Lo Yoga dell’ HAṬHĀBHYĀSAPADDHATI: l’alba dell’HAṬHAYOGA moderno #2

Parte Seconda – sintesi e traduzione dell’originale di Jason BIRCH & Mark SINGLETON, Soas University – da The Journal of Yoga del 29 dicembre 2019

Continuiamo oggi l’avventura che ci porta nei siti archeologici e nelle antiche biblioteche dell’India, dove si è svolto il lavoro del team dell’Hatha Yoga Project, alla ricerca dei testi perduti da cui origina lo yoga contemporaneo. Nel mio precedente post, abbiamo esaminato la coerenza storica tra il manoscritto dell’Haṭhābhyāsapaddhati e il leggendario Yogakurunta che ha ispirato Krishnamacharya e Pattabhi Jois nella creazione del metodo praticato oggi da milioni di yogi contemporanei: l’Ashtanga Vinyasa Yoga. In questa seconda parte, vedremo quali sono le similitudini, e anche le molte differenze, tra la nostra moderna pratica e questo antico testo. Scopriremo anche quali importanti modifiche hanno apportato Krishnamacharya e Pattabhi Jois, a testimonianza di come la costante evoluzione sia una componente fondamentale della pratica dello Yoga, e quindi un processo senza fine a cui assistiamo ancora ai giorni nostri, e che ha radici storiche di tutto rispetto. Non lasciamoci trarre in inganno da un incipit dubbioso: l’articolo va letto fino in fondo per comprendere davvero l’influenza di questo testo sul lavoro del grande Krishnamacharya.

L’Haṭhābhyāsapaddhati e Krishnamacharya

“Apparentemente, l’Ashtanga Yoga non collima, e nemmeno si avvicina, ai particolari raggruppamenti di āsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati. Inoltre, mentre l’Haṭhābhyāsapaddhati contiene probabili sequenze di āsana, nel testo non viene menzionato il termine vinyāsa, né descrive la tipologia di transizioni posturali o la sinergia tra respiro e movimento che sono associati al concetto di vinyāsa elaborato da Krishnamacharya. Forse, Krishnamacharya ha semplicemente tratto la sua iniziale o parziale ispirazione da questo manoscritto —in particolare dal suo utilizzo delle posizioni che collegano le posture —e, crucialmente, lo ha usato come precedente testuale per sancire il suo originale metodo vinyāsa . L’Haṭhābhyāsapaddhati contiene invero insegnamenti originali sulle mudrā (in particolare vajrolimudrā), e istruzioni sui bandha, sebbene non si trovino istruzioni sistematiche sul on dṛṣṭi inteso come direzione dello sguardo nell’esecuzione degli āsana, né vi siano tracce di alcuna ‘philosophy’ originale. In questo caso, tuttavia, potremmo dare la ‘colpa’ alla natura incompleta del manoscritto dell’Haṭhābhyāsapaddhati.

Dal Śrītattvanidhi, paraśvadhāsanam, con testo in sanscrito, in grafia kannaḍa

Se K. Pattabhi Jois non parla dello Yogakuraṇṭi nel suo libro Yoga Mala (pubblicato per la prima volta in lingua Kannada nel 1962, e tradotto in inglese nel 1999), il maestro cita però il suo supposto autore, Vāmana, in diverse occasioni. In primo luogo, riferendosi a paścimatānāsana, a Vāmana—insieme agli autori dell’Haṭhapradīpikā e del Gheraṇḍasamhitā— viene attribuita la frase in cui si afferma che quando avviene l’unione tra apānavāyu e prāṇavāyu ‘l’aspirante non deve più temere la vecchiaia e la morte’ (Jois 2010, 30). Non viene fornita alcuna citazione diretta. Tuttavia, la pratica di sarvavāyucālana, unica all’Haṭhābhyāsapaddhati e ritenuta in grado di donare allo yogin la capacità di praticare gli otto kumbhaka (ad iniziare da sūryabhedana), viene eseguita in paścimatānāsana. Si contrae il pavimento pelvico, e si muove l’aria all’interno del torace contraendo la gola: ovvero, l’aria di apāna viene spostata nella sede di prāṇavāyu. Non si parla, nell’Haṭhābhyāsapaddhati di timore della vecchiaia o della morte, ma è sorprendente notare che una procedura simile venga identificata da Pattabhi Jois come derivante dallo Yogakuraṇṭi. Potremmo speculare che Krishnamacharya avesse puntualizzato la derivazione di questa pratica dallo Yogakuraṇṭi. Questa era una pratica unica tra i testi di yoga con cui era venuto a contatto, e l’aveva probabilmente trasmessa a Pattabhi Jois.

Il secondo riferimento a Vāmana nel libro di Jois (Jois 2010, 94), si trova quando il maestro scrive che Vāmana ‘parla di Baddha Konasana come il più importante tra gli āsana’.

[…] Una postura chiamata baddhakoṇāsana non appare nell’Haṭhābhyāsapaddhati o nello Śrītattvanidhi, né è evidente in alcun testo di yoga premoderno. Tuttavia, la posizione conosciuta come baddhakoṇāsana nella tradizione di Krishnamacharya e in altre scuole odierne, è probabilmente assai antica, e conosciuta comunemente come bhadrāsana. Se realmente Vāmana si riferisce a baddhakoṇāsana come il più importante tra gli āsana, forse parla di bhadrāsana (con il nome di baddhakoṇāsana). Ma non siamo stati in grado di tracciare questo verso.

Inoltre—cosa ben nota e spesso citata da chi pratica Ashtanga Yoga—si dice che Vāmana insistesse sull’importanza del vinyāsa nella pratica degli āsana:

Se dobbiamo praticare gli asana e i Surya Namaskara, dobbiamo farlo solo secondo il metodo del vinyasa. Come disse il saggio Vamana, “Vina vinyasa yogena asanadin na karayet [O yogi, non praticare gli asana senza vinyasa]” (Jois 2010, 30). Traslitterato, il verso appare come segue: ‘vinā vinyāsa yogena āsanādīn na karayet’.

Questo verso però non appare nell’Haṭhābhyāsapaddhati, così come non troviamo il termine vinyāsa. Infatti, il termine vinyāsa deve ancora essere trovato in un qualsiasi testo, con lo stesso significato che gli viene attribuito nell’Ashtanga Yoga, prima di Krishnamacharya. E nemmeno troviamo menzione del sūryanamaskāra nell’Haṭhābhyāsapaddhati. Può darsi che esista un verso che ne parla, e di cui non siamo a conoscenza. Se così fosse, è stato probabilmente reinterpretato per sostenere il significato del termine vinyāsa che gli hanno dato Krishnamacharya e/o Jois nei loro sistemi di Yoga posturale, una reinterpretazione che si riflette nella traduzione inglese del libro di Jois, Yoga Mālā. Il termine vinyāsa (come il suo sinonimo nyāsa) si riferisce generalmente, nei testi tantrici, all’iniziazione ai mantra sul corpo del praticante, spesso come rito preliminare ad ulteriori sādhana. In questo contesto, il verso potrebbe significare ‘non si pratichino gli āsana etc., (āsanādīn) senza l’iniziazione ai mantra (vinyāsayogena)’. Si noti che, a parte la traduzione di Jois, questo verso non si riferisce esclusivamente agli āsana, ma ad ‘āsana etc.,’ (n.d.T. Personalmente, la citazione dei mantra riveste la pratica dell’Ashtanga Yoga di una ritualistica che trascende la sua apparenza meramente fisica).

Nota:nyāsayogena’ viene citato in diverse opere premoderne. Ad esempio, Brahmayāmala 10.106 (ṣaḍaṅganyāsayogena ekabījāditaṃ kramāt | namaskārāntasaṃyuktaṃ dūtīnāṃ ṣaṭkam uttamam); Jñānārṇavatantra 14.141 e Svacchandapaddhati p. 76 (anena nyāsayogena trailokyakṣobhako bhavet); e ancora Niśvāsakārikā (IFP transcript T150) 1797 (praṇavanyāsayogena tritattvaṃ kārayed budhaḥ).

Con questo presupposto, vinyāsa potrebbe essere considerato come prerequisito (o parte concomitante) del sādhana che inizia con gli āsana. Sembra evidente che Krishnamacharya abbia preso in prestito un termine di uso comune, e lo abbia “riassegnato” alla descrizione di un principio del suo sistema di āsana, e che il verso attribuito a Vāmana e citato da Pattabhi Jois (e conseguentemente dai suoi studenti) sia stato costruito con creatività per sostenere le particolarità del sistema di āsana che Jois aveva appreso da Krishnamacharya.

Il metodo del vinyāsa di Krishnamacharya deriva anche, probabilmente, dagli esercizi di lotta descritti nel 1896 nel manuale di ginnastica di Mysore, il Vyāyāmadīpike. Come è noto, è probabile che Krishnamacharya conoscesse questo libro, o quantomeno la lotta, la ginnastica e le tradizioni di esercizio fisico all base di questo testo. Il libro descrive diverse variazioni del movimento dinamico di transizione tra le posizioni, conosciuto come jhoku, ed eseguito in piedi o da seduti, in cui il peso del corpo viene portato sulle mani quando si passa da una posizione all’altra. Un jhoku (1896, vedi immagine) viene inizialmente descritto come un inarcamento in posizione prona (simile a ūrdhvamukhaśvānāsana, ‘la posizione del cane a faccia in su’, nel sistema di Krishnamacharya). Sembra inoltre indicare un movimento di transizione tra una posizione accovacciata con le braccia tese e il volto rivolto verso il basso (simile ad una variante, con le ginocchia flesse, di adhomukhaśvānāsana, ‘la posizione del cane a faccia in giù,’ nel sistema di Krishnamacharya). E ancora un plank con i gomiti flessi (simile a caturaṅga daṇḍāsana nel sistema di Krishnamacharya), e lo stesso inarcamento in posizione prona (ūrdhvamukha- śvānāsana). Posture simili (incluso l’adhomukhaśvānāsana accovacciato come preludio al ‘jump forward’) sono, come è noto, componenti posturali chiave del vinyāsa dell’Ashtanga Yoga.

Urdhvamukhasvanasana

Un jhoku viene inoltre menzionato come transizione in e da una posizione chiamata ‘forbice varase’ simile all’aṣṭavakrāsana del sistema di Krishnamacharya. Il movimento inizia dall’inarcamento precedentemente nominato come jhoku (ovvero, ūrdhvamukhaśvānāsana); allo studente si richiede quindi di ‘eseguire un jhoku’ (passando al caturaṅgadaṇḍāsana e quindi in adhomukhaśvānāsana), prima di sollevare i piedi dal suolo, lanciando le gambe in avanti, ed entrando nella forbice varase. Dopodiché, lo studente lancia indietro le gambe. Questo movimento è lo stesso del vinyāsa in entrata e in uscita da aṣṭavakrāsana .

L’adhomukhaśvānāsana praticato nell’Ashtanga Yoga è simile al gajāsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati (no. 25), in cui il dṛṣti è all’ombelico e le gambe sono estese. Gajāsana comprende inoltre un movimento chiamato daṇḍ, simile in alcuni aspetti sia al jhoku del Vyāyāmadīpike che al vinyāsa dell’Ashtanga Yoga. Questo ci fa pensare che Krishnamacharya abbia tratto ispirazione da entrambi i testi.

Nota: ‘Varase’ è una parola utilizzata comunemente nella lotta, per indicare i diversi modi in cui un lottatore mette a terra il suo rivale (ringraziamo Prithvi Chandra Shobhi per questa informazione).

Un Jhoku raffigurato nel Vyāyāmadīpike (Bharadwaj 1896, 31). Journal of Yoga Studies vol. II

La somiglianza tra il Jhoku sopra raffigurato e la transizione tipica dell’Ashtanga Vinyasa Yoga è davvero forte. Altri esercizi nel Vyāyāmadīpike presentano il jhoku come movimento di transizione tra una posizione eretta e una in equilibrio sulle mani, simile al ‘full vinyāsa’—dell’Ashtanga Vinyasa. Il termine jhoku, quindi, sembra indicare un movimento di transizione dinamico da una posizione eretta o seduta, in cui il peso del corpo è sostenuto dalle mani. Come esempio finale, l’esercizio jhula del Vyāyāmadīpike (1896, 61, no. 51), sebbene non menzioni un jhoku, è identico alla postura conosciuta come lolāsana, presente in alcuni dei metodi insegnati da Krishnamacharya (vedi, Iyengar 1995, 116): il praticante è seduto in padmāsana, sostiene il peso del corpo sulle braccia e fa ondeggiare il corpo avanti e indietro, prima di lanciarlo indietro, o di sollevarsi in verticale sulle mani, o di entrare in mayūrāsana. Ancora una volta, questi movimenti ci fanno pensare ai vinyāsa dell’Ashtanga Vinyasa Yoga.

Nota: Può darsi quindi che il metodo vinyāsa di Krishnamacharya derivi dalle tecniche delle tradizioni della lotta, come il jhoku e il daṇḍ, se non addirittura dal testo del Vyāyāmadīpike (in combinazione con lo stesso Haṭhābhyāsapaddhati ). Non siamo i primi a notare le corrispondenze tra i vinyāsa di Krishnamacharya e questo testo: Norman Sjoman ha evidenziato che gli esercizi del Vyāyāmadīpike ‘sembrano essere la base primaria dei vinyāsa di Krishnamacharya’ (1999, 53).

(NdT: per amore di sintesi, e per restare in tema, ometto la parte del testo in cui si evidenzia come la presenza di funi, predominante nello Yoga di Iyengar, fosse a sua volta presente nell’ Haṭhābhyāsapaddhati – ulteriore testimonianza di come questo testo abbia influenzato il lavoro di Krishnamacharya e dei suoi studenti diretti).

La relazione tra Haṭhābhyāsapaddhati e Ashtanga Vinyasa Yoga

Quanto abbiamo visto finora ci mette in una posizione migliore per riflettere sulle possibilità che il testo a cui Krishnamacharya si riferisce come Yogakuraṇṭi sia collegato all’Haṭhābhyāsapaddhati, e per capire se possa essere considerato la fonte, o la bozza, delle sequenze posturali di Krishnamacharya e Pattabhi Jois. Il principale argomento a favore di una simile identificazione, è che lo Yogakuraṇṭi descrive gruppi o sequenze di posizioni, alcune delle quali richiedono l’uso di una fune, come avviene in effetti nell’Haṭhābhyāsapaddhati. Come abbiamo già visto, tuttavia, a parte il fatto che sia l’Haṭhābhyāsapaddhati che le sequenze contemporanee ispirate allo Yogakuraṇṭi trasmettono gruppi distinti di pose in sequenza, il modo in cui questi gruppi sono categorizzati non è comparabile. Questo potrebbe indebolire la nostra argomentazione. Detto questo, comunque, nel lavoro di Krishnamacharya intitolato ‘Saluti al Maestro’, appare una classificazione a nove livelli di posizioni yoga, che presenta alcune sovrapposizioni con i raggruppamenti dell’Haṭhābhyāsapaddhati, e include le posizioni erette, sedute, supine e prone.

La natura dinamica dell’Ashtanga (Vinyasa) Yoga, trova corrispondenza nella natura dinamica di molte delle posizioni contenute nell’Haṭhābhyāsapaddhati. Tuttavia, appare evidente, raffrontando le posizioni dell’Haṭhābhyāsapaddhati che questo testo non può essere considerato una fonte diretta per le sequenze di Krishnamacharya contenute nel suo Yogāsanagaḷu, né per le serie dell’Ashtanga Vinyasa Yoga contemporaneo insegnato da Pattabhi Jois. Nè lo Śrītattvanidhi né l’Haṭhābhyāsapaddhati (e nemmeno altri testi conosciuti di yoga premoderno) insegnano le forme conosciute di sūryanamaskāra A e B che segnano l’inizio della pratica nel metodo dell’Ashtanga Yoga. Oltre a ciò, la nomenclatura dell’Haṭhābhyāsapaddhati è, per la maggior parte, ben diversa da quella di Krishnamacharya. Solo otto delle 112 posizioni dell’Haṭhābhyāsapaddhati sono identiche, nel nome e nella forma, alle posizioni dei metodi insegnati e derivati dal lavoro di Krishnamacharya. Cinque di queste sono, tra l’altro, āsana comunemente note anche in altri testi di yoga. Ciò nonostante, le rimanenti tre posizioni identiche nel nome e nella forma sono molto meno insolite, e questo suggerisce che Krishnamacharya si sia ispirato a questo testo nella formulazione della sua metodologia.

Inoltre, almeno 41 ulteriori posizioni contenute nell’Haṭhābhyāsapaddhati sono simili o molto vicine a posture insegnate nei metodi derivati dagli insegnamenti di Krishnamacharya. Alcune sono posizioni che non troviamo in nessun altro testo, e che sono peculiari dell’Ashtanga Yoga. Particolarmente degne di nota sono vetrāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 17), una posizione avanzata che corrisponde al ‘catching’ che segue gli inarcamenti nella sequenza finale dell’Ashtanga Yoga; luṭhanāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 22), che comprende il movimento di rotolamento sulla schiena noto come cakrāsana nell’Ashtanga Yoga; e ancora bhāradvajāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 36) in cui il praticante si solleva da padmāsana in verticale sulle mani, che può essere paragonato al movimento di transizione che viene a volte inserito dopo suptavajrāsana nella seconda serie dell’Ashtanga Yoga; il (ripetuto) movimento in kukkuṭoḍḍānāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 37), che ricorda il movimento da utkaṭāsana nell’Ashtanga Yoga (posizione che in questo metodo non ha un nome e viene accompagnata solitamente dall’istruzione ‘up’, ovvero ‘su’); śūlāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 42) che corrisponde a śāyanāsana, la sesta posizione dell’attuale serie ‘Advanced B’ dell’Ashtanga Yoga; e infine preṅkhāsana (Haṭhābhyāsapaddhati 73), in cui il corpo si muove ondeggiando tra le mani (a gambe tese), che ci fa pensare ai caratteristici ‘jump back’ e ‘jump through’ dell’Ashtanga Yoga (n.d.T. e che a mio parere testimonia che questa transizione non è unicamente legata ai testi dedicati alla lotta). Queste posizioni sono talmente distintive e uniche tra i testi di Yoga, da suggerire che Krishnamacharya le abbia tratte dal Śrītattvanidhi e/o dalle fonti di questo testo. Colpisce inoltre che l’ultima posizione del Śrītattvanidhi, yogapaṭṭāsana, sia anche l’ultima (terza e finale) del gruppo di pose denominato ‘proficient’ inYogāsanagaḷu.

Per concludere, sembra ragionevole supporre che il Śrītattvanidhi e un testo di origine (molto probabilmente l’ Haṭhābhyāsapaddhati di Mysore e, forse, l’Haṭhayogapradīpikā) abbiano fornito una notevole ispirazione a Krishnamacharya nei suoi esperimenti con l’ordinamento sequenziale delle posizioni yoga negli anni ’30. Se l’Haṭhābhyāsapaddhati di Mysore si rivela identico o molto simile all’Haṭhayogapradīpikā negli archivi del palazzo, possiamo desumere che Krishnamacharya abbia scelto il nome Yoga Kuruṇṭa/Kuraṇṭi’ (forse in onore dell’autore del testo) per togliere qualsiasi ambiguità rispetto all’Haṭhapradīpikā di Svātmārāma, che veniva comunemente identificato, a quei tempi, come Haṭhayogapradīpikā (lo chiamava così anche lo stesso Krishnamacharya). Sembra anche probabile, vista la natura distintiva e inusuale di alcune delle posture dell’Haṭhābhyāsapaddhati’s, che Krishnamacharya si sia ispirato ad uno e ad entrambi i testi per alcuni degli āsana del suo metodo, e che la predominanza data agli āsana dinamici in questi lavori premoderni abbia sancito alcuni degli esperimenti di Krishnamacharya con la pratica dinamica degli āsana, attribuendogli una autorità testuale.

Tuttavia—come lo stesso Krishnamacharya sembra riconoscere nella lista delle sue fonti per Yogāsanagaḷū—è anche probabile che abbia immesso una porzione significativa della sua esperienza personale per sostenere queste formulazioni, così come ispirazioni provenienti da altre fonti, in particolare il Vyāyāmadīpike. Inoltre, è evidente che un testo simile all’Haṭhābhyāsapaddhati non possa essere stato la sola base per le sequenze insegnate da Krishnamacharya a Mysore negli anni ’30 e ’40 (quantomeno per come sono note attraverso ai suoi libri di quel periodo), né per le sequenze che da esse derivano, e insegnate oggi come Ashtanga Yoga. E nemmeno può essere, se dobbiamo credere alle affermazioni di Krishnamacharya, della sua famiglia e dei suoi studenti, che Yoga Koruṇṭa sia il nome dato da Krishnamacharya ad un testo identico, o praticamente identico, all’Haṭhābhyāsapaddhati.

Krishnamacharya intento ad insegnare pranayama

Krishnamacharya fu una figura complessa, che incarnò, per molti aspetti, l’incontro tra tradizione e modernità (coloniale). Come evidenziato da Ikegame (2013), le strutture politico-sociali, i sistemi educativi e le pratiche di cultura fisica a Mysore a quell’epoca erano profondamente influenzate (e controllate) dai poteri coloniali, e lo stesso Krishnamacharya, un Brahmino cresciuto in modo tradizionale, faceva parte di questo ambiente moderno e filo-occidentale, divertendosi anche a giocare a polo con gli inglesi. Lo Yoga che insegnò a Mysore, sebbene radicato nelle tradizioni indiane, era composito, sincretico e in continua evoluzione. Suo figlio T.K.V Desikachar scrisse che il padre ‘sviluppò’ e ‘scoprì’ nuove posizioni e tecniche come il vinyāsa nel corso della sua carriera di insegnante. E l’innovazione nella pratica era un aspetto in cui incoraggiava i suoi stessi studenti.

Nota: Uno dei primi studenti di Krishnamacharya a Mysore, T.R.S. Sharma, afferma: “Krishnamacharya credeva nell’innovazione. Non esistevano sequenze di posizioni fisse. Inventava continuamente variazioni e nuove posture. E aveva sempre in mente la costituzione fisica dei suoi studenti. Quindi non insisteva perché tutti avessero la stessa sequenza di āsana. Ma era molto intransigente su sūryanamaskār. Bisognava iniziare la pratica con il sūryanamaskār. Dopodiché, liberi tutti: si era liberi di innovare in merito alle posizioni” (da un’intervista con Andrew Eppler nel film Mysore Yoga Traditions, An Intimate Glimpse Into the Origins of Modern Yoga (2018) al minuto 16:15).

Sappiamo anche che uno dei principi fondamentali dei suoi insegnamenti era l’adattamento della pratica alle esigenze dei suoi studenti (prendendo in considerazione l’orario, il luogo, l’età, la costituzione etc.). Un’altra sua caratteristica era l’attribuzione di una apparente innovazione a testi presumibilmente antichi, come lo Yoga Rahasya, attribuito al saggio medievale Nāthamuni, ma quasi certamente composti dallo stesso Krishnamacharya. Se loYogakuruṇṭi era un testo praticamente identico all’Haṭhābhyāsapaddhati e noto a Krishnamacharya (attraverso gli archivi del palazzo di Mysore, o in altri luoghi), il contenuto a cui egli attribuiva il testo probabilmente cambiava a seconda dell’evoluzione dei suoi insegnamenti. Quindi le affermazioni di Krishnamacharya e dei suoi studenti a proposito dei contenuti dello Yogakuruṇṭi potrebbero non essere il metodo migliore per scoprire se quel testo sia paragonabile all’Haṭhābhyāsapaddhati.

Conclusione

L’Haṭhābhyāsapaddhati è stato composto in un periodo in cui la letteratura sull’Haṭhayoga stava cambiando in modo significativo. I primi testi sull’Haṭhayoga (dal dodicesimo al quindicesimo secolo) erano brevi, concise opere che insegnavano relativamente poche tecniche, e fornivano minimi dettagli pratici. Tuttavia, dopo la composizione dell’ Haṭhapradīpikā nel quindicesimo secolo, furono composti trattati più estesi sull’Haṭhayoga, che esponevano teoria e pratica (n.d.T.Birch, testo del 2020, a breve tradotto su queste pagine). Tra questi alcuni erano più didascalici, come l’Haṭharatnāvalī (diciassettesimo secolo), e altri, come l’Haṭhayogasaṃhitā (diciassettesimo secolo) e l’Haṭhābhyāsapaddhati, più orientati alla pratica. L’Haṭhābhyāsapaddhati rappresenta il culmine di questo periodo fiorente per l’Haṭhayoga, poiché contiene esaustive istruzioni sulla pratica, in particolare, degli yamaniyama, degli āsana complessi, e di due mudrā, khecarī, e vajroli, oltre ad alcuni dettagli pratici e mai documentati precedentemente sul aṭkarma, sull’alimentazione, e sul prāṇāyāma. In questo senso, è un autentico paddhati (manuale, n.d.T.). Nonostante ciò, come nei primi testi sull’Haṭhayoga, questo paddhati non tratta dottrina o metafisica, il che suggerisce che sia stato composto come manuale non settario, per coloro che volessero praticare Haṭhayoga.

Sotto molti aspetti, la scoperta dell’Haṭhābhyāsapaddhati solleva molte più domande che risposte sulla storia dello Yoga. Quanto era diffuso in India questo particolare metodo? Era conosciuto tra gli asceti e i praticanti comuni come manuale per la pratica? E come era arrivato a Mysore, dove il Mahārāja aveva commissionato ai suoi migliori artisti, per la sua corte, la produzione di un manoscritto illustrato sullo Yoga? I suoi dettagli senza precedenti indicano che questo metodo era in qualche modo una evoluzione innovativa nella storia dell’Haṭhayoga? O forse l’Haṭhābhyāsapaddhati fornisce uno scorcio sulla proliferazione delle pratiche e delle tecniche yogiche fisiche che, come le arti marziali indiane, erano state riportate solo raramente nella letteratura Sanscrita? Gli āsana dinamici dell’Haṭhābhyāsapaddhati erano un adattamento yogico di alcuni metodi di allenamento militare, parte della cultura degli akhāḍā, i centri di addestramento che sembra fossero molto diffusi nel Sud dell’Asia prima della colonizzazione britannica (O’Hanlon 2007)? E dovremmo forse interpretare le frasi di apertura dell’Haṭhābhyāsapaddhati come introduzione ad uno yoga adatto a tutti, o piuttosto i suoi estenuanti āsana e i suoi esercizi estremi per mantenere il celibato, ne fanno un testo esclusivo per gli asceti o per i Brahmini votati all’astinenza?

Questo testo rappresenta inoltre un ponte tra pratiche yoga transnazionali premoderne e moderne, dato che l’Haṭhābhyāsapaddhati (e il Śrītattvanidhi, da cui è tratto) ha influenzato gli insegnamenti posturali di Krishnamacharya. Questi testi hanno fornito ispirazione e un precedente śāstric alle innovative sequenze posturali di Krishnamacharya, e sono probabilmente le sole fonti testuali, tra tutte quelle elencate nei suoi libri di quel periodo, a poter essere considerate fonti credibili per gli āsana che insegnò agli studenti di Mysore, come Pattabhi Jois e B.K.S. Iyengar. Il Śrītattvanidhi è stato composto durante un periodo di significativo coinvolgimento britannico nella vita sociale e politica di Mysore; e a seguito della morte di Mahārāja Krishnaraja Wodeyar III nel 1869, questo coinvolgimento si intensificò, modernizzando molti aspetti della vita di corte (Ikegame 2013, 57ff), inclusa la pratica fisica dello yoga.

E’ molto probabile che l’evoluzione delle sequenze di āsana di Krishnamacharya durante gli anni ’30, rifletta anche elementi di questa modernizzazione (Singleton 2010). Ma la redazione delle posture dell’Haṭhābhyāsapaddhati in seno al Śrītattvanidhi, e l’assimilazione delle stesse posture nei libri e negli insegnamenti di Krishnamacharya, puntano ad un processo continuo di innovazione e adattamento, simile alla modalità con cui gli insegnanti di yoga contemporanei adattano alcuni insegnamenti di Krishnamacharya per rispondere ad un pubblico globale. Se le fonti a disposizione dell’autore dell’Haṭhābhyāsapaddhati potessero essere recuperate, una loro analisi potrebbe rivelare una interessante preistoria della sua notevole pratica posturale.

Illustrazione del Sritattvanidhi di uno yogin in Aṇkuśāsana, posizione del Dio Elefante, oggi comunemente nota come Bhairavasana

Lo Yoga dell’ HAṬHĀBHYĀSAPADDHATI: l’alba dell’HAṬHAYOGA moderno

Parte Prima – sintesi e traduzione dell’originale di Jason BIRCH & Mark SINGLETON, Soas University – da The Journal of Yoga del 29 dicembre 2019
Antico manoscritto in Sanscrito,
da Hatha Yoga Project

Ashtanga Yoga e Yogakurunta: qual è il vero legame tra la nostra pratica e la leggenda del manoscritto citato da Krishnamacharya? Il lavoro che vi propongo oggi è un estratto del Volume 2 del Journal of Yoga dedicato all’Haṭhābhyāsapaddhati, di cui ho parlato negli ultimi articoli pubblicati sul mio blog. Data la sua lunghezza, ho pensato di riassumerlo e dividerlo in due parti. La prima parte, tratta la storia di questo testo, e le prove che lo collegano al leggendario Yogakurunta di Krishnamacharya, ritenuto il testo da cui deriva l’Ashtanga Yoga, così come viene tramandato ancora oggi dalla famiglia Jois. La sintesi di queste pagine mi sembra uno stimolo interessante ad approfondire le origini della pratica, per tutti gli studenti e insegnanti di questa disciplina . Vediamo dunque insieme cosa hanno scoperto Jason Birch e Mark Singleton, i due accademici della Soas University di Oxford, che hanno dedicato gli ultimi cinque anni al bellissimo Hatha Yoga Project . Questo progetto ha reso finalmente accessibili molti manoscritti fino a poco tempo fa conosciuti solo perché nominati da alcuni guru e maestri contemporanei. La seconda parte della traduzione, che pubblicherò nei prossimi giorni, contiene maggiori dettagli su similitudini e differenze tra l’Haṭhābhyāsapaddhati, e la pratica attuale dell’Ashtanga Yoga. Quindi continuate a seguire il mio blog, e iscrivetevi per ricevere le notifiche delle nuove pubblicazioni!

Haṭhābhyāsapaddhati e Yogakurunta: il legame con lo yoga di Krishnamacharya

Krishnamacharya tra i suoi studenti, Mysore Palace

“Un legame suggestivo tra il sistema di yoga posturale di Krishnamacharya e l’Haṭhābhyāsapaddhati è il testo, apparentemente perduto, noto con il titolo di Yogakuruṇṭa o Yogakuraṇṭi, nominato sia da Krishnamacharya che dal suo allievo K. Pattabhi Jois come una fonte importante dei loro insegnamenti (Singleton 2010, 184-186). In Yogāsanagaḷu (‘Yoga Postures,’ 1941) di Krishnamacharya, testo che contiene sequenze posturali simili al moderno Ashtanga (Vinyasa) Yoga, viene nominato lo Yogakuraṇṭi come la quarta delle sei fonti dell’autore, che includono: (1) i Pātañjalayogasūtra, (2) l’Haṭhayogapradīpikā, (3) il Rājayogaratnākara, (5) le Upaniṣads relative allo yoga, e (6) le cose apprese dal suo/dai suoi guru e la sua esperienza personale (guropadeśa mattu svānubhāva). E’ interessante notare che in Yogāsanagaḷu lo Śrītattvanidhi non viene più menzionato come fonte, come in Yogamakaranda del 1934 (N.d.T., “Il Nettare dello Yoga”, Astrolabio). Tra queste sei fonti, è solo la quarta, proprio lo Yogakuraṇṭi , e la sesta (le cose apprese dai guru e la sua esperienza personale) che possono fornire una fonte credibile per gli insegnamenti degli āsana inclusi nel testo. Nessuno degli altri lavori sono fonti convincenti per la componente posturale del libro di Krishnamacharya’s book. Lo Yogakuraṇṭi , dunque, assume un’importanza unica come potenzialmente unica fonte testuale per i gruppi di āsana del libro di Krishnamacharya.

Il nome ‘Kuruṇṭa’ o ‘Kuraṇṭi’, naturalmente, richiama l’autore dell’Haṭhābhyāsapaddhati, ovvero Kapālakuraṇṭaka. Uno degli ultimi studenti di Krishnamacharya, A.G. Mohan, sostiene che Krishnamacharya gli abbia rivelato che lo Yogakuraṇṭi fosse autografato dal Koraṇṭaka menzionato nell’Haṭhapradīpikā . Così come Jason Birch ha supposto,

Nota: potremmo a nostra volta supporre che nel periodo trascorso tra i due libri, Krishnamacharya avesse riconosciuto che il testo a cui si riferisce come ‘Yoga Kuraṇṭi’ fosse in realtà la fonte della sezione risistemata di āsana del Śrītattvanidhi , e non sentisse quindi più la necessità di citare il Śrītattvanidhi. Se dobbiamo prendere sul serio la proposta che quel testo fu l’ispirazione delle sequenze posturali sviluppate da Krishnamacharya tra il 1930 e il 1940, sarebbe logico pensare che quel testo fosse più l’Haṭhābhyāsapaddhati in cui la struttura delle sequenze è intatta, piuttosto che il Śrītattvanidhi , in cui tali sequenze non sono distinguibili. Krishnamacharya potrebbe essere stato a conoscenza di un capitolo (il n. 24) del Rudrayāmala Uttaratantra che descrive āsana complessi. Ciò sarebbe possibile solo se il Rudrayāmala citato da Krishnamacharya in Yogamakaranda fosse lo stesso Rudrayāmala Uttaratantra , e di questo non abbiamo certezza.

Nota: Abbiamo già notato l’ambiguità del titolo ‘Haṭhayogapradīpikā’ nel contesto delle tradizioni yogiche di Mysore, che potrebbe riferirsi sia alla versione del 15esimo secono dell’Haṭhapradīpikā che ad un manoscritto illustrato identico all’Haṭhābhyāsapaddhati custodito negli archivi del Palazzo di Mysore. Tuttavia, quando Krishnamacharya si riferisce e cita l’Haṭhayogapradīpikā in Yogāsanagaḷu (e in altri suoi lavori), è chiaro che intende proprio l’Haṭhapradīpikā. Per questo, possiamo ritenere questo testo come la sua fonte primaria per gli āsanas che presenta.

Jason Birch al lavoro su un antico manoscritto

(Birch 2018 [2013], 141-142), è possibile che l’Haṭhābhyāsapaddhati sia lo Yoga Kuruṇṭa— o una sua versione abbreviata —citato da Krishnamacharya e Pattabhi Jois. Più recentemente, in risposta all’edizione curata da Kaivalyadhama e datata 2016 dell’Haṭhābhyāsapaddhati, altri (come lo studioso di yoga Manmath Gharote) hanno espresso pareri simili. Per valutare la validità di una simile opinione, sarebbe necessario considerare il grado di corrispondenza tra le sequenze di āsana insegnate da Krishnamacharya a Mysore negli anni ’30 e successivamente da Pattabhi Jois (che si ritiene derivino dagli Yoga Kuruṇṭa) e le sequenze posturali dell’Haṭhābhyāsapaddhati. (si veda articolo precedente su questo blog, n.d.t.) Prima però, vediamo cosa sappiamo dello Yoga Kuruṇṭa.

Secondo uno dei biografi di Krishnamacharya, il maestro ricevette il consiglio del famoso studioso di Varanasi, Gaṅgānāth Jhā di viaggiare oltre il Nepal per padroneggiare lo Yoga e incontrare il suo futuro guru (Srivatsan 1997, 27):

Esiste in lingua Gurkha un libro chiamato Yoga Kuranṭam [sic]. Il libro contiene informazioni pratiche sullo yoga e sulla salute. Se ti recherai presso Rāma Mohana Brahmacārī imparerai il significato completo degli Yoga Sūtra di Patañjali. […] In quel testo vengono trattati i diversi livelli degli Yoga Sūtra di Patañjali. Vi sono descritte inoltre con grande chiarezza varie pratiche yoga. Solo con l’aiuto dello ‘Yoga Kuranṭam [sic]’ si potranno comprendere la scienza e le ragioni che sottendono gli Yoga Sūtra”.

Nei sette anni e mezzo in cui Krishnamacharya restò con il suo guru, imparò a memoria l’intero Yoga Kuraṇṭam in lingua originale. (ibid).

Possiamo inoltre prendere in considerazione l’ipotesi che Krishnamacharya abbia modificato il titolo completo del testo (Kapālakuraṇṭakahaṭhābhyāsapaddhati) per prendere le distanze dalle associazioni tantriche al nome Kapālakuruṇṭaka (kapāla significa ‘teschio’).

Secondo Birch (2013): ‘Esiste la possibilità che Yogakuruṇṭa sia un nome alternativo a Haṭhābhyāsapaddhati o all’opera originale da cui è stato estratto il manoscritto incompleto dell’Haṭhābhyāsapaddhati .’ In una missiva personale a James Russell, Gharote scrive: ‘E’ possibile dire che il testo “Korunta” sia in realtà “Kapala Kuaranta Hathabhyasa-Paddhati” perché finora non ci siamo mai imbattuti in alcun altro testo collegato al termine ‘Kurantaka’, a parte questo. Quindi, a meno che non si trovino altre prove, dobbiamo accettare che “Korunta” sia in realtà “Kapala Kuaranta Hathabhyasa-Paddhati” (commento al post di James Russell, tradotto su questo blog: “Yoga Korunta – la leggenda rivelata” di James Russell Yoga, 2015).

Frederick Smith e Dominik Wujastyk suggeriscono che la parola kuruntam (sillabata karunta, korunta, kuranta, gurunda) sia probabilmente una variante Tamil (o comunque Dravidica) del termine Sanscrito grantha (che significa “libro”), piuttosto che un termine Gurkhali (si legga Singleton e Fraser, 2013).

[…] K. Pattabhi Jois, allievo di Krishnamacharya, diceva che lo ‘Yoga Korunta’ non era stato composto da Koraṇṭaka ma dal ‘rishi [ṛṣi]’ Vāmana, e che era alla base del metodo che Jois rese popolare in tutto il mondo con il nome di ‘Ashtanga Yoga’ (o ‘Ashtanga Vinyasa Yoga’ se ci riferiamo al suo distintivo sistema di unire respiro e movimento, noto come ‘vinyāsa’). Come recita il sito di Jois:

“L’Ashtanga Yoga è un antico sistema di pratica Yoga tramandato da Vamana Rishi nello Yoga Korunta. Questo testo fu trasmesso a Sri T. Krishnamacharya nei primi anni del 1900 dal suo Guru Rama Mohan Brahmachari, e venne successivamente trasmesso a Pattabhi Jois durante i [sic] suoi studi con Krishnamacharya, a partire dal 1927 (dal sito KPJAYI, 2017).

Eddie Stern

[…] Eddie Stern, uno dei più avanzati allievi americani di Pattabhi Jois, racconta che a Krishnamacharya— che aveva già memorizzato il testo durante il suo apprendistato con il suo Guru — fu detto che avrebbe potuto trovare lo Yogakuraṇṭi in una biblioteca di Calcutta, e il maestro trascorse lì un periodo di studi compreso tra il 1924 e il 1927 (Stern, 2010). E’ possibile dunque che esista (o sia esistito) a Calcutta un altro testo, comparabile con l’Haṭhābhyāsapaddhati. Tuttavia, il fatto che lo Yogakuraṇṭi non appaia nella lunga lista dei testi elencati da Krishnamacharya in Yoga Makaranda del 1934, fa presupporre che Krishnamacharya sia venuto a conoscenza di questo testo in tempi successivi.

Eddie Stern (in Jois, 2010) aggiunge inoltre che “Korunta significa “gruppi,” e che nel testo si diceva fossero contenuti molti diversi gruppi di asana, così come gli insegnamenti originali su vinyasa, drishti, bandha, mudra, e filosofia […] “Quando Guruji [Pattabhi Jois] iniziò i suoi studi con Krishnamacharya nel 1927, gli vennero trasmessi metodi contenuti nello Yoga Korunta. Sebbene sia difficile, se non impossibile, provare l’autenticità di questo libro, esso è generalmente accettato come la fonte dell’Ashtanga Yoga insegnato da Pattabhi Jois“.

L’affermazione di Stern sull’etimologia del termine ‘korunta’ è particolarmente interessante se pensiamo che l’Haṭhābhyāsapaddhati sia praticamente l’unico tra i testi dello yoga premoderno a raggruppare gli āsana (proni, supini, e così via). Inoltre, proprio come esistono sei gruppi di āsana nell’Haṭhābhyāsapaddhati, esistono sei serie nell’Ashtanga Yoga. E’ plausibile quindi che la sistemazione di un testo simile all’ Haṭhābhyāsapaddhati sia stata quanto meno una ispirazione per il raggruppamento di āsana dell’Ashtanga Yoga, se non addirittura la sua fonte.

[continua]

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Vivere in un universo psichico

Traduzione e commento al testo di Richard Conn Henry – da Nature

Ricordo che una delle prime cose che mi colpirono leggendo il libro di Sharon Gannon e David Life, “Jivamukti Yoga – Pratiche per la Liberazione del Corpo e dell’Anima” fu la bellissima definizione di “Yoga”:
“Non possiamo ‘fare’ yoga. Lo Yoga è il nostro stato naturale. Ciò che possiamo fare sono pratiche yoga, che possono rivelarci dove resistiamo al nostro stato naturale”. Quella frase marcò l’inizio della mia ricerca su quale fosse veramente il nostro ‘stato naturale’. Uno stato di perfetta unione con tutto ciò che ci circonda, con il nostro corpo (che rappresenta il primo ambiente con cui il nostro sé viene a contatto), certo, ma anche con l’ambiente che ci circonda, la natura, il pianeta, l’universo. Questo stato di connessione ci rimanda ad un universo fatto non solo di materia, ma anche di percezione, e di spirito. Un concetto che sembra avere poco a che fare con la scienza.

Eppure oggi eminenti scienziati concordano nell’affermare che la nostra realtà è ben lontana dalla concezione darwiniana dell’evoluzione per casualità, e lasciano intendere (in alcuni casi proponendo teorie molto fondate) che non è più il ‘nucleo’ della cellula, il nostro DNA, a renderci ciò che siamo: ma proprio la nostra capacità, attraverso le membrane cellulari, il sistema nervoso, la pelle, di creare un rapporto con l’ambiente (Bruce H. Lipton, 2020). Possiamo concordare o meno con la teoria di un biologo come Lipton, che ha rapporti controversi con la scienza. Ma quando è un astrofisico della John Hopkins University come Richard Conn Henry a proporci la teoria di un universo psichico, forse possiamo cominciare ad ascoltare.

Henry ha pubblicato questa sua teoria su Nature.com, uno dei siti scientifici più autorevoli in UK, riassumendola in un articolo di facile lettura, che vi ripropongo sintetizzato e tradotto da me in italiano. Davanti ad un Natale in cui i nostri spiriti sembrano eclissati dagli scenari politici ed economici prodotti dalla pandemia, le parole di questo scienziato a me sembrano meravigliose e importanti, per ricordarci, soprattutto se pratichiamo Yoga, qual è il nostro stato naturale. E come cercarlo, se ci sembra ultimamente un po’ sperduto.

“L’unica realtà è la mente e le sue osservazioni. Ma le osservazioni non sono ‘cose’. Per vedere l’Universo per ciò che è realmente, dobbiamo abbandonare la nostra tendenza a concettualizzare le osservazioni come se fossero cose.”

Storicamente, ci siamo sempre rivolti ai nostri leader religiosi per comprendere il significato delle nostre vite, e la natura del nostro mondo. Con Galileo Galilei, questa tendenza è cambiata. Stabilendo che la Terra ruota intorno al Sole, Galileo non solo è riuscito a credere nell’incredibile, ma ha convinto tutti a fare lo stesso. E’ stato un risultato incredibile in termini di ‘raggio d’azione psichico’, e con la successiva opera di Isaac Newton, la fisica si è unita alla religione nel tentativo di spiegare il nostro ruolo nell’Universo.

La più recente rivoluzione della fisica, negli ultimi 80 anni, deve ancora riuscire a trasformare la comprensione delle masse in modo simile. E tuttavia una corretta comprensione della fisica era accessibile anche ai tempi di Pitagora. Secondo Pitagora, ‘i numeri sono ogni cosa’, e i numeri sono mentali, non meccanici. Allo stesso modo, Newton chiamò la luce ‘particelle’, sapendo che il concetto sarebbe stato una ‘teoria efficace’ – utile, ma non veritiera. Come rivela il biografo di Newton, Richard Westfall: “La causa definitiva dell’ateismo, secondo Newton, è ‘questa nozione che i corpi abbiano una realtà completa, assoluta e indipendente'”.

La scoperta, datata 1925, della meccanica quantica risolse il problema della Natura dell’Universo. Brillanti fisici stavano nuovamente per credere all’incredibile – questa volta, che l’universo è psichico. Secondo Sir James Jeans: “il flusso di conoscenza si sta dirigendo verso una realtà non meccanica: l’Universo comincia ad assomigliare più ad un immenso pensiero che ad una immensa macchina. La mente non sembra più un intruso accidentale nel regno della materia… dovremmo piuttosto dire che è il creatore e il governatore del regno della materia”. Ma i fisici non hanno ancora seguito l’esempio di Galileo, e hanno convinto tutti delle meraviglie della meccanica quantica. Come spiega Sir Arthur Eddington “E’ difficile per un fisico, legato al dato di fatto, accettare la visione che il substrato di ogni cosa appartenga al mondo della psiche”.

Nella sua commedia Copenhagen, che presenta la meccanica quantica ad un’audience più vasta, Michael Frayn attribuisce a Niels Bohr queste parole: “abbiamo scoperto che… l’Universo esiste… solo attraverso la comprensione situata nella mente umana”. La moglie di Bohr risponde, “e l’uomo al centro di questo Universo sei tu, o Heisenberg?”.

I fisici eludono la verità, perché la verità è estranea alla fisica del quotidiano. Una modalità tipica per evadere l’Universo psichico è invocare la ‘decoerenza’ — la nozione che ‘l’ambiente fisico’ sia sufficiente a creare la realtà, indipendentemente dalla mente umana. Tuttavia l’idea che un qualsiasi atto irreversibile di amplificazione sia necessario a far collassare la funzione delle onde è risaputamente errato: negli esperimenti di tipo Renninger, la funzione dell’onda collassa semplicemente grazie al fatto che la mente umana non la vede. L’Universo è completamente psichico, o mentale.

Nel decimo secolo, Ibn al-Haytham diede inizio alla visione che la luce proceda da una fonte, entri nell’occhio e venga percepita. Questa rappresentazione non è corretta, ma ancora oggi è ciò che la maggior parte delle persone ritiene vero, e tra questi sono inclusi anche molti fisici (a meno che non li si metta sotto pressione). Per scendere a patti con l’Universo, dobbiamo abbandonare queste idee. Il mondo è quantum meccanico: dobbiamo imparare a percepirlo come tale.

Uno dei benefici del portare l’umanità a percepire correttamente il mondo, è la conseguente gioia nello scoprire la natura mentale dell’Universo. Non abbiamo idea di cosa implichi questa natura mentale, ma la cosa bella è che è vera. Al di là della acquisizione di questa percezione, la fisica non ci è più di aiuto. Possiamo scendere nel solipsismo, espanderci al deismo, o ad altro se riteniamo che possa servire, ma non possiamo più chiedere aiuto alla fisica.

E un altro beneficio nella visione quantica del mondo è che chi impara ad accettare che niente esiste, se non l’osservazione, è molti passi avanti rispetto ai fisici che sperano di scoprire ‘la realtà delle cose’. Se riuscissimo a tirar fuori un Galileo, e a far credere alla gente la verità, la fisica ci sembrerebbe un gioco da ragazzi.

L’Universo è immateriale – psichico e spirituale. Vivete, e godetevela.

Altre letture suggerite:

Marburger, J. On the Copenhagen Interpretation of Quantum Mechanics http://www.ostp.gov/html/Copenhagentalk.pdf (2002).

Henry, R. C. Am. J. Phys58, 1087–1100 (1990).

L’Haṭhābhyāsapaddhati di Kapālakuruṇṭaka

Ricostruzione della sequenza di Āsana
Riflessioni di Philippa Asher

Traduzione di Francesca d’Errico

NdT: In questi ultimi giorni avete trovato sul mio blog alcune traduzioni tratte da The Luminescent, il sito di Jacqueline Hargreaves dedicato all’Hatha Yoga Project della Oxford University. La descrizione degli asana e le istruzioni sulla loro esecuzione vi saranno senz’altro sembrate molto diverse da quelle che incontriamo in una classe di Yoga contemporanea. Anche se alcuni tra noi praticano Ashtanga, una tradizione considerata abbastanza solida, il sadhana del 18esimo secolo sicuramente mostracaratteristiche ben diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati. Ma cosa si prova a ricostruire praticamente una delle sequenze tratte da questi testi così antichi? Ci ha mai provato qualcuno? Ebbene la risposta è sì. Lo ha fatto Philippa Asher, insegnante di Ashtanga Yoga certificata da Sri K. Pattabhi Jois e Sharath Jois, una delle praticanti più avanzate nella pratica di questo metodo, che ha lavorato insieme a Jason Birch e Jaqueline Hargreaves alla ricostruzione di una sequenza di asana tratta da quello che molti pensano possa essere il famoso Yoga Kurunta, il testo segreto studiato da Krishnamacharya e da lui trasmesso al suo discepolo Pattabhi Jois. Il risultato è in un film, ma anche in questo articolo scritto da Philippa, che traduco per voi. Vi lascio in compagnia di Philippa e della sua incredibile esperienza.

L’immagine a lato raffigura tāṇḍavāsana (la posizione della danza di Śiva) ed è tratta dal film ‘Haṭhābhyāsapaddhati: A Precursor of Modern Yoga
Praticante: Philippa Asher Regia: Jacqueline Hargreaves © 2018

“ekena pādena sthātavyam utthātavyaṃ tāṇḍavāsanaṃ bhavati”
[Lo yogi] sarà in equilibrio su una gamba, e solleverà [l’altra. Questa] è Tāṇḍava, la posizione della danza [di Śiva’s].

Haṭhābhyāsapaddhati , descrizione dell’āsana numero 80
(traduzione di Jason Birch del 2013), pubblicata in ‘The Proliferation of Āsana-s in Late Mediaeval Yoga Texts’ (2018)

L’ Haṭhābhyāsapaddhati è uno dei dieci testi in Sanscrito studiati e tradotti nell’ambito dell’ Haṭha Yoga Project presso SOAS, University of London. Guidato dal Dr Jim Mallinson, con Dr Mark Singleton, Dr Jason Birch (e altri) tra il 2015 e il 2020, l’ Haṭha Yoga Project mappa la storia della pratica fisica dello yoga, utilizzando la filologia e l’etnografia.

E’ stato un grande onore essere coinvolta nella ricostruzione e nelle riprese cinematografiche degli āsanas tratti dall’ Haṭhābhyāsapaddhati, che (oltre a fornire istruzioni sugli altri aspetti della pratica dell’haṭha yoga) descrive 112 posture divise in sei gruppi, forse da intendersi come sequenze:

Supine (da 1 a 22)
esercizi di cultura fisica e yoga āsana in cui petto, fianchi, spalle o volto sono generalmente rivolti verso l’alto, e spesso con parte della schiena appoggiata al suolo

Prone (da 23 a 47)
movimenti e posizioni che richiamano la natura, in cui i fianchi, l’addome e lo sguardo sono generalmente rivolti verso il basso

Statiche (da 48 a 74)
Asana familiari e ricercate (molte delle quali piuttosto complicate) solitamente tenute sul posto

Erette (da 75 a 93)
movimenti danzati, oscuri gesti di cultura fisica e āsana complessi generalmente eseguiti in posizione eretta

Posizioni con le corde (da 94 a 103)
Metodi elaborati per arrampicarsi, salire e mantenere l’equilibrio su una corda

Posture che Trafiggono il Sole e la Luna (da 104 a 112)
yoga āsana avanzati e riconoscibili nella pratica moderna dello Yoga posturale.


L’esperienza della pratica delle posture dell’ Haṭhābhyāsapddhati
Praticare una selezione di āsana così atipica e muoversi in un modo completamente nuovo, è stato molto divertente oltre che una vera sfida: avevo solo otto settimane per studiare e sperimentare oltre cento posizioni, tratte dalla traslitterazione e dalla successiva traduzione di un manoscritto Sanscrito del 18esimo secolo. Considerate che la mia pratica quotidiana (che eseguo fin dai tardi anni ’90) è il metodo dell’Ashtanga vinyāsa. Mi ci sono voluti 15 anni per apprendere e perfezionare la Prima, la Seconda e le Serie Advanced A e B, che ho appreso direttamente dai miei maestri in India (parliamo di circa 200 āsana). Ho perfezionato ogni postura prima di apprendere la successiva – quindi il processo di apprendimento in questo caso era completamente diverso. Va anche detto che lo specifico nome in sanscrito degli āsana non rappresenta necessariamente le stesse posture in tutte le tradizioni di haṭha yoga. Nomenclatura e āsana possono variare considerevolmente.

Ovviamente, in assenza di una pratica di āsana quotidiana e stabile, e anni di esperienza con tali posizioni a livello profondo, sarebbe complicato esplorare gli āsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati, figuriamoci eseguirle. Alcune sono molto complesse, altre sono semplicemente movimenti che non ho mai avuto bisogno di eseguire precedentemente, e alcune sono influenzate dalla cultura fisica, dalla ginnastica, dalle arti marziali e dalla danza. Avere una comprensione più sofisticata degli āsana, di come eseguirli ed esprimerli in sequenze logiche serve a rendere più accurato e credibile il lavoro intellettuale di ricostruzione da una pagina.

Sperimentare la varietà di posizioni descritte nel testo e osservare somiglianze e differenze tra ciò che consideriamo essere oggi un āsana, è un lavoro affascinante. Alcune delle posture dell’Haṭhābhyāsapaddhati si concentrano sulla forza, altre sulla flessibilità o sull’equilibrio, e infine se ne incontrano altre, piuttosto oscure, come la posizione del chiurlo (103) che io ho interpretato in questo modo: in squat, tenere un peso di pietra con i denti, passare le braccia intorno ai polpacci e stringere la parte esterna delle tibie con gli avambracci, sistemare una corda in ogni pugno e quindi arrampicarsi su queste corde. La posizione della stella polare (89), nella sequenza delle posture erette, potrebbe ben inserirsi in una performance parigina di can-can del 1830. E’ stato incoraggiante scoprire che molte delle posizioni descritte nel testo si sono evolute nelle posture che fanno parte delle sequenze dell’Ashtanga odierno, sia della Prima serie, che della Seconda, e infine delle serie Advanced A, B e C (e probabilmente di altre scuole di yoga posturale).

Ho studiato antropologia della danza, storia e arti dello spettacolo all’Università, e ho trovato intrigante l’elemento eclettico delle sequenze. Poiché alcune descrizioni suggeriscono movimenti che non sembrano affatto āsana, si pone la domanda: quando un movimento diventa un āsana? Per me, questo avviene quando c’è sincronia perfetta tra respiro, movimento e sguardo, quando l’allineamento è agevole (e consente al prāṇā di fluire liberamente), e la mente è quieta. Con questa idea in mente, e avendo incontrato molti adolescenti agili in India che avrebbero potuto dimostrare con facilità le forme descritte nell’Haṭhābhyāsapaddhati , mi sono chiesta se eseguire una postura quando la concentrazione, il respiro, la tecnica e lo stato mentale sono meno stabili possa ancora essere considerato haṭhā yoga, piuttosto che un esercizio.

Approccio all’apprendimento delle posture dell’Haṭhābhyāsapddhati
Ho trascorso molto tempo a studiare le traduzioni scritte delle descrizioni degli āsana, quindi ho pensato a come potessero essere trasferite al corpo fisico. Ho cercato di non farmi influenzare dalle illustrazioni del Śrītattvanidhi, poiché in questi disegni ci sono molte licenze artistiche (che hanno forse operato delle mutazioni per aderire a riquadri con parti del corpo assai sproporzionate). Alcune raffigurazioni sfidano le leggi di gravità e dislocano le articolazioni, e nessuna delle illustrazioni mostra dove si trovi il pavimento. Non sono certa che siano di grande aiuto, ma dal punto di vista artistico sono meravigliosamente avvincenti.

Mi sono messa all’opera con ciascun āsana per ogni sezione (uno alla volta) e quindi li ho eseguiti in forma di sequenza dinamica. Dopo aver lavorato su tutte le sezioni, le ho praticate dall’inizio alla fine (come descritto nel testo): supine, prone, statiche, erette (non dispongo di una fune), e quelle che trafiggono il sole e la luna.

Eseguire tutte le sequenze consecutivamente è stato molto impegnativo (principalmente perché stavo lavorando in modo nuovo, e avevo solo otto settimane prima delle riprese). Nel sistema Ashtanga, si perfeziona ogni āsana prima di apprendere il successivo, e solo quando questo è in sincronia con il tristhāna, il vinyāsa e un allineamento fisico sicuro. In questo modo si arriva ad una pratica che diventa una meditazione in movimento. Ci vogliono decenni per arrivare a questa esperienza. Per questa ragione ho ritenuto fondamentale apprendere, memorizzare e praticare tutte le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati molte volte, in ordine, per sentire la progressione e il fluire di ogni sezione (e anche per sperimentare le contro-posizioni e capire come le posizioni lavorano dinamicamente ed energeticamente sul corpo, sulla mente e sul respiro). Sfortunatamente senza avere una fune appesa al soffito a portata di mano, non ho potuto sperimentare la sequenza con la fune, e ho riprodotto le posture al suolo. Sospetto che queste derivino dai movimenti di uno sport Indiano, il Mallakhamba, e possano essere stati utili per arrampicarsi sugli alberi (o scalare le mura durante la colonizzazione Britannica).

L’intero processo è stato per me come creare una coreografia da un foglio musicale Benesh (un pentagramma con barre, su cui si annota ogni movimento) … ma senza il coreografo, quindi con molto spazio per l’interpretazione personale. Penso che se le descrizioni degli āsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati a sei diversi praticanti esperti, vedremmo sei diverse espressioni di ogni posizione.

Prendiamo ad esempio Matsyendrapīṭhaṁ (105); la traduzione dal Sascrito è curiosa, poiché dice che il tallone sinistro è all’ombelico, mentre il piede destro è sulla coscia sinistra. Ma il piede destro dovrebbe anche essere sotto il ginocchio sinistro (!), e si dovrebbe afferrare il ginocchio destro con la mano sinistra e tenere le dita del piede sinistro:

“Con il tallone sinistro all’ombelico [e] l’altro piede sulla coscia [opposta], si afferri l’esterno del ginocchio destro con la mano sinistra e si tengano le dita del [piede destro, che si trovano] sotto il ginocchio sinistro. [Lo Yogi] deve restare in [questa posizione. Questa] è la posizione di Matsyendra.”

Trovo più sensato: “Con il tallone sinistro all’ombelico [e] l’altro piede all’esterno della coscia [opposta], si afferri la parte esterna del ginocchio destro e con la mano sinistra si tengano le dita del [piede destro, che si trovano] sotto il ginocchio sinistro. [Lo Yogi] deve restare in [questa posizione. Questa] è la posizione di Matsyendra.”

Ho eseguito pūrṇa matsyendrāsana come nella Serie Advanced A dell’Ashtanga, con il piede sinistro all’ombelico, il piede destro a terra all’esterno della gamba sinistra, la mia mano sinistra che tiene il piede destro, e la mano destra sulla coscia sinistra. Jason l’ha ottimizzata, così la mia mano destra era a terra dietro di me (come nella illustrazione del Śrītattvanidhi ).

Un altro esempio è tānāsana (112), che io ho interpretato come samakonāsana (la spaccata laterale nella Serie Advanced B dell’Ashtanga), ma Jason ha ritenuto che fosse semplicemente un allungamento delle gambe (come quando ci si sveglia) dalla posizione precedente (śavāsana). L’interpretazione di Jason ha senso se la postura segue direttamente śavāsana, ma la frase ‘dopo aver aperto entrambe le gambe’ a me fa pensare ad altro. In ogni caso, se questa fosse la versione corretta, perché dovrebbe far seguito a śavāsana? Non potrebbe essere che ‘la posa delle gambe divaricate’ venga prima di śukyāsanaṁ (110) ‘posa dell’ostrica’? Da praticante che esegue con continuità la ‘posa dell’ostrica’, o kandapīḍāsana come è nota nella Serie Advanced C dell’Ashtanga, posso condividere che le anche devono essere incredibilmente aperte (cosa che si conquista quando si padroneggiano le spaccate laterali). Nel sistema di āsana dell’Ashtanga, samakonāsana viene praticata due āsanas prima di kandapīḍāsana.

Solo una delle tante domande che sono sorte da questa ricostruzione…

Sfide e differenze con la mia pratica quotidiana di āsana
Dal punto di vista pratico, sono una donna occidentale che ha superato i 40 anni, e che cerca di trovare un senso alla traslitterazione e traduzione di un testo, probabilmente realizzato da un uomo indiano circa duecento anni fa, in un contesto e in una cultura molto diversi dai miei. Ho inoltre avuto modo di notare, nei vent’anni di vita che ho trascorso nel sud dell’India apprendendo lo yoga dai guru del posto, che il loro modo di esprimersi nel loro linguaggio è molto diverso dal mio. Quindi nell’estrarre un āsana da un testo indiano, mi sento di dire che prendere ogni parola in senso letterale e tradurla esattamente per ciò che è, potrebbe non rappresentare l’intenzione che l’autore/insegnante/praticante cerca di trasmettere. Forse ci sono sfide particolari nell’utilizzare il vocabolario sanscrito per descrivere il movimento? Un ulteriore esempio è la descrizione/traduzione di krauñcāsana (103): ‘dopo aver passato i pugni attraverso le cosce e le ginocchia’ – è chiaramente impossibile seguire alla lettera queste istruzioni.

Il testo offre informazioni molto limitate sulle posture, che sollevano (almeno per me) le seguenti domande:
* Il testo è veramente stato scritto dal precursore delle sequenze, o da un esperto praticante āsana?
* La numerazione all’interno delle sequenze/l’ordine degli āsanas sono affidabili?
* Le descrizioni su come eseguire ogni singolo āsana sono accurate?
* Una cosa è essere in grado di dimostrare perfettamente un āsana, ma essere in grado di riassumerla e spiegare come eseguirla, usando i vocaboli adatti, è tutt’altro talento.
* Perché non ci sono indicazioni sul dṛṣṭi?
* Per quanto tempo vanno tenute le posture?
* Alcuni degli āsanas vanno eseguiti da entrambi i lati?
* E’ necessario padroneggiare una postura prima di passare a quella successiva?
* Modalità della pratica: una sessione separata ogni giorno per sei giorni, l’intera opera quotidianamente, o le sezioni sono destinate a praticanti diversi? Sei si, per chi e perché?
* Le donne eseguivano queste posture? Avevano accesso all’insegnante?
* Il praticante doveva continuare con queste sequenze nelle diverse fasi della sua vita, o erano usate in modo personalizzato, a seconda della sua età?
* Come può una postura ‘trafiggere il sole e la luna’? A cosa ci si riferisce?
* Si trattava di una pratica solitaria?

La mia esperienza nella pratica della sequenza di āsana dell’Haṭhābhyāsapddhati
La pratica delle sequenze nella loro interezza è divertente, e collettivamente invitano a livelli equilibrati di forza, flessibilità, equilibrio, stamina e concentrazione. Tuttavia non sono così raffinate ed eleganti come quelle del sistema di āsana dell’Ashtanga che pratico quotidianamente (e che Pattabhi Jois impiegò 50 anni a perfezionare). Avrei bisogno di praticare le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati per lungo tempo per capire se hanno lo stesso effetto mentale, fisico ed energetico dell’Ashtanga; per vedere se anche in questo caso è possibile raggiungere il risultato di una meditazione in movimento. Inoltre, senza poter andare indietro nel tempo per sperimentare di prima mano come venivano insegnate e apprese le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati, non potremo davvero sapere come venivano praticate.

Naturalmente è una esperienza meravigliosa avere accesso ad un testo storico che descrive una vastità di āsana in una sequenza potenzialmente dinamica, che include molte delle posture che appaiono nel libro di Krishnamacharya Yoga Makaranda (Il Nettare dello Yoga, Astrolabio, NdT) così come molte altre che ora fanno parte del sistema dell’Ashtanga sviluppato da Pattabhi Jois (e presenti in altre scuole di haṭha yoga contemporaneo).

E’ verosimile pensare che se Krishnamacharya ha avuto la possibilità di consultare l’Haṭhābhyāsapaddhati, il Śrītattvanidhi ed altre opere sul movimento, ne sia stato ispirato. Queste opere così affascinanti avrebbero, in questo caso, dato forma a molte delle pratiche di yoga posturale contemporaneo.

© 2020 Philippa Asher

Philippa Asher è una delle poche donne al mondo (e l’unica in UK) Certificate all’insegnamento dell’Ashtanga Yoga secondo il metodo trasmesso da Sri K. Pattabhi Jois e Sharath Jois. E’ una delle praticanti più avanzate al mondo, avendo completato la Prima, la Seconda e le Serie Advanced A e B di questo metodo. Trasmette questo metodo insegnando in India, dove vive da vent’anni, e all’estero nei suoi apprezzatissimi workshops.

Philippa Asher in Ganda Bherundasana

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Cercando miracoli

Da –The Luminescent

Di Jason Birch e Jacqueline Hargreaves

Paścimatānāsana secondo lo Jogapradīpyakā (18esimo secolo)

Oggi, chiunque frequenti una lezione di Yoga in qualsiasi città al mondo, si troverà davanti ad una posizione chiamata Paścimottānāsana (o Paścimatānāsana nell’ Haṭhapradīpikā): una flessione in avanti da seduti, in cui entrambe le gambe sono allungate a terra, e la testa scende verso le ginocchia. Le tipiche istruzioni dell’insegnante saranno rivolte ad evitare disagio nella zona lombare o negli ischiocrurali, e comprenderanno il suggerimento di tenere la posizione per 5 o 10 respiri, enfatizzando la durata e la qualità sottile di ciascuna espirazione. E già questo, per molti sarà una sfida!
Ora immaginate di trovarvi nel 18esimo secolo, in India. I muri del vostro eremo yogico odorano di sterco di vacca. Il guru vi dice che l’obiettivo della vostra pratica è di mirare ad eseguire questa posizione per 84 giorni consecutivi, per 24 ore al giorno, eseguendo contemporaneamente degli esercizi di respirazione. Se vi sentite stanchi, avete l’opzione di riposarvi e sorseggiare un brodo speziato per alimentare la vostra resistenza.
Questa è la modalità suggerita per la pratica di Paścimatānāsana secondo un testo chiamato Jogapradīpyakā (18esimo secolo).

NdT: Trovo affascinante notare come la pratica contemporanea degli asana abbia assunto nel tempo connotazioni completamente diverse. La maggior parte dei praticanti approccia gli asana, certo, pensando anche ai benefici psicofisici, ma pochi hanno davvero la consapevolezza di come questi venissero utilizzati o per pratiche puramente ascetiche, o come vere e proprie terapie. Non solo: anticamente, la pratica di un solo asana poteva costituire tutto il sadhana di un praticante, per giorni se non per mesi. La lettura di questo testo sicuramente ci porta in epoche lontane, ma, almeno personalmente, solleva qualche curiosità. E sicuramente la ricetta del brodo del 18esimo secolo entrerà a far parte della mia cucina.

Foto di J. Hargreaves, affresco del 18esimo secolo a Mahamandir, Jodhpur

L’importanza storica della descrizione di Paścimatānāsana in questo testo è che dimostra come la pratica degli āsana sia diventata progressivamente più sofisticata nei secoli successivi all’ Haṭhapradīpikā (15esimo secolo). Paścimatānāsana costituisce la base di una pratica completa (sādhana) per un periodo di tempo stabilito. Mantenere una posizione per intervalli così lunghi evoca le pratiche ascetiche (tapas) dell’India antica.
Lo Jogapradīpyakā contiene la descrizione di 84 āsanas, molte delle quali sono fisicamente molto impegnative. Vi si trovano inoltre tecniche di meditazione e di controllo del respiro (prāṇāyāma) da abbinare ad alcuni āsana. Molte delle descrizioni specificano la direzione dello sguardo, e indicano i benefici terapeutici.
Di seguito, trovate la traduzione completa di Paścimatānāsana come appare nello Jogapradīpyakā (70 – 78) .
E qui ecco un breve riassunto della pratica di Paścimatānāsana:

Primo livello

1. Sedete [rivolti a Nord] con le gambe distese e lo sguardo tra le sopracciglia (trikuṭī).

2. Inspirate contando fino a 12 (si assume con entrambe le narici).

3. Trattenete il respiro contando fino a 12. (kumbhaka).

4. Espirate attraverso la narice destra (piṅgalā nārī) contando fino a 12. Tenete il piede destro con la mano destra, e utilizzate la sinistra per eseguire il prāṇāyāma.

Ripetete quotidianamente per 12 giorni.

Secondo Livello

Una volta conquistato il Primo livello, eseguite Paścimatānāsana con prāṇāyāma in base alle vostre capacità, a intervalli di 3 ore, una volta o due al giorno, per 72 giorni.

Terzo Livello

Dopo aver preparato e bevuto lentamente un semplice brodo realizzato con riso, dal e zenzero, si ripeta la pratica di Paścimatānāsana sopra esposta, inisieme al prāṇāyāma, riposando e sorseggiando il brodo quando se ne sente la necessità. Questo ciclo va praticato continuamente per 84 giorni. Viene fornita anche la ricetta per il brodo:

  • Mettere a bagno 120 grammi di riso Sāṭhī 1
  • Separatamente, mettere a bagno circa 72 grammi di mung dal
  • Macinare separatamente gli ingredienti, e realizzare il brodo mettendoli insieme in acqua senza sale
  • Aggiungete mescolando circa 22.5 grammi di zenzero verde

In totale, il Paścimatānāsana sādhana richiede 168 giorni per essere completato. E’ un’impresa ambiziosa. Il premio per un sādhana così intenso, però, non delude. Lo Jogapradīpyakā afferma che conferisce molti allettanti benefici:

Distrugge tutte le malattie, inclusa la tubercolosi. Rende capaci di udire e vedere a distanza di migliaia di miglia. Quando si riesce a completarla, il praticante

è in grado di vedere miracoli.

Vale la pena sottolineare che l’immagine qui riprodotta, un affresco del 18esimo-19esimo secolo esposto al Mahāmandir a Jodhpur, presenta una rappresentazione vicina ma non esatta della pratica di Paścimatānāsana descritta nello Jogapradīpyakā. Quest’opera infatti specifica che il piede destro va afferrato con la mano destra, e la mano sinistra viene utilizzata per la manipolazione delle narici.
NOTE:
1 Il riso Sāṭhī è una varietà particolare che viene raccolta entro 60 giorni (sāṭhī significa letteralmente ’60’). Viene solitamente chiamato ‘riso rosso’, ma in India ha ancora il nome di Sāṭhī. Negli anni più recenti, produzione del Sāṭhī è stata scoraggiata perché richiede grandi quantità di acqua nelle fasi di coltivazione.

Jogapradīpyakā 70-78

Traduzione inglese di JASON BIRCH **, traduzione italiana di Francesca d’Errico

“Ora, [le istruzioni per] Paścimatānāsana: 

Ci si sieda rivolti a Nord e si estendano a terra entrambe le gambe. Quindi, si pratichi prāṇāyāma e si riempia il canale Suṣumnā di prāṇa. (70)

Si respiri per un conto di 12, si trattanga il kumbhaka ancora per un conto di 12, e si espiri contando fino a 12 attraverso la narice destra (piṅgalā nārī). Si rivolga lo sguardo meditativo al trikuṭī (ovvero., lo spazio tra le sopracciglia). (71)

Si pratichi [prāṇāyāma] con la mano sinistra, e si tenga il piede destro con la mano destra. Si pratichi in questo modo per 12 giorni. Una volta padroneggiato [questo livello, quindi] si passi alla seguente [pratica]. (72) 

Si porti il controllo al respiro secondo la propria capacità, e si pratichi per tre ore, una o due volte [al giorno], per 72 giorni. Molto gradualmente, si supereranno tutti gli ostacoli. (73)

Quindi, si assuma [il seguente] pasto. Chi lo farà, perfezionerà questo āsana. Si metta a bagno il riso Sāṭhī, prendendo non più di 72 taṅkas (ovvero circa 120 grammi). (74)

Quindi, ci si procuri e si metta a bagno 16 taṅkas (ovvero 72 grammi) di mung dal. Lo si tenga separato [dal riso Sāṭhī]. Li si macini separatamente e si cucini un brodo mettendoli [insiem] in acqua. (75)

Lo si prepari senza sale, e si aggiunga zenzero verde. Si mescolino 5 taṅkas (ovvero 22.5 grammi) [di zenzero] nel brodo. Lo si beva molto lentamente e si pratichi immediatamente questo āsana. (76)

Inizialmente, si dovrebbe praticarlo †una volta†, riposare e praticare nuovamente. In questo modo, si apprenderà [come praticarlo] costantemente, e lo si farà per 24 ore, per 84 giorni. Distruggerà qualsiasi malattia inclusa la tubercolosi. Si potrà udire e vedere a distanza di migliaia di miglia. [Quando] ci si riuscirà, si vedranno miracoli. Questo è Pachimatāṇa āsana. E’ [anche] chiamato  Ārambha āsana. (77-78)”

 atha pachimatāṇa āsana |
uttara sanamukha baiṭhaka dhārai | dou caraṇa lāṃbā jū pasārai ||
bahorau prāṇāyāma jū karai | suṣamana māraga vāī bharai ||70||
dvādasa mātrā pūraka karai | dvādasa hī puni kuṃbhaka dharai ||
recai dvādasa piṃgalā nārī | rākhai trikuṭī driṣṭi vicārī ||71||
vāmahasta soṃ āraṃbha karai | dachana kara dachana paga dharai ||
dvādasa dina aaise vidha karaī | bahura sādhi āgai anusaraī ||72||
jathā sakti vāya vasi ānai | prahara eka doya āraṃbha ṭhānai ||
divasa bahattara aise karai | sanai sanai vighna saba ṭarai ||73||
bahuri ogarau aiso gahai | jā kari yo āsana sidha lahai ||
sāṭhī cāvala ko puni bhevai | ṭaṅkaṃ satāisa adhika na levai ||74||
solaha ṭaṃka mūṅga puni ānai | bhevai tāhi bhinna hī ṭhānai ||
bhinnabhinna kara bāṇṭe doū | karai palevau jala meṃ soū ||75||
karai alūṇau adraka lyāvai | ṭaṃka paṃca tā madhihi milāvai ||
sanai sanai so pībai aaise | turatahī yo āsana kara baise ||76||
†bāra yeka pathi† pahale sādhai | kari visarāma bahuri ārādhe ||
aisī bhāṃti dinarāta ju jānai | āṭha pahara ko āraṃbha ṭhānai ||77||
dina caurāsī āraṃbha karaī | rājaroga ādika saba haraī ||
sahasra kosa kī sunairu dekheṃ | lahai sidhi aciraja puni pekhe ||78||
iti pachimatāṇa āsana | yāhī ko āraṃbha āsana kahiye ||

** Si ringrazia James Mallinson per il suo commento a questa traduzione.

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Il significato del Vinyasa

Dal Medioevo alla Modernità

Da: The Luminescent – di Jason Birch (Post-doctoral Research Fellow, SOAS University of London) e Jacqueline Hargreaves (Independent Researcher, The Luminescent)

Torno a parlare del significato del Vinyasa, questa volta in modo storicamente documentato, per cercare di fare maggiore chiarezza tra quelle che sono le opinioni personali (seppure dettate da ragionamenti logici e da interpretazioni spirituali) e gli elementi storici che l’Hatha Yoga Project ci ha fornito negli ultimi 5 anni grazie agli approfonditi studi degli accademici di Oxford che hanno preso parte a questo affascinante programma. Quella che segue è la traduzione di un interessante articolo del blog The Luminescent, scritto a quattro mani da Jason Birch e Jacqueline Hargreaves, che traduco per voi. Ciò che trovo particolarmente interessante è l’interpretazione che Krishnamacharya ha dato a questo termine, che ha derivazioni tantriche più che yogiche. Un ulteriore affascinante aspetto non solo del Sanscrito e delle sue ambiguità interpretative, ma anche e soprattutto della creatività di questo incredibile maestro, a cui le pratiche contemporanee si riallacciano continuamente. La traduzione del testo di The Luminescent ha inizio dal prossimo paragrafo.

“Il termine vinyāsa è utilizzato in contesti molto diversi nella letteratura medievale. Nel descrivere un tempio (mandira) in cui uno yogin dovrebbe praticare, ad esempio, il Nandikeśvarapurāṇa specifica che dovrebbe avere un elegante decoro (ramyavinyāsa). In questo contesto, vinyāsa significa decoro o disposizione.

La parola vinyāsa appare raramente nei testi Yogici medievali. Compare tuttavia più frequentemente nelle sezioni rituali dei Tantra medievali. Ma ciò nonostante, non implica mai il movimento che congiunge il respiro alle posture (āsana) come avviene invece nello yoga contemporaneo.

Un eccellente opera di riferimento sul significato di parole particolari del Tantra è il Tāntrikābhidhānakośa. Questo corposo dizionario (in 5 volumi) è stato scritto da un team internazionale di accademici, considerati i massimi esperti in questo campo. Nel 5° volume, che è di prossima uscita, il termine vinyāsa viene presentato come sinonimo di nyāsa.

Nyāsa è definito nel 3° volume del Tāntrikābhidhānakośa (2013: 342) come:

L’imposizione o il posizionamento rituale di mantra sul corpo o sulla rappresentazione materiale della divinità (a volte su un oggetto o su una superficie) per infondere il potere del mantra. E’ una pratica diffusa, tantrica e più genericamente Induista o Buddista.

Nelle discussioni sulla pratica di āsana a e altre tecniche nei testi di Yoga medievale il termine vinyāsa non viene usato. Tuttavia, quando le forme verbali relative (come vinyasya) entrano in uso, il significato è “sistemare o posizionare”.


Gosain Saargir, a Shaivite Yogi, seated on a Leopard Skin – Monkot, c 1700 – 21.2 x 17.3 cm Brush drawing with opaque pigments on paper

Nell’ Haṭhapradīpikā, ad esempio, vinyasya appare in una delle descrizioni di Siddhāsana: Avendo posizionato (vinyasya) la caviglia sinistra sul pene e l’altra caviglia su quella, questo è Siddhāsana.

“meḍhrād upari vinyasya savyaṃ gulphaṃ tathopari | gulphāntaraṃ ca nikṣipya siddhāsanam idaṃ bhavet” ||1.38||
Un esempio simile si trova nel Dattātreyayogaśāstra (133), che descrive il sigillo del mento Mahāmudrā come “fissare il mento al petto” ([…] cibukaṃ hṛdi vinyasya […]).

Questi significati medievali non si collegano all’utilizzo del termine vinyāsa nello yoga contemporaneo, in cui si intende “movimento” piuttosto che “fissare”. A. G. Mohan (2010: 29) spiega in modo succinto il significato di vinyāsa nella biografia del suo maestro Kṛṣṇamācārya:

“Una caratteristica unica del sistema di asana di Krishnamacharya era il vinyasa. Molti praticanti di yoga oggi conoscono senz’altro questa parola , che è largamente usata per descrivere lo ‘stile’ di una lezione, come ‘hatha vinyasa’ o ‘vinyasa flow’. Vinyasa è un elemento essenziale, e probabilmente unico, negli insegnamenti di Krishnamacharya. Per quanto ne so, egli fu il primo maestro nel secolo scorso ad introdurre questo concetto. Un vinyasa, essenzialmente, consiste nel muoversi da un asana, o postura del corpo, ad un altro, associando il respiro al movimento”.

Sebbene i commenti di Mohan non escludano un precedente medievale al Vinyasa di Kṛṣṇamācārya, dobbiamo ancora trovarlo in un testo medievale tantrico o yogico.

La ricerca del Dr James Mallinson e del Dr Mark Singleton sostiene ed elabora ulteriormente questi ritrovamenti. I due studiosi hanno investigato anche termini collegati, come vinyāsakrama, viniyoga e pratikriyāsana. Quello che segue è un estratto da una nota del loro libro Roots of Yoga (2017):

“Il termine sanscrito vinyāsa utilizzato (con considerevoli varianti di significato) da Krishnamacharya e dai suoi studenti, per denotare uno stato all’interno di queste sequenze collegate, non appare con questo significato nei testi premoderni sullo Yoga. Le forme verbali relative (vinyāsa è una composizione nominale dalla radice verbale √as a cui si aggiungono i prefissi vi- e ni-), come l’assolutivo vinyasya, si trovano in una manciata di descrizioni di posture con il significato di “avendo posizionato [x su y]”, come Vasiṣṭhasaṃhitā 1.72 (3.6 “Avendo posizionato un piede su una coscia, e l’altro sotto l’altra coscia…”). Vinyāsa e le parole relative sono più comuni in testi tantrici, dove usualmente si riferiscono al posizionamento di mantra sul corpo. Il composto vinyāsakrama, che viene usato da Krishamacharya e dai suoi allievi per caratterizzare una particolare modalità per collegare posture, non si trova nei testi di yoga premoderni. Lo abbiamo trovato in 5 casi in opere tantriche. In quattro, si riferisce al posizionamento sequenziale di mantra; nel quinto, il commento di Kṣemarāja al verso 9 del Sāmbapañcāśikā, è utilizzato per riferirsi alla sequenza di passi attraverso i tre mondi intrapresi da Viṣṇu incarnatosi in Vāmana. L’uso moderno di vinyāsa è perciò una riassegnazione del significato di una parola comune in Sanscrito. L’uso nella parlata dello yoga contemporaneo del termine viniyoga (che in Sanscrito significa “appuntamento”, “impiego” o “applicazione”) per indicare uno yoga disegnato sulle esigenze individuali è simile a una riassegnazione, mentre la parola pratikriyāsana, utilizzata nella tradizione Krishnamacharya per denotare una “contro-posizione”, è un conio moderno che non ha precedenti in alcun testo Sanscrito premoderno”.

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Referenze

Galloway, Francesca. 2016. Court Paintings from Persia and India 1500–1900. London: Francesca Galloway.

Goodall, Dominic, and Marion Rastelli. 2013. Tāntrikābhidhānakośa. -PH : dictionnaire des termes techniques de la littérature hindoue tantrique (“A dictionary of technical terms from Hindu Tantric literature”), Wörterbuch zur Terminologie hinduistischer Tantren III III. Wien: Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften.

Mohan, A. G., and Ganesh Mohan. 2010. Krishnamacharya: his life and teachings. Boston: Shambhala.

Mallinson, James, and Mark Singleton. 2017. Roots of yoga. London: Penguin Books.

Dhanurasana: le due forme dell’Arco

da –The Luminescent di JACQUELINE HARGREAVES e JASON BIRCH

Traduzione di Francesca d’Errico

In collaborazione con J. Hargreaves e Jason Birch

Siamo proprio certi di eseguire correttamente gli asana? E da dove nascono gli asana dello Yoga contemporaneo? Sono felice di iniziare oggi una bellissima collaborazione con gli studiosi Jason Birch e Jacqueline Hargreaves, autori di uno dei blog più autorevoli a livello mondiale sullo Yoga. Jason mi ha autorizzata a tradurre in Italiano i suoi articoli e i post di The Luminescent, fonte di scoperte continue su filosofia, pratica e storia dello Yoga. Mi auguro che queste traduzioni contribuiscano alla crescita dei tanti praticanti italiani, che al di là degli asana cercano le radici di questa meravigliosa disciplina. E cominciamo quindi con una postura che, forse, abbiamo frainteso per secoli… o che forse possiamo praticare in due modi molto diversi, con due intenzioni diverse: come oggetto (l’arco) o come soggetto (l’arciere). Vediamo come.

Fig. 1: Appu Sahib Patumkar in jogh [āsana]
India (19esimo secolo). Dipinto su carta
Wellcome Library no. 574888i

Questo colorato affresco indiano del 19esimo secolo si trova presso la Collezione della Wellcome Library, ed è attualmente esposto nella mostra Ayurvedic Man: Encounters with Indian medicine. Raffigura un uomo intento in una postura yoga (āsana) all’aperto, su una pelle di antilope. Il catalogo riporta un commento piuttosto criptico, che si trova probabilmente sul retro del dipinto:

Appu [?] Sahib Patumkar [?] pratica jogh, in attasa dell’ispirazione che lo predisporrà a diventare un devoto.

La forma della postura si accorda alla descrizione di un asana senza nome (n. 51) nella sezione figurata di un testo intitolato Haṭhābhyāsapaddhati. L’asana è descritto come segue:

Haṭhābhyāsapaddhati51

 hastadvayena pādadvayāgre gṛhītvā ekaikaṃ pādāṅguṣṭhaṃ karṇayoḥ spṛśet || 51 || 

Afferrando le dita dei piedi con entrambe le mani, lo yogin dovrebbe toccare le orecchie con gli alluci, uno alla volta. Sebbene lo Haṭhābhyāsapaddhati non fornisca un nome per questo asana, gli artisti del Mysore Palace, che illustrarono magnificamente il capitolo dedicato agli asana nel Śrītattvanidhi (19esimo secolo), presero a prestito la descrizione dello Haṭhābhyāsapaddhati (fig. 2) e lo chiamarono “la posizione dell’arco” (dhanurāsana).

Fig. 2: Dhanurāsana nel Śrītattvanidhi
Sjoman 1999: 84, pl. 18

Un altro esempio di dhanurāsana nello stesso periodo è visibile nel Gheraṇḍasaṃhitā (18esimo secolo). La postura è descritta come segue:

Gheraṇḍasaṃhitā 2.18
prasārya pādau bhuvi daṇḍarūpau karauca pṛṣṭhaṃ dhṛtapādayugmam |kṛtvā dhanustulyavivartitāṅgaṃ nigadyate vai dhanurāsanaṃ tat || 

Distendendo le gambe e le braccia al suolo come bastoni, si trattengono entrambi i piedi da dietro, e si muove il corpo come un arco. Questa posizione è chiamata posizione dell’arco.

Osservando entrambe le gambe inizialmente diritte e distese al suolo, la descrizione potrebbe riferirsi ad una posizione dalla forma simile all’illustrazione del Śrītattvanidhi e al dipinto di Wellcome. Una bellissima illustrazione di dhanurāsana in un manoscritto del Gheraṇḍasaṃhitā (fig. 3) pubblicato da Fakire und Fakirtum im Alten und Modernen Indian (Schmidt 1908: 34, pl. 12) supporta questa interpretazione.

Fig. 3: Dhanurāsana nel Gheraṇḍasaṃhitā
Schmidt 1908: 34, pl. 12

Ci si chiede tuttavia se la parola pṛṣṭha (‘da dietro’) nella descrizione del Gheraṇḍasaṃhitā indichi che entrambi i piedi siano afferrati dietro il corpo. Se questo fosse il caso, bisognerebbe assumere che lo yogin inizialmente estendesse entrambe le braccia e le gambe in posizione prona, tenendo i piedi da dietro (pṛṣṭha) e muovesse il corpo come un arco tirando i piedi verso le orecchie. Questa interpretazione fu adottata da Yogi Ghamande nel suo libro intitolato Yogasopāna-Pūrvacatuṣka (pubblicato nel 1905). Egli cita il verso relativo a dhanurāsana nel Gheraṇḍasaṃhitā e fornisce la seguente illustrazione (fig. 4).

Fig. 4: Dhanurāsana nel Yogasopāna-Purvacatuka Ghamande
1905: 64 (Āsana 34)

Questa forma di dhanurāsana, che è un inarcamento, è praticata in quasi tutte le tradizioni Yoga contemporanee. (fig. 5). E’ stata resa popolare da un libro largamente diffuso, Yogāsanas di Swāmī Śivānanda, pubblicato per la prima volta nel 1934.

Fig. 5: Dhanurāsana nella tradizione Śivānanda Yoga
Dal sito International Sivananda Yoga Vedanta Centres.

E’ interessante notare che i primi cenni a dhanurāsana sono nell’Haṭhapradīpikā. del 15esimo secolo:

Haṭhapradīpikā 1.27
pādāṅguṣṭhau tu pāṇibhyāṃ gṛhītvā śravaṇāvadhi |dhanurākarṣaṇaṃ kuryād dhanurāsanam ucyate || 

Tenendo gli alluci di entrambi i piedi con entrambe le mani, il praticante li tira verso le orecchie come un arco. Questa è la posizione dell’arco.

Il Sanscrito è sufficientemente ambiguo da contenere entrambe le versioni di questa postura. Nel suo commento all’ Haṭhapradīpikā intitolato Jyotsnā, Brahmānanda (a circa metà del 19esimo secolo) dava la seguente interpretazione:

 gṛhītāṅguṣṭham ekaṃ pāṇiṃ prasāritaṃ kṛtvā gṛhītāṅguṣṭham itaraṃ pāṇiṃ karṇaparyantam ākuñcitaṃ kuryād ity arthaḥ ||

Il significato [di dhanurāsana è il seguente:] Estendendo la mano che trattiene l’alluce, il praticante tira fino all’orecchio l’altra mano, che trattiene l’altro alluce.

L’interpretazione di Brahmānanda sostiene la versione descritta nello Haṭhābhyāsapaddhati e illustrata sia nel Śrītattvanidhi che nel dipinto di Wellcome. Yogi Ghamande (1905: 30) include questa come un’altra versione di dhanurāsana e cita il verso sopra menzionato dell’Haṭhapradīpikā (fig. 6). L’illustrazione ritrae una ulteriore variante, in cui un alluce tocca l’orecchio opposto.

Sia il Gheraṇḍasaṃhitā che l’Haṭhapradīpikā sono state fonti importanti per il revival dello yoga posturale nell’India del ventesimo secolo. E’ perciò possibile che le ambiguità delle descrizioni in Sanscrito di dhanurāsana siano responsabili per la popolare interpretazione (corretta o meno) di questo āsana come un inarcamento, nello Yoga contemporaneo.

Fig. 6: Una ulteriore versione di Dhanurāsana nel Yogasopāna-Purvacatuṣka –Ghamande 1905: 30 (Āsana 8)

Ringraziamo Mark Singleton per le immagini tratte dal Yogasopāna-Pūrvacatuṣka.

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Referenze

Ghamande, Yogi. 1905. Yogasopāna-Pūrvacatuṣka. Bombay: Janardan Mahadev Gurjar, Niranayasagar Press.

Śivānanda, Swāmī. 1993. Yoga Asanas. Sivanandanagar, India: Devine Life Society.

Schmidt, Richard. 1908. Fakire und Fakirtum im alten und modernen Indian: Yoga-Lehre und Yoga-Praxis nach den indischen Originalquellen dargestellt. Berlin: Hermann Barsdorf.

Sjoman, Norman E. and Kṛṣṇarāja Vaḍeyara. 1999. The Yoga tradition of the Mysore Palace. New Delhi: Abhinav Publications.

Il gesto sacro del Vinyasa

Vinyāsa ( विन्यास in Sanscrito) è un termine sanscrito spesso utilizzato in relazione a certi tipi di yoga. Si riferisce alla transizione tra due differenti posizioni.[1]Vinyāsa ha molti significati: nyasa (stare) e vi (in modo particolare/speciale). Il termine Vinyāsa può essere anche utilizzato in riferimento ad uno specifico stile di yoga praticato come un solo respiro, legato a un solo movimento, (Wikipedia)

Mudra (devanagari: मुद्रा, IASTmudrā) è un gesto simbolico che in varie religioni viene usato per ottenere benefici sul piano fisico, energetico e/o spirituale. (Wikipedia)

Vinyasa e Mudra sono la stessa cosa?

Il Vinyasa è un gesto sacro? Qualche giorno fa, chiacchierando con Manuela e Stefania di Yogapodcast21100 mi è stata rivolta una interessante domanda. “Possiamo considerare il Vinyasa come una Mudra?”.

Prendiamo in considerazione la definizione di Mudra, ovvero “gesto sacro”, o simbolico. Come riporta in modo molto sintetico Wikipedia, le mudra sono gesti – in alcune tradizioni spesso associate agli asana – che si ritiene abbiano benefici particolari su corpo e mente. E il Vinyasa, tra tutti, non è forse un gesto dai benefici incredibili?

Siamo abituati a pensare che le mudra siano eseguite esclusivamente con le mani. In realtà, sappiamo che sia negli Hatha Yoga Pradipika che nei testi di Krishnamacharya, alcuni asana sono considerati vere e proprie mudra – solo che per eseguirle abbiamo bisogno di tutto il corpo. Un esempio classico è Yogamudrasana, considerato un vero e proprio “sigillo” di salute e longevità, nonché uno degli asana più efficaci per risvegliare la kundalini. Un’altra mudra molto famosa è Maha Mudra, che nell’esecuzione somiglia a Janu Sirsasana, ma eseguita con un controllo particolare sui bandha e sulla ritenzione del respiro.

Il Vinyasa, però, non è un asana o un gesto statico: è un movimento che avviene all’interno del respiro, dunque dinamico. Eppure, anche all’interno di questa dinamicità, nella radice stessa della parola (nyasa, “stare” e vi “in modo particolare”) troviamo una forte assonanza con il significato del termine mudra. Il Vinyasa è, soprattutto all’interno di alcune tradizioni, il collante tra una sequenza di posture: e al tempo stesso all’interno di ogni postura troviamo un susseguirsi di microscopici vinyasa, poiché ad ogni respiro, anche nella fase di stasi dell’asana, il nostro corpo continua a muoversi, seppure di pochi millimetri a volte, approfondendo la posizione.

Il Vinyasa, elemento fondamentale della pratica

Dunque il Vinyasa è, soprattutto nell’Ashtanga, non solo una transizione tra posture, ma un gesto di fondamentale importanza: fin dal primo respiro associato al movimento (il famoso “ekam inhale”), è un simbolo del risveglio della nostra consapevolezza. Il respiro non è più solo un avvenimento “automatico” del nostro corpo, ma diventa un atto conscio, che ha il compito di guidare il movimento e la sua durata. Sempre nell’Ashtanga, ma anche nel Vinyasa Krama, ogni singolo movimento è associato ad un respiro.

I Vinyasa non sono dunque soltanto “i passaggi” tra un asana e l’altro (anche se nell’accezione comune in occidente questo è il significato che viene associato al termine), ma ogni singolo movimento di ingresso, stasi ed uscita da un asana. In questo senso è più facile comprenderne la sacralità, o anche più prosaicamente il simbolismo: ekam (il primo vinyasa di surya namaskar, inspiro, braccia verso l’alto) rappresenta il risveglio, la rinascita, l’apertura. Dve, il secondo vinyasa, espiro, mi piego in avanti e verso terra, rappresenta il lasciar andare, il tornare a se stessi, verso l’interno, nelle profondità del se. E così via, per ogni singolo movimento della pratica.

Ecco perché spesso, quando mi si dice che l’Ashtanga Yoga è una pratica prettamente fisica, sorrido. Personalmente, ritengo che l’Ashtanga Yoga sia una delle pratiche più spirituali al mondo, perché vede nella sincronia tra movimento e respiro non un semplice atto fisico, ma una rappresentazione (anzi, un’azione) del corpo come custode dello spirito, come “porta” di accesso allo spirito. Proprio tramite il Vinyasa, che diventa, almeno per me, la mudra più significativa e, al tempo stesso, più accessibile.

Se limitiamo la nostra curiosità nei confronti dello Yoga ai suoi aspetti più materiali, rischiamo di perdere il grande messaggio di questa pratica, che passa certamente attraverso il corpo, ma solo per curarlo prima, e trascenderlo poi.

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Età e Ashtanga Yoga: crescere nella pratica

Età e Ashtanga Yoga: invecchiare, o crescere nella pratica? L’Ashtanga Yoga è ormai una pratica molto diffusa nel nostro emisfero, e sono davvero moltissimi i praticanti “senior” (tra cui annovero anche me stessa). Questa pratica dalla connotazione fisica così evidente, comporta rischi per chi è ormai over 50? Potrei rispondere con un sorriso e raccontarvi la mia esperienza (anche se ormai tanti la conoscono già, e sanno che per me il termine “invecchiare” va sostituito con “crescere”). Ma preferisco oggi offrirvi il punto di vista di David Keil, esperto insegnante di kinesiologia, collaboratore di John Scott per molti anni e a sua volta praticante di lungo corso. Traduco quindi volentieri il suo articolo per tutti voi.

“Qualche tempo fa sono stato interrogato su come praticare Ashtanga Yoga dopo i 50 anni. Ovviamente non esiste una sola risposta a un simile quesito, ma posso dire con certezza che, a qualsiasi età si inizi a praticare, se manteniamo con costanza la pratica per diversi anni, la nostra esperienza della pratica tende a modificarsi. Il modo in cui avvengono questi cambiamenti dipendono ovviamente dalla storia personale di ognuno di noi, ma il cambiamento è inevitabile. Parliamo quindi degli stadi comuni della pratica, quelli che ogni studente attraversa negli anni, e di come la pratica possa mutare con l’età.

I cambiamenti associati all’età

“I nostri corpi cambiano con l’età, e questa è una certezza. Come e quando, però, sono variabili molto individuali. Alcuni aspetti da considerare quando parliamo di età e che possono influenzare la nostra pratica sono:

  • Perdita di massa ossea
  • Disidratazione delle articolazioni e del tessuto connettivo
  • Anni di patterns ripetitivi con cui fare i conti
  • Un sistema nervoso meno reattivo nell’acquisire nuovi patterns.

Molto probabilmente i cambiamenti sopra elencati hanno un impatto sulla nostra pratica. Ma non devono allontanarci da essa. Possono semplicemente guidarci verso le modalità di esecuzione della pratica. Sostengo da sempre che la pratica deve adattarsi alla nostra vita. L’età e gli stadi della nostra esistenza sono solo due dei tanti aspetti che compongono questa affermazione. Esistono infatti molti altri fattori d’influenza sulla pratica. Per esempio, a che punto siamo nel nostro rapporto con l’Ashtanga Yoga, fatto che non ha tanto a che fare con la nostra età, ma prevalentemente con gli anni di pratica che abbiamo alle spalle. Quando ci avviciniamo all’Ashtanga, a seconda della nostra età e di una serie infinita di circostanze, attraversiamo inevitabilmente delle “fasi”.

Le possibili “fasi” del nostro rapporto con la pratica

“Sono molte le fasi che attraversiamo in relazione alla pratica dell’Ashtanga Yoga. L’invecchiamento fisico è solo uno degli aspetti che possono influenzare la nostra pratica:

  • L’innamoramento
  • In questa fase leggiamo tutto ciò che possiamo trovare sulla pratica, non saltiamo mai una pratica mattutina, e annoiamo chiunque con lunghissimi monologhi su come l’Ashtanga sia la cosa migliore che abbiamo mai incontrato [N.d.T.: dopo 25 anni di pratica, io ci sono ancora dentro fino al collo: e voi?]
  • Il primo plateau
    • Arriviamo al punto in cui l’ultimo asana che ci è stato assegnato sembra non andare da nessuna parte. Ci abbiamo lavorato per settimane, eppure non riusciamo ancora a chiudere Marichyasana D, a portare una gamba dietro la testa o a mantenere l’equilibrio in bhujapidasana. A questo punto, o diventiamo curiosi e impariamo ad essere pazienti, o sentiamo crescere la frustrazione e abbandoniamo.
  • Inizio della serie intermedia
    • Se abbiamo scelto di attraversa i plateau della prima serie, ad un certo punto inizieremo a lavorare sulla serie intermedia. Improvvisamente, la pratica torna ad essere eccitante: voliamo attraverso una nuova sequenza di asana, cogliamo l’esaltazione degli inarcamenti complessi… e poi ci imbattiamo in kapotasana (o qualunque postura rappresenti il nostro personale plateau). Nuovamente, a questo punto, o diventiamo curiosi e impariamo ad essere pazienti, o sentiamo crescere la frustrazione e abbandoniamo.
  • Una pratica molto, molto lunga
    • Se abbiamo appreso la seconda serie aggiungendo, nella nostra pratica quotidiana degli asana della prima serie, ad una ad una le nuove posture, una volta arrivati a eka pada sirsasana avvertiamo un senso di lunghezza interminabile della pratica. Siamo costretti a costruire resistenza, che solitamente significa imparare a respirare (se non sappiamo già farlo) e ad usare meno la forza a favore dell’efficienza. Questa fase richiede forza di volontà. Dobbiamo aver voglia di fare questo tipo di lavoro. Non è facile. E qui molte persone, nuovamente, abbandonano.
  • Diventare un praticante maturo
    • Se siamo arrivati fino a questo punto, abbiamo sicuramente incontrato molti ostacoli lungo la strada. Non ho quindi bisogno di dirvi come praticare invecchiando, perché avete già capito come praticare quando il lavoro o la famiglia richiedono tutta la vostra energia, o come praticare quando la vostra forza di volontà è vicina allo zero, o quando vi siete fatti male (sia facendo altro, che forzando troppo la mano nella pratica).
    • Ho incontrato molti studenti nel corso degli anni, e ho osservato il loro rapporto con l’Ashtanga Yoga, e l’evoluzione della loro pratica nel tempo. E naturalmente, ho vissuto in prima persona l’avanzare dell’età, e i cambiamenti della mia pratica. Se c’è un tratto comune a tutti i praticanti senior, è che hanno imparato a prendere la loro pratica con leggerezza. Hanno lasciato andare l’idea che la pratica debba essere di una certa lunghezza, che ci sia un numero “giusto” di asana da eseguire, che sia necessario farla ad una certa ora, e soprattutto che conquistare un asana vada di pari passo con l’illuminazione spirituale. Hanno imparato a vedere l’Ashtanga come uno strumento sfaccettato, che può essere utilizzato per molti scopi, a seconda delle esigenze del momento.

La verità è che ognuno di noi sa già come praticare. Abbiamo da sempre questa capacità. Dobbiamo solo fidarci, e credere alla nostra esperienza. Se volete che qualcuno vi dia il permesso, ve lo do’ io: potete fare meno. Potete eseguire una pratica più breve quando ne sentite la necessità. Potete eseguire gli asana che hanno un senso per voi. Prendere un giorno off se ne avete bisogno. Potete modificare, sostituire e in generale eseguire gli asana in qualsiasi modo riteniate sia più adatto a voi in questo momento. Le sequenze sono una guida; non sono rigidi pilastri di cemento. Dopo averle apprese coscienziosamente per anni, potete ora usarle nel modo che vi sembra più adatto a voi.

Nella mia esperienza personale, direi che negli anni sono cambiate le mie motivazioni verso la pratica, mentre molti praticanti attraversano una “luna di miele” con la pratica, periodo in cui sono motivati a “conquistare” nuovi asana, e che si interrompe non appena raggiungono il primo plateau fisico. Quando l’aspetto fisico degli asana resta al palo per un bel po’ di tempo, dobbiamo per forza trovare qualcos’altro a cui rivolgere la nostra attenzione: ad esempio il modo in cui respiriamo mentre pratichiamo, o l’attivazione dei bandha e del drishti, per mantenere viva la concentrazione. Questi aspetti della pratica sono già a nostra disposizione, indipendentemente dall’asana che stiamo eseguendo. Anche se tuttora apprezzo molto il movimento che caratterizza la nostra pratica, con il passare degli anni trovo sempre più interessanti il respiro e la concentrazione all’interno della pratica.

Insomma, la vostra pratica cambierà con l’età? Come sarà a 50, 60 o 70 anni? Posso dirvi certamente che cambierà. Come, non lo so. So però che se investirete tempo e attenzione sulla respirazione e sulla concentrazione, avrete di che esplorare per questa vita e per la prossima. Perché sono questi gli aspetti della pratica a cui avremo sempre accesso, con cui potremo coltivare una relazione anche quando la pratica meramente fisica sarà meno accessibile.

Se praticherete per molti anni, noterete che il “perché” praticate subirà un cambiamento. Se molti iniziano a praticare alla ricerca dei benefici fisici, di maggiore flessibilità e forza, o anche semplicemente per combattere il mal di schiena, negli anni gli effetti mentali ed emozionali della pratica diventano sempre più importanti ed evidenti. Qualunque sia la serie raggiunta – la prima, o la quarta.

Ci auguriamo che con l’età sopraggiunga anche la maturità. Con gli anni, siamo meno interessati al risultato della pratica, e più consapevoli del processo che la guida. E questo significa, spero, che abbiamo imparato ad essere più gentili con noi stessi e con gli altri. La gentilezza può riflettersi in pratica in quali asana scegliamo di eseguire, o in come decidiamo di eseguirli. Le opportunità di esplorazione della pratica sono infinite, e quelle più interessanti – respiro e concentrazioni – sono sempre a nostra disposizione, indipendentemente dalla quantità di asana o da quale serie decidiamo – o possiamo – praticare”.

In conclusione

“Non posso dirvi cosa, nello specifico, potete o non potete praticare a 50, 60 o 70 anni. Sono troppe le variabili individuali in gioco. Ciò che è appropriato per un cinquantenne, potrebbe essere troppo o troppo poco per un altro. Ciò che posso incoraggiarvi a fare è prestare attenzione agli anni di pratica che avete alle spalle, ascoltarvi e adattare la pratica dove e quando ne sentite la necessità. Ma questa, molto probabilmente, è un’arte che state già imparando, indipendentemente dalla vostra età”.

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Home Practice is the new black

Home practice is the new black, potremmo dire parafrasando il linguaggio della Moda. Mai come in questo periodo, praticare a casa più che una scelta è diventata una vera necessità.

Gli ultimi dodici mesi hanno cambiato drasticamente le nostre abitudini, e tra queste dobbiamo includere anche il modo in cui pratichiamo Yoga. Dalla Shala affollata e calda, con l’insegnante che ci accompagna passo passo nella pratica, ci siamo ritrovati a dover mettere alla prova la nostra capacità di mantenere l’impegno preso con lo Yoga anche nelle nostre case.

Impresa tutt’altro che facile per chi in questi mesi ha dovuto imparare a giostrarsi tra smart working, figli a casa alle prese con la DAD, coniugi costretti a condividere spazi spesso ristretti.

Eppure per chi ha saputo cogliere l’opportunità che come sempre si nasconde in ogni momento di crisi, il 2020 per molti (per me, almeno) si è rivelato un anno speciale in termini di crescita personale.

L’online, che noi insegnanti abbiamo quasi sempre considerato la causa di tutti i mali dello Yoga occidentale, ha mostrato il suo volto migliore, creando coesione e offrendo strumenti per mantenere i contatti con i nostri insegnanti, quando non addirittura incontrare maestri con cui sognavamo da tempo di praticare.

E’ evidente che praticare a casa comporti una serie di difficoltà, prima fra tutte la condivisione di spazi con altri membri della famiglia. Non tutti dispongono di stanze ad hoc, in cui creare l’ambiente adatto alla pratica. Tuttavia, where there’s a will there’s a way, si dice a Londra, e alcuni piccoli suggerimenti per portare avanti l’impegno quotidiano con il tappetino possono essere d’aiuto. Ecco la mia piccola lista, che spero vi sarà di ispirazione.

  1. Creare uno spazio per la pratica. Che sia una stanza dedicata, o un angolo in una stanza condivisa, preparate i vostri “strumenti” e lasciateli sempre nello stesso posto. Un piccolo reminder quotidiano della vostra shala personale. Il tappetino, un piccolo asciugamano, una coperta per il rilassamento. Per chi coltiva l’aspetto devozionale della pratica, una effige della divinità di riferimento, un piccolo altare può essere d’aiuto.
  2. Scegliere un orario. Scegliete un momento della giornata in cui realisticamente sapete di poter dedicare almeno un’ora a voi stessi. Non necessariamente un’ora di pratica intensa, ma 60 minuti tondi in cui potersi ritirare in uno spazio spirituale interiore, lontano da distrazioni (familiari e/o tecnologiche: spegnete i devices!). Quando si pratica tra le mura domestiche, ciò che conta maggiormente è la tranquillità; quindi non preoccupiamoci troppo di mantenere a tutti i costi l’orario delle lezioni in shala, se per noi è impraticabile.
  3. Eliminate le distrazioni. Per un’ora, il mondo può andare avanti senza di noi. A meno che non siamo medici in prima linea, o stiamo svolgendo funzioni di carattere emergenziale, il mondo può sopravvivere senza di noi per un’ora. Spegniamo i cellulari, il computer e la TV.
  4. Recuperiamo la motivazione. Non è facile praticare da soli, soprattutto se il nostro percorso nello Yoga è iniziato da poco. Per fortuna la maggior parte degli insegnanti si è attrezzata per continuare a sostenere i propri praticanti anche nella loro home practice, con una vasta offerta di lezioni su Zoom e altre piattaforme. Continuate a frequentarli, anche se solo virtualmente. Aiuterete loro a mantenere aperti i luoghi che vi accoglieranno di nuovo quando tutto questo sarà finito, e voi stessi a non perdere il meraviglioso strumento della pratica. Se progredire solo attraverso le lezioni online ci è impossibile, possiamo quantomeno mantenere ciò che abbiamo guadagnato con il nostro impegno. La mia formula? Almeno una lezione a settimana con il proprio insegnante di riferimento, almeno una Led Class a settimana live o a scelta tra quelle registrate e proposte su YouTube da grandissimi maestri, da Sharath a John Scott. Una volta a settimana, un webinar di approfondimento (avete già provato quelli di Martina Cova?) E gli altri giorni, self practice!
  5. Resistere all’autoindulgenza. Molte volte nello Yoga sentiamo la frase “accetta ciò che senti”, “lascia andare”. Ma siamo certi che stiamo davvero accettando ciò che sentiamo, o stiamo semplicemente assecondando l’ennesimo inganno della nostra mente? Nel dubbio, saliamo sul tappetino e proviamo almeno a fare qualche saluto al sole. Di solito, quando inizio così la mia home practice, mi ritrovo a metà della seconda serie senza neanche accorgermene.

Perché è così importante mantenere una home practice attiva in questi mesi? Al di là degli ovvi benefici sul sistema mente-corpo, la pratica è un modo per restare in contatto con la nostra community, il nostro “sangha”. Per non isolarsi e cadere ancora di più nell’individualismo che sta caratterizzando in modo poco edificante questa nostra era. Per dare un senso alle nostre giornate, scandendole con un sankalpa, un’intenzione, che si elevi dai piani meramente materiali dell’esistenza.

Se volete qualche consiglio in più sulla gestione della pratica casalinga, scrivetemi. In 25 anni di pratica, e con decine di traslochi nei luoghi più disparati del pianeta, ricreare e ritrovare la mia Shala personale mi ha aiutata più di ogni altra cosa a mantenere l’equilibrio e ad affrontare le difficoltà. Sono qui per voi, se avete bisogno di una spinta!

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