa, ho partecipato ad un seminario di un allievo diretto di Krishnamacharya, Srivatsa Ramaswami. Quando gli abbiamo chiesto come comportarci durante i Moon Days, Ramaswami ci ha riferito che, nei suoi 30 anni di pratica con Krishnamacharya, non era uso astenersi dalla pratica in concomitanza delle fasi lunari, né il maestro vi faceva alcun riferimento. Alla nostra insistenza, Ramaswami ha risposto che questa usanza deriva probabilmente da un’epoca in cui l’insegnamento dello Yoga era affidato prevalentemente alla casta dei Bramini, figure molto religiose. Nei giorni di luna piena e luna nuova, i Bramini avevano (e hanno) funzioni religiose specifiche da osservare, e in quei giorni non potevano insegnare. Ci si aspettava comunque che i loro allievi continuassero a praticare anche nei giorni privi di lezioni.

Questa considerazione mi ricorda una lettera di Eddie Stern a Barry Silver, pubblicata nel 2014: “L’osservanza di questi giorni da parte di Pattabhi Jois è molto semplice. Come sapete, il Maharaja’s Pathashala (il Sanskrit College) di Mysore era chiuso sia durante i moon days, che il giorno prima e il giorno dopo. Gli studenti proseguivano i loro studi, ma non venivano impartite lezioni. Il motivo è che durante amavasya e purnima, insegnanti e studenti (tutti Bramini) spesso in quei giorni doveva svolgere delle funzioni religiose, come il pitr tarpana durante amavasya e il bagno rituale nel giorno successivo al moon day, rituali che richiedevano tempo per essere praticati. Pattabhi Jois è stato prima studente al Maharaja’s Pathashala e poi insegnante, dal 1937 al 1973. L’osservanza di questi rituali era parte integrante delle sue abitudini”. 

Il nome Jois è un’interpretazione dell’India del Sud del termine Joytish, e l’astrologia era parte delle tradizioni della famiglia di Guruji. Nel suo libro Yoga Mala, del 1962, l’unico riferimento ai giorni di luna è in merito alla pratica del Brahmacarya, la condotta sessuale. Jois raccomanda che i giorni dedicati a questa pratica coincidano con quelli di massima fertilità della donna, poiché “l’unione con la propria compagna dovrebbe essere indirizzata alla procreazione”. Pattabhi Jois non fa riferimento all’astensione dalla pratica degli asana in quei giorni.

In conclusione

La mia teoria è che Pattabhi Jois non insegnasse nei giorni di luna, perché impegnato in altre pratiche al tempio o in casa, e in seguito perché ormai abituato a riposare durante quei giorni.  Nel tempo, questa sua abitudine è diventata una consuetudine tra i suoi praticanti, che sono determinati a rispettarne la tradizione. Una simile interpretazione è forse più credibile che non l’associare il flusso del prana alle fasi lunari. Forse i praticanti di Ashtanga con gli anni hanno voluto dare una loro interpretazione ai giorni di luna, creando una sorta di mitologia al riguardo.

Le considerazioni di natura astrologica danno alla pratica dell’Ashtanga un forte valore simbolico. Praticare 6 giorni a settimana, riposando nelle fasi lunari, per 52 settimane all’anno, connota la pratica di un simbolismo di dimensioni cosmiche. Comunque, asserire che “è sempre stato tradizione, nell’Ashtanga Yoga, non praticare nei giorni di luna piena e nuova” è un’interpretazione libera del termine “tradizione” e una combinazione con la precedente tradizione dell’Ashtanga Yoga di Patanjali, in cui i giorni lunari non sono contemplati. L’Ashtanga Vinyasa (n.d.t.: o meglio chi se ne fa portavoce) spesso si appella alla “tradizione” per garantire la propria autorità e autenticità, tuttavia i suoi protocolli raramente hanno riscontro nell’analisi dei testi antichi.

L’osservanza delle fasi lunari ha quindi più a che fare con la tradizione astrologica e i rituali dei Bramini, che non con la pratica dello Yoga. Non esistono prove scientifiche a supporto di questa tesi. Ci sono molte cause legate agli infortuni sul tappetino, ma le fasi lunari non hanno voce in capitolo. E attribuire alle fasi lunari un infortunio sarebbe un po’ come togliere a noi praticanti la responsabilità delle nostre azioni. C’è sicuramente un valore nell’attenersi al rispetto del parampara, ma al tempo stesso è importante prendere le distanze da dogmi e superstizioni. Io ho spesso praticato Ashtanga e altri metodi di yoga nei giorni di luna e non ho notato nessun particolare problema. Certo è che se pratichiamo convinti che ci accadrà qualcosa, molto probabilmente questo qualcosa avverrà. Il mio consiglio perciò è di praticare senza preoccuparsi della luna!”

James Dylan Russell

N.d.T.: Per quanto riguarda me, come donna da sempre interessata sia allo Yoga che all’astrologia e alla scienza, personalmente ho notato che il mio corpo e la mia mente sono più instabili durante le fasi di perigeo e apogeo, che non durante le fasi di luna piena o nuova. Detto questo, mi piace e continuerò a rispettare la tradizione dei Moon Days, perché Sri K. Pattabhi Jois per me resta il più grande maestro dello Yoga contemporaneo dopo T. Krishnamacharya, e perché astenendomi dalla pratica in quei giorni, mi sembra in qualche modo di onorare la sua memoria. E per me, questo è abbastanza: né dogma né superstizione, ma affettuosa memoria. Possiamo cercare spiegazioni scientifiche a qualsiasi aspetto dell’Ashtanga Yoga, ma esso resta, almeno per me, ammantato della magia che avviene quando si pratica un rito in cui si ha fede, perché negli anni se ne è sperimentato, su corpo e mente, l’effetto. Onorare una tradizione, per quanto recente, se fondata da un maestro in cui si ha fiducia ha una valenza non tanto superstiziosa, ma simbolica. E il potere dei simboli sul benessere psicofisico, seppur sfuggente alle logiche scientifiche, è da sempre innegabile.

– Francesca d’Errico

Jivamukti FOTM, maggio 2017: Essere il Cambiamento

“Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo”

Da tre anni ormai è diventata una consuetudine per me tradurre il Focus Of The Month di Jivamukti Yoga. Che sia o meno il metodo che abbiamo scelto di praticare, Jivamukti ha una componente bhakti (devozionale) che si applica a qualsiasi Yogi contemporaneo. Il Focus Of The Month è una lettura, scritta da Sharon Gannon, David Life o altri senior teacher del metodo (in questo caso April Dechagas) da custodire come meditazione personale o da portare nelle proprie lezioni come spunto di riflessione. E quella di maggio è particolarmente intensa. Eccola a voi.

“yad-yad ācarati śreṣṭhas / tad-tadevetaro janaḥ / sa yat pramāṇaḿ kurute / lokas-tad-anuvartate Un grande uomo sa condurre al cambiamento con il suo esempio, stabilendo criteri che tutti gli altri uomini seguiranno.

Bhagavad Gita III.21

Le strade di Calcutta erano sporche e pericolose. In migliaia soffrivano di lebbra, colera e altre malattie contagiose. Negli ospedali sovraffollati, gli infermieri erano costretti ad allontanare i pazienti terminali rimettendoli sulle vie infestate da scarafaggi. Un gruppo di attivisti, capeggiati da Madre Teresa, rischiava la salute per assistere i poveri e i malati, anche se la maggior parte di loro era destinata a morte certa. Perché Madre Teresa aveva scelto di dedicare la sua vita a lavorare nelle condizioni più pericolose, per gente che non aveva nulla da dare? La sua risposta era: “Vedo Dio in ogni essere umano. Quando lavo la ferita di un lebbroso, mi sembra di aver cura di Dio in persona. Non è forse un’esperienza meravigliosa?”.

I grandi leader mondiali  – Madre Teresa, Martin Luther King Jr., Mahatma Gandhi, Rosa Parks, il Dalai Lama, Malala Yousafzai – condividono alcune caratteristiche. Sono ottimi comunicatori e al tempo stesso hanno una grande capacità di ascoltare. Possiedono solide fondamenta che riflettono un incrollabile impegno nella causa che hanno scelto. Sanno ispirare al cambiamento e dare forza. Sono sicuri, onesti e saggi. E hanno tutti un’altra eccezionale qualità, forse la più importante: l’umiltà.

Il filosofo dell’economia Jim Rohn afferma: “Umiltà è quasi una parola divina. Suscita grande ammirazione e stupore, è l’affermazione dell’animo e dello spirito umano. L’umiltà è la consapevolezza della distanza tra noi e le stelle, e insieme la sensazione di essere parte di esse”. In altre parole, l’umiltà è vedere se stessi negli altri; vedere la sacralità di ogni vita.

La parola umiltà deriva dal latino humilis, che può essere tradotto come “radicato” o “appartenente alla Terra”. Le Chandogya Upanishad ci insegnano tat twam asi o “tu sei quello.” Questo mahavakya, o grande detto, si collega all’idea che tutto è Brahman, che il sé supremo e il sé individuale sono la stessa cosa. Se tu sei Brahman, e l’albero è Brahman, allora tu e l’albero siete una cosa sola. Lo Yogi ha l’umiltà di comprendere che tutto ciò che esiste al mondo partecipa della stessa natura. Le risorse naturali sostengono la vita, quindi è nostra responsabilità sostenere allo stesso modo la Terra che ci ospita.

Secondo le scritture Vediche, ci troviamo attualmente in Kali Yuga – un’era di conflitto e sofferenza. In questa epoca difficile, c’è un gran bisogno di leader eccezionali. Se vogliamo il cambiamento, se vogliamo vedere pace e felicità nel mondo, dobbiamo vivere la vita che vogliamo vedere. C’è stata un’era in cui l’umanità viveva in armonia con la natura. Prendevamo dalla Terra solo il necessario per sopravvivere. Ora, ogni anno, gli esseri umani uccidono miliardi di animali e distruggono milioni di acri di terra. Combattiamo guerre per accaparrarci le risorse naturali, e la Terra non è più in grado di sostenerci. Un tempo chiamavamo “progresso” il prendere dalla Terra tutte le risorse che volevamo. In realtà siamo regrediti, causando l’infelicità di miliardi di umani, animali e persino piante.

Un grande Yogi offre la sua forza agli altri, così che possano imparare ad essere a loro volta forti e felici. L’umiltà consente allo Yogi di essere il cambiamento che vuole vedere nel mondo. Possiamo considerare una diversa forma di progresso: un progresso che ci aiuti a riscoprire la nostra più elevata consapevolezza, riconoscendo in noi la stessa natura delle stelle. Possiamo condurre al cambiamento con l’esempio, stabilendo criteri che tutti gli altri vorranno seguire.

April Dechagas

Spunti per l’insegnamento:
  • La pratica degli asana esprime umiltà. Quando ad esempio eseguiamo Hanumānāsana, assumiamo le qualità del grande condottiero Hanuman. Nella sua totale devozione a Rama, egli è esempio di virtù, forza, potere, umiltà e coraggio.
  • Le posizioni in piedi – e in particolare i “guerrieri” – trasmettono le qualità di un grande leader: fondamenta solide e forti, sguardo fiero e intenzioni incrollabili.
  • Insegnante l’allineamento in tadāsana/samasthiti. Spiegate come l’allineamento di questo āsana diventi una componente di tutte le altre posizioni. La montagna, o Terra, rappresenta la connessione con tutte le altre forme che assumeremo: umane (le posizioni di guerrieri, saggi e santi), animali (cani, rane, scimmie etc.), insetti (locusta), piante (albero) e persino oggetti inanimati che derivano dagli strumenti per lavorare la terra (aratro, barca, compasso).
  • Chiedete ai vostri praticanti di mantenere gli asana più a lungo dei consueti 5 respiri, eseguendo il pranayama ujjayi con un senso di pace e umiltà.”

Traduzione di Francesca d’Errico

Praticare in Italia: Barbara Travanini, una famiglia di Ashtangi a Brescia

Barbara Travanini e il figlio Andrea, intenti nella pratica

Ho incontrato Barbara Travanini lo scorso anno al workshop di Mark Robberds a Torino. Il suo tappetino era davanti al mio, e ricordo di aver ammirato la sua forza e determinazione nella pratica. Siamo poi entrate in contatto su facebook, e tuttora ci sentiamo spesso per condividere opinioni e suggerimenti sulla pratica. Barbara mi ha colpito anche per il modo in cui è riuscita ad unire pratica e gestione familiare: suo figlio è diventato a sua volta insegnante di Ashtanga e l’affianca nella shala di Brescia, dove insieme portano avanti la tradizione, invitando spesso grandi maestri (Kristina Karitinou e Gabriele Severini, ad esempio). Consiglio a chiunque abiti a Brescia o in zona di andare a praticare con lei: un suo input è bastato a farmi salire in verticale sulle mani in meno di un minuto! Non solo: ascoltate i suoi consigli su come affrontare le delicate età della donna. Decisamente interessanti, eccoli per voi…

FDE: Non solo insegnante di Ashtanga, ma anche madre di un insegnante: raccontami come sei riuscita a far appassionare tuo figlio a questa disciplina, e cosa vuol dire gestire la Shala di Brescia insieme a lui, vivere lo yoga a 360 gradi in famiglia.

Barbara in Pincha Mayurasana

BT: La mia scelta di insegnare Ashtanga a Brescia, secondo la tradizione di Pattabhi Jois scaturisce da una evoluzione maturata nel corso del tempo. L’ho praticato e studiato a fondo in modo da poterlo trasmettere autenticamente, e lo reputo estremamente completo. In famiglia non ho mai imposto la pratica, ho sempre lasciato la massima libertà di scelta; d’altra parte lo yoga costituisce la nostra vita quotidiana. Andrea, mio figlio, che gestisce con me la nostra Shala, ha iniziato molti anni fa a frequentare le mie classi, fino a seguirmi insieme al resto della famiglia nei ritiri dedicati alla pratica. Ha sviluppato nel corso del tempo una pratica autonoma e quotidiana; dotato di un forte spirito di determinazione, mi ha molto aiutato e spronato nella gestione sia della Shala che delle nostre stesse pratiche, tant’è che da diverso tempo pratichiamo quasi tutti i giorni alle 4:30 del mattino, in modo da iniziare al meglio le classi Mysore dalle 6:30. Insieme riusciamo a creare armonia durante le lezioni e sicuramente non mancano fra di noi momenti di accesi confronto, sempre però costruttivi. Siamo molto fieri ed entusiasti di diffondere l’Ashtanga a Brescia e siamo anche naturalmente molto grati a tutti nostri studenti, che ci offrono l’occasione di crescere insieme.

FDE: in un tuo commento ad un mio recente post, hai affrontato un argomento “tabù” nello yoga, di cui invece vorrei si parlasse di più: praticare Ashtanga avvicinandosi alla menopausa. In che modo la pratica ti aiuta ad affrontare questo momento?

Barbara in Kapotasana

BT: La menopausa è un momento naturale nella vita di una donna e la pratica dell’Ashtanga aiuta tantissimo, direi che è addirittura fondamentale in questo periodo. Personalmente mi sono ritrovata in menopausa senza accorgermene, praticando. Proprio nel momento in cui mi ci approssimavo, iniziavo ad a affrontare anche la terza serie (advanced A); E’ stata quindi una fase cruciale per me, sia come yogini che come donna. Menopausa è solitamente sinonimo di una fase di “declino”, mentre la terza serie, essendo appunto “advanced”, richiede grande intensità e vigore; ho avuto quindi il timore di cedere alle convenzioni su questa fase della vita e ho creduto fosse per me inarrivabile. Anni addietro, tuttavia, un’insegnante che già aveva affrontato questo momento, mi aveva insistentemente consigliato di non cedere all’età e di continuare sempre con la pratica. Queste parole agirono come un mantra in questa fase e di conseguenza non mi arresi, tant’è che praticavo e pratico tutt’ora quotidianamente la seconda e la terza serie insieme. Advanced A è denominata anche “Sthira Bhaga”, ossia “sublime serenità”, parole pregnanti e azzeccatissime. Col tempo, infatti ho sentito davvero una sublimità nel mio animo e la mia pratica ha fatto un salto di qualità. Per quanto riguarda anche la mia esperienza come insegnante, da diversi anni abbiamo molte allieve che hanno cominciato quando erano già entrate in menopausa; abbiamo constatato quanto sia efficace la pratica quotidiana, non solo riguardo alle serie avanzate, ma anche semplicemente la prima serie, che apporta vantaggi indiscutibili su tu i piani, ringiovanendo mente e corpo ed eludendo i pericoli di una senilità precoce, che si sviluppa molto spesso prima nella mente e successivamente nel corpo. A mio avviso la menopausa non è semplicemente una fine, ma è anche un momento di forte rinascita e di riscoperta di sé. Molte donne si lasciano spesso condizionare e smettono di vivere credendo sentendosi ormai anziane o quant’altro, perdendo così tanto tempo; lo yoga ci insegna a dire sì alla vita, e credo sia sempre attuale l’affermazione di Seneca, secondo cui non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo tanto! Nessuno è esentato dalla pratica dello yoga e non ci sono scuse valide per non farlo, lo si comprende solo mettendolo in pratica.

FDE: Donne e serie avanzate dell’Ashtanga. Ci sono molti pregiudizi al riguardo, eppure nella mia esperienza personale, alcune delle posizioni più avanzate sono di grande aiuto alle donne, proprio perché sviluppano la forza di cui abbiamo bisogno in questo momento sociale. Cosa ne pensi? E quali sono gli asana a tuo parere più utili alle donne?

BT: Come già accennato sopra, mi ritrovo a praticare la serie avanzata a 50 anni inoltrati, e ho da poco concluso un intensive, dove per quindici giorni ho praticato la seconda e terza serie in full vinyasa, seguite dalla led primary series, pranayama e tecniche di adjustments fino a tarda ora, per un totale di dieci ore al giorno. Ne sono uscita estremamente fortificata, sia fisicamente che mentalmente, e lo stesso è stato confermato dagli esiti dei controlli medici (ormonali inclusi) effettuati prima e dopo il corso. Non consiglierei degli asana in particolare, perché ritengo che l’essenza di queste sequenze e di conseguenza tutti i benefici ad esse correla , non siano soltanto nelle singole posture, ma in quella consequenzialità che caratterizza il vinyasa, la struttura della pratica degli asana, da cui si produce una vera e propria meditazione in movimento. Quindi consiglio di enfatizzare non tanto il singolo, ma il tutto della pratica, in quanto ritengo che l’Ashtanga sia un metodo completo, includendo ad esempio l’importanza delle posizioni sulle mani e perché no dei salti per sviluppare e mantenere una certa forza e stamina, ma anche delle aperture delle anche per lavorare sul centro energetico del bacino eliminando quindi tensioni profonde in genere nella bassa schiena e le aperture del petto e quindi del centro energetico del cuore. In generale questa pratica tende a regolare l’equilibrio ormonale, riducendo gli eccessi del nostro elemento predominante. Reputo inoltre molto rilevante per noi donne in questa fase ossigenarci nel modo più consono ed efficace, incrementando le sedute di pranayama.

Barbara Travanini

Barbara è nata a Brescia nel 1966. Incontra lo yoga durante l’adolescenza con Annalise Christensen prima e Dona Holleman poi, fra le prime e maggiori insegnanti al mondo. Si certifica con lei all’insegnamento, dopo un lungo e intenso percorso di formazione. Nel 2005 trova l’Ashtanga yoga secondo la tradizione di Pattabhi Jois, e partecipa a numerosi workshops con Elena De martin, Kino Macgregor, Eddie Stern, Mark e Joanne Darby, Manju Jois, Mark Robberds. Frequenta il teacher training di Manju Jois e conosce Sharath Jois durante il suo tour annuale. Da questo incontro decide di dedicarsi esclusivamente alla pratica Ashtanga. Nel 2010 conosce Kristina Karitinou-Ireland. Si reca annualmente in ritiro da lei a Creta e sotto la sua guida chiude la seconda e la terza serie. Di notevole rilevanza per il suo percorso formativo è anche Gabriele Severini, che incontra nel 2011 e segue periodicamente affinando la pratica. Per quanto riguarda il suo insegnamento, rimane salda ai principi dell’Ashtanga, che le ha permesso di evolversi e sbocciare definitivamente come yogini.

Per i prossimi eventi in programma ad Ashtanga Yoga Brescia, cliccate qui!

Mark Robberds: hungry to learn (ENG/ITA)

Italian version: scroll down after video

Mark Robberds by Alessandro Sigismondi

Lately, I have been researching a lot into the Ashtanga Yoga practice and other forms of movement – the input come from my recent wear-and-tear injury to the sacro-iliac ligament, that caused me several difficulties with hip opening on the left side. I have been asking myself how to approach the practice in a way that could be really beneficial, with no intent to take shortcuts but to truly enjoy and make the most out of the practice. Needless saying, I have been following Mark Robberds‘ posts since they are always full of useful information. Mark is world famous to be one of the most influential Ashtanga Yoga teacher, and also is a wonderful person. I had the great opportunity to meet him in Mysore two years ago, then in Turin, and in Goa last winter. He strikes me with his down to earth approach and his lovely manners. He is a great teacher who truly enjoys sharing his knowledge. I asked him for an interview, and despite his incredibly busy schedule, he found the time to chat about his approach to the practice and movement in general. Mark’s answers to my questions are so helpful, I am confident all of you will benefit from reading!

FDE: Mark, you are not only one of the very few KPJAYI Certified Teacher, but also one of the most followed Ashtanga Yoga teachers on social networks. Your impact on the Ashtanga community is huge and growing. Personally I find your posts always very useful, full of practical hints on how to approach asanas. You are also a handstand lover and a lover of movement in general. How did you start exploring movement outside the traditional Ashtanga Yoga method, and how these practices help your yoga sadhana?

MR: I have been an athlete, or let’s say into sports since I was in diapers. I grew up playing rugby, cricket, tennis, swimming, running, biking, and in my teens I got into skateboarding, mountain biking, rock climbing, martial arts, surfing and going to the gym. So I have always been very physical.

Then I started practicing Yoga in 1997 and in 1998 I got Dengue Fever. I became very sick and my immune system was very weak and I was not able to do any more sports. I recovered through restorative yoga and I realised the incredible benefits of it, which then drew me into the Yoga practice and in particular Ashtanga. Everything else, besides surfing, dropped away and I went through a very intense phase of only focusing on the Ashtanga practice. However I always had my eye on other forms of movement like capoeira, breakdancing, modern dance, even salsa and I dabbled a little bit over the years with them. I had an intention that in my 40’s, after reaching a high level of proficiency in Ashtanga, I would devote more time to learning other skills and this is what is happening. 

The yoga practice has been an amazing mind-body discipline that I can connect now with any other form of movement. Likewise I can take whatever I learn from my explorations and investigation into other modalities and bring it back into my Yoga sadhana to make it even better. 

FDE: You are in your early 40s and look stronger and healthier than ever. What is your advice for a healthy and lifelong Ashtanga Yoga practice? 

MR: My observation is that most Ashtangis burn out in their early 40’s. There are the few cases of people who start in their 40’s or 50’s and do very well in the practice because they have a natural disposition towards it. Other older people, who start later in life, are usually not ambitious and therefore receive the benefits of the practice in making them healthier, stronger and more flexible.

Mark e sua moglie, Deepika Metha, anche lei insegnante di Ashtanga Yoga

For the rest, though, the burn out comes because of repetitive strain. The same movements are practiced over and over again and it wears out the joint structures of the body over time. This combined with pre-existing conditions and/or improper alignment and movement patterns leads to wear and tear injuries. Practitioners then get discouraged and move on to the next thing. In this regard, then, I feel like it’s important to practice more intelligently. Be sure to take all rest days, moon days, Saturdays, if you’re a women then ‘ladies holidays’, and even men should consider taking more days off. Obviously I’m not speaking to the person who has a problem committing to practicing at all. This is for those people who feel guilty for not practicing and find themselves practicing even when they are in pain or when their intuition is telling them to rest.

Yoga should not create pain or injury. It should be the opposite actually. It should make you injury resistant. If you are finding yourself getting injured then you are doing something wrong. Also, in Ashtanga, there’s no mention of practicing with different levels of intensity. In all other forms of physical movement training, the training is cyclical in nature. There are peak periods, and there are de-load days, for example, where only 40% of the volume is performed. Some athletes will have an easy week once a month, or every 6 weeks. I feel like this approach is needed in Ashtanga, otherwise everyone is practicing at 100% everyday, indefinitely, until they are forced to rest due to injury or sickness. I started making these changes in my late 30’s and it is working really well. I feel better than ever. My body is pain free and I’m learning new skills everyday.

FDE: Can you give us a hint on your daily practice? What is your weekly routine?

MR: My routine varies a lot due to the irregular nature of my work schedule. I tend to work very intensely for a few days then have the rest of the week off, but there will be travel days. Or I’ll be running a retreat for a week, then have some time off. Soon I’ll be running a month long intensive and the work load will be a lot. But then I’m taking 2 months off! So I adapt my practice to whatever is going on in the moment. 

I need to keep researching, keep practicing. This is my life. To be the best teacher I can possibly be, and the most service to my students, I need to stay hungry to learn. So this is the stage I’m in now. At the moment i’m doing 4 days Ashtanga per week – each day a different series, 1st,2nd, 3rd, 4th and this is working out really well. I feel fantastic. Every morning I do my morning ritual of journaling, meditation, pranayama, then some movement research and exploration followed by my practice. On my non-ashtanga days I’m doing some other training. Mostly handstand training but also ring work and weights for leg strengthening. I also surf everyday when possible.

FDE: What is your advice to those who are struggling in a pose, or those who are facing physical limitation (like injuries, body constitution etc.)?

MR: You can choose to see the struggle as a positive or negative. If it is a negative then you have to change your attitude. No one is forcing you to do anything. You always have a choice. Everything can be turned into a positive. There’s always a way to modify the practice so that any body constitution can realize their full potential. Injuries are great teachers and should be viewed from this perspective. What can this teach me? Always keep moving. Rest the injured area but keep the rest of the body moving.

FDE: Mark, all your work on asana could easily be material for an amazing book. Are you planning to write one, or to collect all your post into something more organic? 

MR: I haven’t got any clear vision of how to put that book together, but I am in the process of collecting all my favorite posts and this could actually be a great learning tool and a beautiful coffee table book!

I can only add that I can’t wait to read more from Mark Robberds!

ITALIANO – Mark Robberds: fame di conoscenza

Recentemente, come saprà chi mi segue, ho fatto molta ricerca all’interno della mia pratica di Ashtanga e di altre forme di movimento. L’input è arrivato da un infortunio al legamento sacro-iliaco, che ha reso le aperture dell’anca sinistra piuttosto difficoltose. Mi sono chiesta molte volte come approcciare la pratica in un modo che fosse realmente salutare, senza alcuna intenzione di prendere scorciatoie, ma con il desiderio di trarne gioia e beneficio. Inutile dire che ho seguito e seguo con attenzione i post di Mark Robberds, che sono sempre pieni di utilissime informazioni. Mark è famoso in tutto il mondo ed è uno degli insegnanti di Ashtanga Yoga più influenti, oltre ad essere una bellissima persona. Ho avuto occasione di conoscerlo due anni fa a Mysore, e di incontrarlo nuovamente a Torino e a Goa lo scorso inverno. Mi ha colpito per il suo atteggiamento semplice e gentile: è un grande insegnante, che davvero ama condividere le sue conoscenze. Gli ho chiesto un’intervista, e lui, nonostante i suoi tantissimi impegni, ha trovato il tempo di fare due chiacchiere e di raccontarmi il suo approccio alla pratica e al movimento in generale. Le sue risposte alle mie domande sono così utili, che sono certa che tutti voi ne trarrete grande beneficio! 

FDE: Mark, non sei solo uno dei pochissimi insegnanti certificati KPJAYI, ma anche uno dei più seguiti maestri di Ashtanga Yoga sui social. Il tuo impatto sulla comunità Ashtanga è enorme e in continua crescita. Personalmente, trovo i tuoi post sempre molto utili, pieni di spunti pratici su come affrontare gli asana. Sei anche un amante delle inversioni, e del movimento in generale. Come è nato il tuo interesse per pratiche che non fanno parte del metodo tradizionale dell’Ashtanga, e qual è il contributo di questi approcci al tuo sadhana? 

MR: Sono sempre stato uno sportivo, diciamo da quando ero in fasce. Sono cresciuto giocando a rugby, cricket, tennis, nuotando, correndo, andando in bici. E da teenager mi sono dedicato allo skateboard, alla mountain bike, all’arrampicata sportiva, alle arti marziali, al surf e naturalmente alla palestra. Da sempre vivo il mio corpo in modo completo. 

Poi, nel 1997 ho iniziato a praticare Yoga. Nel 1998 mi sono ammalato di febbre Dengue. Ero davvero debole, il mio sistema immunitario aveva reagito male, e non riuscivo a praticare nessuno dei miei sport. Mi sono ripreso grazie al restorative yoga e mi sono accorto dei suoi incredibili benefici. Da questa pratica sono arrivato allo Yoga e in particolare all’Ashtanga. Tutti gli altri sport, a parte il surf, sono usciti dalla mia vita, e per una fase molto intensa mi sono concentrato solo sulla pratica dell’Ashtanga. Ho sempre tenuto d’occhio, tuttavia, altre forme di movimento, come la capoeira, la breakdance, la danza moderna, persino la salsa, e mi ci sono dedicato sporadicamente negli anni. Avevo intenzione, una volta raggiunti i 40 anni e un buon livello nell’Ashtanga, di dedicarmi ad altre attività ed è quello che sto facendo. 

La pratica dello Yoga è stata per me una disciplina eccezionale, in grado di collegare mente e corpo in un modo che ora posso utilizzare in qualsiasi altra forma di movimento. E al tempo stesso, posso portare tutto ciò che imparo dalle mie esplorazioni del corpo all’interno del mio sadhana, per migliorarlo continuamente.

FDE: Mark, hai raggiunto i 40 anni e sei più forte e in forma che mai. Qual è il tuo consiglio per chi vuole mantenere una salutare pratica pratica dell’Ashtanga Yoga per tutta la vita? 

MR: Da ciò che ho visto, la maggior parte di chi pratica Ashtanga raggiunge una sorta di “burn out” intorno ai 40 anni. Ci sono rari casi di persone che iniziano a praticare a 40 o 50 anni, ottenendo ottimi risultati anche grazie ad una naturale predisposizione. Altri, di età anche più avanzata, non hanno eccessive ambizioni nei confronti della pratica e ottengono in ogni caso molti benefici: maggiore forza, flessibilità e salute. 

Il burn out, comunque, arriva dagli sforzi ripetuti. Praticare gli stessi movimenti, continuamente, per anni, a lungo andare logora le strutture articolari. Questo aspetto, in combinazione con situazioni pre-esistenti e/o allineamenti o posture scorrette creano i presupposti per gli infortuni da usura. Il praticante quindi si scoraggia e si dedica ad altre discipline. Proprio per questo, penso sia importante praticare in modo più intelligente. E’ importante rispettare i giorni di riposo, i giorni dedicati alle fasi lunari, e per le donne le famose “ladies holidays”. Ma anche gli uomini dovrebbero cercare di riposare un po’ di più. Naturalmente non mi sto rivolgendo a chi non pratica in modo continuativo, ma a coloro che si sentono in colpa quando non praticano, e vanno avanti nonostante sentano dolore e nonostante il loro intuito gli suggerisca di riposare. 

Lo Yoga non dovrebbe creare dolore o infortuni. Anzi, dovrebbe essere l’opposto: lo Yoga dovrebbe renderci più resistenti agli infortuni. Se ci facciamo male, stiamo facendo qualcosa di sbagliato. Inoltre, nell’Ashtanga, non si parla da nessuna parte di praticare a livelli di intensità diversi. In tutte le altre forme di movimento, l’allenamento è, per sua natura, ciclico. Ci sono periodi di intensità maggiore, e giorni di scarico, in cui si pratica al 40% della capacità. Alcuni atleti si prendono una settimana di riposo al mese, o ogni 6 settimane. Ritengo che anche nell’Ashtanga sia necessario considerare questo tipo di approccio, diversamente il praticante si ritrova a praticare ogni giorno, senza sosta, al 100% delle sue capacità, fino a quando è costretto al riposo forzato per malattia o infortunio. Io ho iniziato ad apportare questi cambiamenti dopo i 35 anni, e mi sento molto in forma. Non ho dolori, e imparo cose nuove ogni giorno. 

FDE: Ci puoi dare un’idea della tua pratica quotidiana e della tua routine settimanale? 

Una bellissima immagine di Mark Robberds

MR: La mia routine varia moltissimo a causa della natura irregolare del mio lavoro. Di solito lavoro con grande intensità per qualche giorno, poi mi prendo il resto della settimana per riposare, ma devo tenere conto dei giorni in cui viaggio. O capita che io debba tenere un ritiro di una settimana, e poi avere un periodo tranquillo. A breve, condurrò un intensivo di un mese, e avrò un notevole carico di lavoro. Ma poi, mi prenderò due mesi per me! Quindi adatto la mia pratica al momento in cui mi trovo. 

Sento sempre il bisogno di fare ricerca e di praticare. E’ la mia vita. L’unico modo per essere l’insegnante che voglio essere, al servizio dei miei studenti, è essere affamato di conoscenza. E mi trovo proprio in questa fase. Al momento pratico Ashtanga Yoga 4 giorni a settimana – ogni giorno una serie diversa, 1st,2nd, 3rd, 4th ed è un sistema che funziona molto bene per me, mi sento benissimo. Ogni mattina mi dedico al mio rituale personale, la scrittura di un diario, alla meditazione, al pranayama, alla ricerca di nuove capacità di movimento e quindi alla mia pratica. Quando non pratico Ashtanga, mi dedico ad altri tipi di allenamento: generalmente inversioni, ma anche anelli, e pesi per rinforzare la muscolatura delle gambe. E naturalmente, faccio surf tutti i  giorni, ogni volta che posso. 

FDE: Cosa consigli a chi è fermo su una posizione da tempo, e a chi deve affrontare limitazioni fisiche, come un infortunio, o la propria costituzione?

MR: Possiamo scegliere di vedere le difficoltà come positive o negative. Se sentiamo negatività, dobbiamo modificare il nostro atteggiamento. Nessuno ci costringe a fare nulla. Abbiamo sempre una scelta. Possiamo sempre modificare la pratica in modo che la nostra costituzione corporea ne tragga il massimo beneficio e sviluppi il suo potenziale. Gli infortuni possono insegnarci molto, e dovremmo osservarli da questa prospettiva. Cosa mi può insegnare questo incidente? E continuate a muovervi. Riposate l’area del corpo che ha subito l’infortunio, ma mantenete il resto in movimento. 

FDE: Mark, tutto il tuo lavoro sugli asana potrebbe diventare un fantastico libro. Stai pensando di scriverne uno, o di raccogliere i tuoi post in modo più organico? 

MR: Non ho ancora una visione chiara sul tipo di libro che potrei creare. Sto però cominciando a raccogliere i miei post preferiti, e questo effettivamente potrebbe diventare materiale didattico, e un bel libro da tenere sul comodino! 

Posso solo aggiungere che non vedo l’ora di leggere i prossimi post di Mark Robberds! E voi?

– intervista raccolta da Francesca d’Errico, maggio 2017

Il motivo migliore per praticare: nessun motivo

David Garrigues

Questa mattina ho aperto la mia mail e come sempre ho trovato molti messaggi provenienti da insegnanti di Yoga di tutto il mondo. Mi sono iscritta alle loro newsletter perché mi piace ricevere ogni giorno uno spunto di riflessione, uno stimolo alla ricerca, un motivo in più per praticare.

Quindi la mail di David Garrigues, oggi, mi ha particolarmente stupito perché il titolo recitava proprio così: il miglior motivo per praticare è nessun motivo.

Ma come? Non cerchiamo ogni giorno una motivazione in più per metterci sul tappetino, anche quando abbiamo dormito male, mangiato troppo, ci siamo stressati e innervositi per ragioni ben poco yogiche? Non abbiamo sempre bisogno di ripeterci qualcosa che ci ricordi quanto la nostra pratica sia importante? Il messaggio di David, che attraverso le sue provocazioni stimola sempre un pensiero in più, sembrava suggerire tutto il contrario. Lo riporto in italiano, perché mi ha fatto riflettere, e alla fine… mi ha fatto dimenticare di riflettere, e venire voglia di mettere i piedi nudi sul tappetino, senza dovermi nemmeno chiedere perché. E accendendo di colpo la lampadina sulla famosa frase di Sri K. Pattabhi Jois: “Lo Yoga è 1% teoria, e 99% pratica”. Buona lettura!

” La pratica è importante perché ci porta oltre la teoria, dentro l’esperienza. Esperienza della conoscenza sacra ed esoterica del Sé. Sri K. Pattabhi Jois, il fondatore dell’Ashtanga Yoga, enfatizzava ripetutamente la differenza tra la conoscenza teorica e l’esperienza pratica della conoscenza.  

I praticanti di Ashtanga yoga sono rinomati per la serietà con cui affrontano la pratica. Seguiamo religiosamente la ricetta di due o più ore di pratica per sei giorni alla settimana. Alcuni di noi (parecchi in realtà) si alzano ad orari assurdi (intorno alle 3 del mattino) per ritagliarsi uno spazio di tranquilla solitudine in cui praticare. C’è da chiedersi da dove arrivi l’energia per sostenere un programma così estenuante… 

Praticate solo perché avete voglia di praticare. Punto. Non fatelo per un motivo particolare; non perché state seguendo una tradizione, non perché volete dimagrire, essere in forma, divertirvi, stare bene, crescere spiritualmente, realizzarvi, o mostrare devozione. No, nessuno di questi motivi.  

Bandite qualsiasi “motivo” vi venga in mente per avere la spinta necessaria a mettere piede sul tappetino. 

Capiamo di aver trovato qualcosa di importante per noi quando sentiamo la voglia di farlo, senza un motivo particolare: semplicemente, non abbiamo altra scelta. Riusciamo in qualche modo a trovare il tempo per praticare, leggere, studiare, ascoltare, contemplare, riflettere, o essere in qualche modo connessi con la materia che ci interessa. Se parliamo di Yoga, questo significa cercare un maestro e usare qualsiasi mezzo in nostro possesso per conoscere, poco a poco, sempre qualcosa in più. Siamo alla ricerca di qualcosa che ci permetta di penetrare in quello che Kabir definisce “il nostro corpo ignorante”.   

Pensate a quando eravate bambini. Facevate le cose senza motivo, spontaneamente, senza pensare a cosa avreste ottenuto da una qualsiasi azione, né a migliorare voi stessi. Non avevate bisogno di convincervi, vi capitava qualcosa di bello sotto mano, e cominciavate a giocarci. Non appesantite la vostra pratica con un motivo. 

Come dice Kabir:

“Chi spera in un motivo, fallirà. 

L’arroganza della ragione ci ha separato dall’amore. 

La parola stessa “ragione” ci allontana inesorabilmente.” 

Non avete bisogno di un guru, di profondità psicologiche, di rivelazioni penetranti o improvvise per rivoluzionare la vostra anima. E’ così semplice e facile semplicemente scegliere di vedere, è quasi un solletico difficile da afferrare. Come direbbe Alan Watts, “Non potete mordervi i denti”.   

Cercare un motivo in più, come se potesse renderci più forti, ci allontana dall’obiettivo ed è una vera tragedia, perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un battito di ciglia, e un sorriso malizioso. 

– David Garrigues, maggio 2017

Traduzione e commenti Francesca d’Errico