Laureata in Scienze Motorie, insegnante esperta di Ashtanga Yoga e titolare del centro di eccellenza Yoga&Movimento: Elena si racconta a The Yoga Blog
Essere un bravo insegnante di Yoga oggi è tutt’altro che semplice. Trovarne uno, è impresa assai ardua, davanti ad un’offerta che si allarga sempre più, e in cui il neofita tende a perdersi, incappando spesso in persone improvvisate o impreparate.
Ho conosciuto Elena Bortolazzi circa un anno e mezzo fa, anche se da tempo seguivo la sua incredibile pratica sui social. Ci siamo incontrate ad un seminario della Scholarship Twindharma, tenuto da Martina e Chiara Cova, a mio parere tra le migliori insegnanti in Italia. Elena era presente con il suo team di colleghe, e sono rimasta affascinata dalla pulizia e dall’altissimo livello della sua pratica, oltre che dalla sua incredibile modestia (qualità sempre più rara, ultimamente), aspetti che per me sono fondamentali in un autentico insegnante. Durante il lockdown, Elena è stata insieme a Martina la persona che ha maggiormente contribuito a migliorarmi nella pratica, e poiché tra gli scopi di questo mio blog c’è anche e soprattutto quello di dare indicazioni su chi seguire per lavorare in modo serio e sicuro sulla propria pratica, da tempo coltivavo l’idea di intervistarla per voi.
Elena Bortolazzi in handstand
Trovo molto interessante il suo percorso, soprattutto oggi, momento storico in cui pare bastino 15 giorni per diventare insegnante di Ashtanga Yoga (una pratica che richiede una vita per essere appresa nelle sue mille sfumature), e spero possa essere di ispirazione a chi desidera non solo “dire” di insegnare yoga, ma “essere” realmente insegnante di Yoga.
Francesca: Elena, la tua pratica fisica è di altissimo livello. Quando hai iniziato, e chi consideri tuo maestro? Quali percorsi di formazione Yoga ritieni validi in Italia?
Elena esegue la transizione di Eka Pada Sirsasana
Elena: Ho iniziato a praticare circa 12 anni fa. Ho iniziato con Roberto Bocchi e con il suo power yoga method. A lui devo veramente tanto, per tutto ciò che mi ha insegnato, e lo ritengo il mio iniziatore. Sono sempre stata insegnante di fitness, e durante la prima lezione di power yoga mi sono sentita, per la prima volta, un pesce fuor d’acqua. Ero così convinta delle mie abilità motorie, che il mio sentirmi così a disagio mi ha fatto ripartire da zero. Mi sono detta: bene “ ricomincio da qui”, e mi sono innamorata perdutamente di questa pratica. Il classico amore a prima vista. Ho poi iniziato a praticare Ashtanga yoga nel 2012 e solo nel 2015 sono andata a Miami a cercare Day1yoga, che allora insegnava al Miami life center; ho quindi cominciato a seguirla ovunque, ogni volta che potevo correvo da lei. Durante un workshop a Bali ho poi conosciuto Martina e Chiara Cova, che continuo a seguire tutt’ora.
F: La tua preparazione include una laurea in scienze motorie. Quanto incide il tuo excursus universitario sulla tua pratica Yoga?
E: La mia laurea in scienze motorie e il mio percorso di studio, che ritengo non avrà mai fine, incidono soprattutto nel mio modo di insegnare più che nella mia pratica personale. Anche se la sete e la fame di comprendere l’anatomia ed i segreti infiniti di corpi diversi in movimento, rimane per me un affascinante mondo da scoprire e da trasmettere ai miei allievi.
F: quale aspetto spirituale dello Yoga pensi ti abbia aiutato di più nell’affrontare le difficoltà del quotidiano?
E: Per quanto riguarda l’aspetto spirituale dello yoga, direi che mi ha aiutato a sviluppare quella che oggi si definisce modernamente resilienza, la pazienza e l’amore verso se stessi.
F: qual è la tua raccomandazione per chi desiderasse oggi insegnare yoga?
E: Credo non sia semplice oggi insegnare seriamente e rispettosamente Yoga. Sono necessari tanta passione, tanto sudore e tanta pratica personale in primis, poi tanto studio. Affidarsi ad un buon maestro è secondo me un aspetto fondamentale. Per essere un bravo insegnante devi essere prima un bravo allievo.
Un ritratto di Elena Bortolazzi
F: Sappiamo che, al di là del mondo ideale dei social, i praticanti hanno spesso una vita complessa, tra lavoro e famiglia il tempo per la pratica spesso è molto difficile da trovare. Qual è il tuo consiglio in merito alla frequenza e alla durata della pratica? E quali risultati può aspettarsi una persona “comune”?
E: Credo che la pratica per un allievo vada di pari passo con la pazienza, abbiamo così tante aspettative nei confronti di noi stessi che ritengo dovrebbe essere considerata come una dolce medicina, capace di metterci in contatto con noi stessi. La pratica deve aiutarci a ritagliare un’ora di assoluta alienazione dallo stress e dal vivere frenetico e senza ascolto che accompagna le nostre giornate.
F: Parliamo di Yoga & Movimento, una realtà molto frequentata e attiva, a Sassuolo. Forse in Italia una tra le community più forti. Come è nato questo progetto? Chi ti affianca nell’insegnamento? Come avete reagito al Covid? E come sta andando la ripresa?
E:Yoga&movimento é la mia grande casa, la mia grande famiglia, ho sempre desiderato creare una comunità capace di dare benessere. Mi ritengo molto fortunata ad avere uno staff di bravi insegnanti ed allievi e devo tantissimo alle mie compagne di banco Francesca Casoni, Roberta Girardi ed Antonella Marino che sin dall’inizio hanno creduto ed appoggiato questo mio progetto, senza di loro non sarei qui. Ormai siamo quasi in 10 insegnanti e spero la scuola cresca ancora.
Durante la pandemia, stringendo i denti abbiamo continuato a lavorare online con entusiasmo grazie anche ad allievi molto disciplinati che non hanno mollato la presa.
La ripresa? Un’ emozione unica tornare in presenza, meno affluenza e tanto lavoro da fare per riparare i danni fatti dal Covid, il vantaggio e svantaggio di lezioni che continuano in presenza ed online, ma che dire, tutto insegna ed ancora una volta mi dico “ripartiamo da qui”!
Elena Bortolazzi e il suo team sono a Sassuolo, in Piazza Jan Palach 10. Questa estate, inoltre, terrà un seminario residenziale presso la famosa e bellissima struttura di Yoga in Salento (Zollino). Io non vedo l’ora di andare a praticare con lei, e voi?
Francesca d’Errico
Gli articoli tradotti e quelli autografati sono protetti da copyright. Per la riproduzione, scrivere a fmderrico@gmail.com. The Yoga Blog è un sito che offre gratuitamente una selezione di articoli, interviste, traduzioni di grande rilievo per la comunità yogica italiana. Ogni vostra donazione mi aiuta a portare avanti questo progetto, libero da qualsiasi influenza commerciale. Donate usando il pulsante PayPal che trovate in testa ad ogni articolo. Grazie.
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Yoga e lockdown. Un binomio non proprio ideale! E’ passato più di un anno ormai dalla chiusura forzata di tutte le attività collegate al benessere psicofisico – palestre, centri yoga, scuole di danza… you name it. Non voglio entrare nel merito della tragicità di questa situazione sotto mille punti di vista – il benessere psicofisico dei fruitori di questi servizi, in primis; o i risvolti economici, che ormai sono drammatici per moltissimi titolari e professionisti del settore. Oggi voglio raccontarvi la mia personale esperienza con la pratica in questo anno di lockdown (più o meno stringente). E non è un racconto fatto di frasi new age, cuoricini e nuvolette rosa.
Eka Pada Koundinyasana
Ci abbiamo provato tutti a stare online. E moltissimi colleghi, che peraltro stimo davvero tanto, riescono a tenere duro con questa modalità che sembra andare contro a tutti i principi della pratica. Manca il gruppo, la possibilità di guardare la sala a colpo d’occhio e individuare il praticante che è rimasto indietro, manca il tocco degli assists, manca l’energia del chanting e l’atmosfera della meditazione e del rilassamento finale, in cui veramente, lo sa bene chi ha praticato anche una sola volta, ci si sente trasportati in una dimensione di profondo benessere. Magari dura solo qualche minuto, ma i suoi effetti si fanno sentire tutta la giornata.
Personalmente, online ho pochissima resistenza. E dire che sono una fruitrice del web, gestisco un blog, sono attiva sui social, essendo una “ancienne combattante” sono stata tra le prime a scoprire i video e i DVD degli insegnanti più noti. Ma quando è toccato a me cercare di trasmettere la pratica online, lo confesso: mi sono sentita un pesce fuor d’acqua. Innanzi tutto, sebbene dotata di un bellissimo Mac, non riuscivo a vedere nei quadretti di Zoom cosa diavolo facessero i miei praticanti. Dovevo continuamente muovermi dal tappetino allo schermo, mettere e togliere gli occhiali, urlare per farmi sentire (niente, il microfono non funzionava). Alla fine della lezione di Yoga non mi restava più nulla, e al termine ero semplicemente distrutta, con la cervicale che urlava vendetta, gli occhi che lacrimavano e la raucedine.
Ho provato anche a partecipare da praticante a lezioni altrui. Anche qui, lezioni tenute da maestri che stimo tanto – lezioni dal vivo e lezioni registrate. Nonostante io abbia una stanza dedicata alla pratica a casa, mettermi davanti ad un computer e dover continuamente alzare e abbassare la testa per guardare cosa stesse succedendo, o sentirmi io stessa uno di quei quadratini poco visibili su Zoom, non mi aiutava a ricreare la motivazione alla pratica che sentivo in Shala. E siamo tutti d’accordo, è una situazione d’emergenza, altro non si può fare, e invito chi ci riesce a continuare, soprattutto per sostenere le proprie Shala di riferimento (che sono a un passo dal collasso). Ma per me lo Yoga online non è abbastanza. Passino i primi mesi dello scorso anno, in cui davvero speravamo tutti che ne saremmo usciti a breve: ma ora, niet, nisba, nada. Non ce la faccio (fateci riaprire, che non ne possiamo più!).
Non credevo che il gruppo mi sarebbe mancato così tanto. Non credevo che avrei sentito la mancanza della Mysore room affollata, con i vetri appannati dal vapore, i tappetini scivolosi per il sudore. Avendo praticato per lunghissimi periodi da sola, pensavo che non avrei avuto grandi difficoltà a continuare. Ma quest’inverno, la situazione mi è improvvisamente arrivata in faccia come un tir a tutta velocità. Alcuni giorni salivo sul tappetino, e mi trascinavo lungo la pratica facendo una fatica immensa. Altre volte, dopo i saluti al sole volevo solo scappare. Lo sforzo di praticare era tale, che ho cominciato a chiedermi se non fosse giunto il momento di lasciare l’Ashtanga Yoga. Un interrogativo che, non ve lo nascondo, mi ha scosso non poco. Dopo 25 anni, la pratica diventa tutt’uno con ciò che si è. Io sono la mia pratica, in poche parole. E immaginare le mie giornate senza quel rituale, privo di quell’ora e mezza di profonda comunione tra mente e corpo, era semplicemente impensabile.
Momenti di pratica quotidiana
Ho cominciato a chiedermi cosa mi avesse portato a quel punto. Le difficoltà della pandemia (non me ne vogliano i lettori che non vogliono neanche sentir nominare questa parola, nel nome delle “energie negative” tanto care alla new age) non potevano essere la sola ragione. E’ vero, avevo perso la mia Shala (un anno di affitto e bollette pagate a vuoto senza prospettive di riapertura mi hanno costretto a lasciarla). Un carico emotivo non indifferente. Aggiungiamoci l’aver traslocato e rimesso a nuovo una casa insieme al mio compagno. Mettiamoci anche l’aver adottato un cane, molto impegnativo perché “salvato” da un canile, che ha aggiunto alla mia routine due ore di camminata ogni giorno – in salita, vivendo in collina (ma insomma, non ero forse una persona allenata?). E infine, dulcis in fundo, la necessità di dover seguire molto da vicino una persona cara in un momento di grande preoccupazione. Possibile che queste “novità” avessero inciso tanto sulla mia pratica? E, domanda delle domande: non sarò mica INVECCHIATA?!
Tante domande, una risposta
Quest’anno, ad agosto, festeggerò 57 anni. Non ho mai nascosto la mia età, anzi ne vado abbastanza fiera. Forse questo compleanno aveva qualcosa a che fare con il calo di energie? Era davvero giunto il momento di chiedersi se la pratica andasse in qualche modo modificata in base all’età anagrafica? La risposta non era facile, e in linea generale, sono tuttora propensa a dire ni. La flessibilità e la forza si perdono se si smette di allenarle, dunque l’età può non essere il punto. Ma il fattore decisivo, quello che sicuramente cambia, anche a causa dei mutamenti ormonali che, innegabilmente, hanno un ruolo importante a livello energetico, è la resistenza. Ovvero la capacità di dedicare molte ore della propria giornata alla pratica (o più in generale, agli sforzi fisici). Va quindi messa in conto la capacità di programmarsi, di decidere come e quali sforzi fisici affrontare, quali priorità darsi. Ho cominciato perciò ad analizzare come mi sentivo dopo ogni attività fisica. Non volevo che la mia vita ruotasse intorno alla mia pratica, ma non volevo neanche privarmi della pratica, per come l’avevo sempre conosciuta. Qual era dunque la soluzione?
Dopo lunghe riflessioni, e tanta meditazione, ho capito che il peggior nemico della mia pratica e, più in generale, della mia “endurance” era il mio perfezionismo. Volevo essere in grado di praticare le mie serie, di migliorarmi persino, ma anche di occuparmi della casa alla perfezione, del mio lavoro e dei miei animali senza mai cedere un millimetro, senza mai dire a me stessa: “Francesca, per oggi va bene anche se non passi lo straccio” (evitiamo subito considerazioni femministe: io lavo i pavimenti, ma il mio compagno si occupa dell’orto!), o “per oggi, cane e gatti possono accontentarsi di stare in giardino”, o ancora “per oggi, posso insegnare senza dimostrare tutta la pratica ai miei studenti”. Mi sono accorta che le richieste che facevo a me stessa stavano diventando, semplicemente, troppo elevate. Persino in controtendenza con quello che “dovrebbe” essere la norma: ovvero, più anni, meno sforzi (ma sappiamo bene che, in realtà, la vita è sempre piena di sorprese). Mi impegnavo tanto ad “ascoltarmi” sul tappetino, e poi, nel quotidiano, non mi ascoltavo neanche un po’. E proprio in un momento in cui mi ritrovavo carica di impegni e preoccupazioni!
“Mediare” con se stessi
L’età è solo un numero!
Sono riuscita infine ad arrivare ad una “mediazione” con me stessa, decidendo di ascoltarmi in ogni momento della giornata e di accettare sia una pratica meno “completa” del solito, quando è il caso, che un po’ di polvere in più sui mobili ogni tanto, se voglio dedicarmi ad una nuova postura o ad una pratica più intensa. Ho anche scelto di non “obbligarmi” ad un orario fisso per la pratica, ma di seguire i suggerimenti del mio corpo. E poi la scelta più importante e difficile: ovvero prendermi un sabbatico dall’insegnamento, per impegnarmi nella mia pratica con la gioia a cui ero abituata, senza sentirmi sotto pressione o costretta a performance eccessive solo perché “insegnante”. Non potendo permettermi di non lavorare, farò altro per un po’. Tra gli altri accorgimenti che ho preso in questo momento così impegnativo, c’è stato lo studio di quali integratori potessi aggiungere alla mia lista per sostenere l’incremento delle mie attività, in base alla mia età. Ma soprattutto, ho ripreso in mano la pratica fin dalla prima postura. Cercando di capire dove sbagliavo, se era possibile migliorarmi non solo esteticamente, ma anche e soprattutto energeticamente, e posturalmente. Cercando anche e soprattutto di rispettare il metodo, aggiungendo le posture una alla volta, per costruire la forza necessaria alla progressione. E dopo un inverno impegnativo, costellato di molti momenti di scoraggiamento, ho cominciato a rifiorire. Devo molto, in questo percorso, a tre insegnanti che mi sono state molto vicine. Susanna Finocchi, Martina Cova e Elena Bortolazzi. Mi hanno incoraggiata e sostenuta, mi hanno regalato consigli e ascoltata nei momenti “bui”. E mi hanno dimostrato che, anche in assenza di luoghi fisici per incontrarsi, possiamo essere vicini, darci sostegno, praticare “insieme”. Certo, richiede uno sforzo in più, e quello possiamo solo trovarlo dentro di noi. Ma in fondo, come diceva Mae West, “You’re never too old to become younger!” (Non si è mai troppo vecchi per diventare più giovani!)
La mia check-list anti-fatica
Elenca su un foglio tutte le attività quotidiane che richiedono sforzi fisici, e programmale con attenzione
Cura l’alimentazione, assicurandoti di fornire abbastanza carburante al tuo corpo
Seleziona integratori naturali adatti alla tua età (soprattutto se sei donna!)
Qualsiasi pratica è meglio di nessuna pratica: non rinunciare al tuo “tempo personale”, anche se dovessi fare solo i saluti al sole e shavasana, onora questo spazio in cui sei sola/o con te stesso
Non avere paura di eventuali “setback”. La pratica non è lineare, risente delle tue emozioni, di ciò che accade nella tua vita.
Non trascurare mai il tuo riposo. Computer e cellulare prima di andare a dormire non sono l’ideale! Lasciali in un’altra stanza.
Un piccolo “trucco” per sciogliersi prima della pratica, soprattutto se al mattino presto: una doccia calda. E nel giorno off, il caro vecchio “bath oil”! Massaggiati a lungo con abbondante olio, meglio se tiepido.
Negli ultimi decenni abbiamo visto un fiorire di manuali di self-help: dalle difficoltà sentimentali agli impasse professionali, dalla capacità di affrontare il cambiamento a come perdere dieci kg in dieci giorni, sembra che tutto sia risolvibile attraverso un manuale, dove tra consigli di psicologia spicciola e sperequazioni new age ci viene spiegato come affrontare qualsiasi problematica del quotidiano. Sembra una caratteristica dei nostri tempi… e invece anche in questo campo, sembra che l’uomo non sia cambiato granché nei secoli. Anche i maestri dell’India Medievale offrivano ai loro lettori consigli e regole per raggiungere obiettivi spirituali. Lo scopriamo insieme nella mia traduzione di questo divertente, ma sempre molto arguto articolo tratto da The Luminescent, che ci rivela un inedito aspetto del Gheranda Samhita.
J. Hargreaves
“Ciò che affascina della scrittura dei testi relativi allo Yoga nell’India medievale, è che spesso offrivano metodi gerarchici e sistematici per il raggiungimento di un obiettivo o di una serie di obiettivi. Non diversamente da una breve lista per la crescita individuale, che circolano tanto, di questi tempi, sui social media. Tipo ’10 modi per raggiungere la felicità autentica’, o ‘7 suggerimenti per restare giovani’.
Il Gheraṇḍa Saṃhitā (che risale ai primi anni del 18esimo secolo) ne è un buon esempio. Identifica 7 modi per raggiungere lo ‘Yoga del Corpo (ghaṭasthayoga). Come dice James Mallinson,
“…si riferisce al corpo, o piuttosto alla persona, poiché le tecniche insegnate nel Gheraṇḍa lavorano sia sul corpo che sulla mente.”
Le sette pratiche (saptasādhana) vengono presentate corredate di descrizioni dei metodi e dei risultati raggiungibili attraverso la pratica:
1. La PURIFICAZIONE viene raggiunta attraverso il Ṣaṭkarma (6 tipi di tecniche di purificazione)
2. La FORZA viene attivata attraverso gli Āsana (32 tipi di posizioni)
3. La STABILITA’ può essere ottenuta con le Mudrā (25 tipi di sigilli)
4. La CALMA arriva attraverso il Pratyāhāra (5 tipi di deprivazione sensoriale)
5. La LEGGEREZZA si rivela attraverso il Prāṇāyāmas (10 tipi di esercizi respiratori)
6. La REALIZZAZIONE DEL SE’ avviene con il Dhyāna (3 tipi di meditazione)
7. E alla PERFEZIONE SENZA MACCHIA si arriva attraverso il Samādhi (6 tipi di profonda concentrazione)
Il testo si concentra sulle tecniche fisiche che devono essere praticate per perfezionare il corpo e la mente, e raggiungere l’obiettivo del Rājayoga (un sinonimo di samādhi). Come molti altri metodi di Haṭhayoga, le sette pratiche del Gheraṇḍa Saṃhitā non contengono guide etiche, come gli yama e niyama del Pātañjalayogaśāstra.
E’ interessante tuttavia notare che il Gheraṇḍa Saṃhitā fornisce un set unico di sei tecniche volte all’ottenimento di particolari tipologie di samādhi, lo stato di profonda concentrazione che porta alla liberazione.
Immagine realizzata dal team di The Luminescent
In molte tradizioni di Haṭha e Rājayoga, tecniche di meditazione come Śāmbhavī e Khecarī Mudrās sono fondamentali per il raggiungimento del samādhi, e queste tecniche compaiono nel Gheraṇḍa Saṃhitā. Tuttavia, il Gheraṇḍa Saṃhitā include anche Yoni Mudrā, due prāṇāyāma (controllo del respiro) e Bhakti (devozione) nel suo sistema a sei rami di Rājayoga.
Queste sei tecniche non sono uniche, perché presenti anche in tradizioni precedenti, ma il set di sei rappresenta una selezione inusuale, e solleva qualche interrogativo. Ad esempio:
Il Gheraṇḍa Saṃhitā insegna dieci tecniche di prāṇāyāma; perché dunque isola Bhrāmarī e Manomūrccha per includerle nel suo sistema a sei rami di Rājayoga (samādhi)?
Se si ottiene il successo praticando ognuna delle tecniche di questo sistema a sei rami per ottenere il samādhi, dobbiamo considerare ridondanti le altre tecniche esposte nei capitoli precedenti (il ṣaṭkarma, āsana, etc.)?
Perché Bhakti è incluso come mezzo per il raggiungimento del samādhi mentre è generalmente assente nei sistemi di Haṭha e Rājayoga delle ere precedenti?
Le prime quattro delle sei tecniche di Rājayoga producono specifici tipologie di samādhi, rispettivamente Dhyāna, Rasānanda, Layasiddhisamādhi e Nāda . Perché non sono specificati tipologie diverse di samādhi per le altre due tecniche, Manomūrccha e Bhakti?
Nel Pātañjalayogaśāstra sono presenti diversi tipi di samādhi, ma livelli e tipologie di samādhi sono completamente assenti nelle tradizioni di Haṭha e Rājayoga. Questo testo è l’unico, tra gli scritti tardo medievali, a riferirsi a diversi tipi di samādhi?
Jim Mallinson, ricercatore della SOAS e parte del team dell’Hatha Yoga Project
Mallinson ha pubblicato una traduzione inglese del Gheraṇḍa Saṃhitā, che comprende una introduzione ricca di informazioni, che fornisce l’importante contesto necessario alla comprensione di alcuni degli insegnamenti contenuti in questo testo”.
A me queste riflessioni fanno venire una gran voglia di acquistare il libro di Mallinson: e dopo averlo letto, sono certa che mi verrà voglia di scrivere un altro articolo su questo testo così importante per lo Yoga contemporaneo!
Nota: gli articoli tradotti e quelli autografati sono protetti da copyright. Per la riproduzione, scrivere a fmderrico@gmail.com. The Yoga Blog è un sito che offre gratuitamente una selezione di articoli, interviste, traduzioni di grande rilievo per la comunità yogica italiana. Ogni vostra donazione mi aiuta a portare avanti questo progetto, libero da qualsiasi influenza commerciale. Donate usando il pulsante PayPal che trovate in testa ad ogni articolo. Grazie.
Come orientarsi per crescere nello Yoga… anche online
Online: una sfida o un inevitabile futuro per lo Yoga? Il 2020, con le restrizioni che siamo stati costretti a subire, ha visto una crescita esponenziale dell’offerta online in qualunque settore, e lo Yoga non ha fatto eccezione. Esistono già da diversi anni molte proposte esclusivamente online anche per la nostra disciplina, ma è innegabile che la chiusura forzata delle Yoga Shala di quasi tutto il mondo abbia provocato un’impennata nell’offerta di lezioni, seminari e corsi di formazione. Si è creato un “mare magnum” in cui è diventato molto difficile orientarsi, con nomi più o meno famosi che si sono lanciati nell’etere per sopperire alle (ingenti) perdite causate dall’impossibilità di ricevere i praticanti in presenza. Io stessa ho offerto (anche se in modo molto limitato) lezioni online ai miei praticanti.
Lasciando da parte il mio personale punto di vista (lo riassumo brevemente: non amo trasmettere questa disciplina online, perché ritengo, soprattutto nel caso dell’Ashtanga Yoga, che le lezioni in presenza siano insostituibili, e cerco di limitare al minimo la mia presenza sul web per questa ragione), qualcosa di buono ovviamente c’è. In primo luogo, molti insegnanti di grandissimo valore sono diventati più accessibili anche dalle mura di casa, senza la necessità di spendere grosse cifre (voli, vitto, alloggio, iscrizione etc. etc.). In secondo luogo, i praticanti hanno avuto modo di continuare a seguire e sostenere le shala di riferimento, partecipando alle lezioni che, anche se in misura ridotta, consentono a chi gestisce uno spazio di coprirne le spese in attesa della riapertura.
Ma al di là di questo, cosa possiamo scegliere online per mantenere viva la motivazione a salire sul tappetino? E ci sono percorsi di crescita o di formazione che, anche online, possono darci qualcosa? In questi mesi ho cercato e studiato l’offerta sul web, e ho fatto una piccola selezione che, a mio parere, può essere di aiuto a tutti coloro che stanno cercando una “guida” o che desiderano portare la loro pratica ad un livello superiore, avvalendosi di questo strumento che non tutti amano ma che, purtroppo, al momento è l’unico disponibile. Ve la presento qui, in attesa come sempre di ricevere il vostro feedback.
Lezioni, seminari e videocorsi: una selezione personale
Martina e Chiara Cova, fotografate da Alessandro Sigismondi
Tengo a sottolineare che, per chi vive quotidianamente lo yoga in una shala locale, non c’è cosa migliore che continuare a seguire il proprio insegnante. Solo chi ci segue da tempo può davvero sapere come indirizzarci nei progressi della pratica. E’ anche vero, però, che se siamo praticanti intermedi/avanzati, in condizioni normali parteciperemmo a qualche workshop nel corso dell’anno, e se siamo insegnanti, sicuramente farebbe parte del nostro percorso iscriversi ad un intensivo. Il primo nome che desidero farvi non sarà una sorpresa. Si tratta di una insegnante con cui lavoro da tempo, e di cui ho moltissima stima: Martina Cova. Martina è una delle praticanti di Ashtanga Yoga più avanzate in Italia, ed è fisioterapista con già molti anni di esperienza sul campo. La sua specializzazione è il trattamento di chi pratica Yoga. Queste due qualità, unite alla sua capacità di trasmettere con un linguaggio semplice e diretto il complesso universo dell’anatomia, rendono i suoi seminari davvero preziosi. Proprio all’alba del primo lockdown, Martina ha sviluppato un videocorso davvero innovativo, Physioyoga Project. Il corso è un work in progress (si è completato il primo trimestre, e sta per partire il secondo modulo), ed ha la meravigliosa caratteristica di non essere live. Si tratta infatti di lezioni registrate, acquistabili e disponibili a vita, in modo tale da consentire al fruitore di poter studiare approfonditamente i diversi argomenti presentati. Le lezioni sono teorico/pratiche, e sono corredate da video aggiuntivi e email informative gratuite su ogni singolo argomento. Dall’articolazione della spalla a quella del ginocchio, dagli inarcamenti alle posizioni di apertura delle anche, Martina ci accompagna nell’approfondimento di ogni singolo distretto anatomico offrendoci spunti teorici e pratici di grandissima utilità. Un percorso che io consiglio vivamente a tutti gli insegnanti, per perfezionare le proprie conoscenze ed avere a disposizione una biblioteca virtuale di grandissimo valore.
Il mio secondo suggerimento riguarda ancora Martina Cova. Insieme alla gemella Chiara, Martina ha all’attivo un altro progetto di formazione molto ricco e interessante: la scholarship Twindharma. Se Martina vanta una preparazione tecnico-anatomica insuperabile, Chiara, insegnante di altrettanto talento e antropologa, ha una conoscenza delle radici e della filosofia dello Yoga molto profonda, non solo grazie alla sua laurea e all’argomento della sua tesi, ma anche grazie ai suoi numerosissimi viaggi in India. La scholarship delle sorelle Cova offre moduli che coprono entrambe queste aree, offrendo ai praticanti strumenti indispensabili all’insegnamento. Una parte dell’offerta si è trasferita, vista la situazione attuale, anche online, e avendo io stessa partecipato a molti dei loro seminari, posso garantire personalmente sulla qualità di quanto viene proposto. Non aspettatevi diplomi o pezzi di carta: a parte il fatto che non sono necessari a decretare un buon insegnante, qui ci si rivolge a chi insegna già, ma si è accorto dopo il solito Teacher’s Training da 200 ore, di sapere poco o nulla.
Il team dell’Hatha Yoga Project: da sin, Daniela Bevilacqua, Jim Mallinson, Jason Birch e Mark Singleton
Per il mio terzo suggerimento è necessaria la conoscenza della lingua inglese. Non di soli asana è fatto lo Yoga, come ben sappiamo, e negli ultimi dieci anni sono davvero moltissime le scoperte che hanno arricchito la conoscenza delle origini della pratica. L’Hatha Yoga Project della SOAS con base a Londra è sicuramente il progetto più interessante e autorevole. Si è concluso nel 2020, e ha dato vita a moltissime pubblicazioni (che, come sapete, sto in parte traducendo e riassumendo per voi) e ad eventi e seminari online di grandissimo rilievo. Tra questi, quelli organizzati da The Luminescent, il blog creato dal ricercatore Jason Birch e sua moglie Jaqueline Hargreaves sono di grande rilevanza per chi fosse interessato ad approfondire la storia di questa disciplina. Argomento utilissimo, tra l’altro, a contestualizzare la pratica e a distinguerla dai “pasticci” o misto fritto new age di cui purtroppo abbonda il web.
Seth Powell, fondatore di Yogic Studies
Un ulteriore strumento (quarto e ultimo suggerimento per ora) per comprendere la filosofia che sottende la nostra pratica è quello che ci viene offerto da Yogic Studies, un altro sito con collegamenti stretti alla SOAS inglese. L’offerta di corsi è davvero ricchissima, e si divide tra lezioni live e lezioni registrate che restano poi a disposizione dell’utente. I corsi offrono anche credits per chi avesse la necessità di mantenere viva la propria certificazione con Yoga Alliance. Ciò che più mi piace di questa offerta è la presenza di studiosi di chiara fama, a partire dal fondatore Seth Powell, dalla mentalità aperta e innovativa. Non solo storia e tradizione, ma anche e soprattutto visione aperta verso il futuro dello Yoga. I costi sono veramente contenuti, e la serietà e preparazione di questi accademici rendono questa spesa un investimento veramente valido – soprattutto se messo a confronto con la superficialità della maggior parte delle formazioni per insegnanti disponibili sul mercato. Seth ha collaborato, finché è stato possibile, anche con Mark Robberds, che lo ha ospitato durante i suoi intensivi. Yogic Studies è a mio parere un progetto da seguire con grande attenzione, soprattutto per la qualità degli insegnanti che mette a disposizione degli studenti.
Sharath Jois
E per quanto riguarda le lezioni online? Come vivere il quotidiano, in un momento in cui la riapertura dei centri Yoga sembra ancora lontana? Non posso che continuare a suggerirvi di continuare a frequentare il vostro insegnante di riferimento, per sostenere la vostra shala locale. Sarà quello il luogo che vi accoglierà quando potremo finalmente tornare a praticare in presenza. Sarà lì che troverete non solo la vostra community, ma anche gli insegnanti famosi che la vostra shala inviterà, per offrirvi spunti nuovi per la pratica. Senza questi luoghi, non avreste incontrato la pratica, e non avreste scoperto i suoi immensi benefici. Continuate a sostenerli. E se praticate Ashtanga Yoga, non perdete l’occasione di praticare sotto la guida di Sharath Jois, che periodicamente, grazie ad alcuni degli insegnanti certificati a lui più vicini, offre una bellissima Led Class seguita da una conferenza. Non lasciatevi intimidire, non è necessario essere acrobati per seguire il conteggio dei Vinyasa di Sharath. E’ sufficiente srotolare il tappetino, e seguire le sue precise indicazioni. Per qualche ora, vi sentirete a Mysore.
Nota: gli articoli tradotti e quelli autografati sono protetti da copyright. Per la riproduzione, scrivere a fmderrico@gmail.com. The Yoga Blog è un sito che offre gratuitamente una selezione di articoli, interviste, traduzioni di grande rilievo per la comunità yogica italiana. Ogni vostra donazione mi aiuta a portare avanti questo progetto, libero da qualsiasi influenza commerciale. Donate usando il pulsante PayPal che trovate in testa ad ogni articolo. Grazie.
NdT: In questi ultimi giorni avete trovato sul mio blog alcune traduzioni tratte da The Luminescent, il sito di Jacqueline Hargreaves dedicato all’Hatha Yoga Project della Oxford University. La descrizione degli asana e le istruzioni sulla loro esecuzione vi saranno senz’altro sembrate molto diverse da quelle che incontriamo in una classe di Yoga contemporanea. Anche se alcuni tra noi praticano Ashtanga, una tradizione considerata abbastanza solida, il sadhana del 18esimo secolo sicuramente mostracaratteristiche ben diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati. Ma cosa si prova a ricostruire praticamente una delle sequenze tratte da questi testi così antichi? Ci ha mai provato qualcuno? Ebbene la risposta è sì. Lo ha fatto Philippa Asher, insegnante di Ashtanga Yoga certificata da Sri K. Pattabhi Jois e Sharath Jois, una delle praticanti più avanzate nella pratica di questo metodo, che ha lavorato insieme a Jason Birch e Jaqueline Hargreaves alla ricostruzione di una sequenza di asana tratta da quello che molti pensano possa essere il famoso Yoga Kurunta, il testo segreto studiato da Krishnamacharya e da lui trasmesso al suo discepolo Pattabhi Jois. Il risultato è in un film, ma anche in questo articolo scritto da Philippa, che traduco per voi. Vi lascio in compagnia di Philippa e della sua incredibile esperienza.
“ekena pādena sthātavyam utthātavyaṃ tāṇḍavāsanaṃ bhavati” [Lo yogi] sarà in equilibrio su una gamba, e solleverà [l’altra. Questa] è Tāṇḍava, la posizione della danza [di Śiva’s].
E’ stato un grande onore essere coinvolta nella ricostruzione e nelle riprese cinematografiche degli āsanas tratti dall’ Haṭhābhyāsapaddhati, che (oltre a fornire istruzioni sugli altri aspetti della pratica dell’haṭha yoga) descrive 112 posture divise in sei gruppi, forse da intendersi come sequenze:
Supine (da 1 a 22) esercizi di cultura fisica e yoga āsana in cui petto, fianchi, spalle o volto sono generalmente rivolti verso l’alto, e spesso con parte della schiena appoggiata al suolo
Prone (da 23 a 47) movimenti e posizioni che richiamano la natura, in cui i fianchi, l’addome e lo sguardo sono generalmente rivolti verso il basso
Statiche (da 48 a 74) Asana familiari e ricercate (molte delle quali piuttosto complicate) solitamente tenute sul posto
Erette (da 75 a 93) movimenti danzati, oscuri gesti di cultura fisica e āsana complessi generalmente eseguiti in posizione eretta
Posizioni con le corde (da 94 a 103) Metodi elaborati per arrampicarsi, salire e mantenere l’equilibrio su una corda
Posture che Trafiggono il Sole e la Luna (da 104 a 112) yoga āsana avanzati e riconoscibili nella pratica moderna dello Yoga posturale.
L’esperienza della pratica delle posture dell’ Haṭhābhyāsapddhati Praticare una selezione di āsana così atipica e muoversi in un modo completamente nuovo, è stato molto divertente oltre che una vera sfida: avevo solo otto settimane per studiare e sperimentare oltre cento posizioni, tratte dalla traslitterazione e dalla successiva traduzione di un manoscritto Sanscrito del 18esimo secolo. Considerate che la mia pratica quotidiana (che eseguo fin dai tardi anni ’90) è il metodo dell’Ashtanga vinyāsa. Mi ci sono voluti 15 anni per apprendere e perfezionare la Prima, la Seconda e le Serie Advanced A e B, che ho appreso direttamente dai miei maestri in India (parliamo di circa 200 āsana). Ho perfezionato ogni postura prima di apprendere la successiva – quindi il processo di apprendimento in questo caso era completamente diverso. Va anche detto che lo specifico nome in sanscrito degli āsana non rappresenta necessariamente le stesse posture in tutte le tradizioni di haṭha yoga. Nomenclatura e āsana possono variare considerevolmente.
Ovviamente, in assenza di una pratica di āsana quotidiana e stabile, e anni di esperienza con tali posizioni a livello profondo, sarebbe complicato esplorare gli āsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati, figuriamoci eseguirle. Alcune sono molto complesse, altre sono semplicemente movimenti che non ho mai avuto bisogno di eseguire precedentemente, e alcune sono influenzate dalla cultura fisica, dalla ginnastica, dalle arti marziali e dalla danza. Avere una comprensione più sofisticata degli āsana, di come eseguirli ed esprimerli in sequenze logiche serve a rendere più accurato e credibile il lavoro intellettuale di ricostruzione da una pagina.
Sperimentare la varietà di posizioni descritte nel testo e osservare somiglianze e differenze tra ciò che consideriamo essere oggi un āsana, è un lavoro affascinante. Alcune delle posture dell’Haṭhābhyāsapaddhati si concentrano sulla forza, altre sulla flessibilità o sull’equilibrio, e infine se ne incontrano altre, piuttosto oscure, come la posizione del chiurlo (103) che io ho interpretato in questo modo: in squat, tenere un peso di pietra con i denti, passare le braccia intorno ai polpacci e stringere la parte esterna delle tibie con gli avambracci, sistemare una corda in ogni pugno e quindi arrampicarsi su queste corde. La posizione della stella polare (89), nella sequenza delle posture erette, potrebbe ben inserirsi in una performance parigina di can-can del 1830. E’ stato incoraggiante scoprire che molte delle posizioni descritte nel testo si sono evolute nelle posture che fanno parte delle sequenze dell’Ashtanga odierno, sia della Prima serie, che della Seconda, e infine delle serie Advanced A, B e C (e probabilmente di altre scuole di yoga posturale).
Ho studiato antropologia della danza, storia e arti dello spettacolo all’Università, e ho trovato intrigante l’elemento eclettico delle sequenze. Poiché alcune descrizioni suggeriscono movimenti che non sembrano affatto āsana, si pone la domanda: quando un movimento diventa un āsana? Per me, questo avviene quando c’è sincronia perfetta tra respiro, movimento e sguardo, quando l’allineamento è agevole (e consente al prāṇā di fluire liberamente), e la mente è quieta. Con questa idea in mente, e avendo incontrato molti adolescenti agili in India che avrebbero potuto dimostrare con facilità le forme descritte nell’Haṭhābhyāsapaddhati , mi sono chiesta se eseguire una postura quando la concentrazione, il respiro, la tecnica e lo stato mentale sono meno stabili possa ancora essere considerato haṭhā yoga, piuttosto che un esercizio.
Approccio all’apprendimento delle posture dell’Haṭhābhyāsapddhati Ho trascorso molto tempo a studiare le traduzioni scritte delle descrizioni degli āsana, quindi ho pensato a come potessero essere trasferite al corpo fisico. Ho cercato di non farmi influenzare dalle illustrazioni del Śrītattvanidhi, poiché in questi disegni ci sono molte licenze artistiche (che hanno forse operato delle mutazioni per aderire a riquadri con parti del corpo assai sproporzionate). Alcune raffigurazioni sfidano le leggi di gravità e dislocano le articolazioni, e nessuna delle illustrazioni mostra dove si trovi il pavimento. Non sono certa che siano di grande aiuto, ma dal punto di vista artistico sono meravigliosamente avvincenti.
Mi sono messa all’opera con ciascun āsana per ogni sezione (uno alla volta) e quindi li ho eseguiti in forma di sequenza dinamica. Dopo aver lavorato su tutte le sezioni, le ho praticate dall’inizio alla fine (come descritto nel testo): supine, prone, statiche, erette (non dispongo di una fune), e quelle che trafiggono il sole e la luna.
Eseguire tutte le sequenze consecutivamente è stato molto impegnativo (principalmente perché stavo lavorando in modo nuovo, e avevo solo otto settimane prima delle riprese). Nel sistema Ashtanga, si perfeziona ogni āsana prima di apprendere il successivo, e solo quando questo è in sincronia con il tristhāna, il vinyāsa e un allineamento fisico sicuro. In questo modo si arriva ad una pratica che diventa una meditazione in movimento. Ci vogliono decenni per arrivare a questa esperienza. Per questa ragione ho ritenuto fondamentale apprendere, memorizzare e praticare tutte le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati molte volte, in ordine, per sentire la progressione e il fluire di ogni sezione (e anche per sperimentare le contro-posizioni e capire come le posizioni lavorano dinamicamente ed energeticamente sul corpo, sulla mente e sul respiro). Sfortunatamente senza avere una fune appesa al soffito a portata di mano, non ho potuto sperimentare la sequenza con la fune, e ho riprodotto le posture al suolo. Sospetto che queste derivino dai movimenti di uno sport Indiano, il Mallakhamba, e possano essere stati utili per arrampicarsi sugli alberi (o scalare le mura durante la colonizzazione Britannica).
L’intero processo è stato per me come creare una coreografia da un foglio musicale Benesh (un pentagramma con barre, su cui si annota ogni movimento) … ma senza il coreografo, quindi con molto spazio per l’interpretazione personale. Penso che se le descrizioni degli āsana dell’Haṭhābhyāsapaddhati a sei diversi praticanti esperti, vedremmo sei diverse espressioni di ogni posizione.
Prendiamo ad esempio Matsyendrapīṭhaṁ (105); la traduzione dal Sascrito è curiosa, poiché dice che il tallone sinistro è all’ombelico, mentre il piede destro è sulla coscia sinistra. Ma il piede destro dovrebbe anche essere sotto il ginocchio sinistro (!), e si dovrebbe afferrare il ginocchio destro con la mano sinistra e tenere le dita del piede sinistro:
“Con il tallone sinistro all’ombelico [e] l’altro piede sulla coscia [opposta], si afferri l’esterno del ginocchio destro con la mano sinistra e si tengano le dita del [piede destro, che si trovano] sotto il ginocchio sinistro. [Lo Yogi] deve restare in [questa posizione. Questa] è la posizione di Matsyendra.”
Trovo più sensato: “Con il tallone sinistro all’ombelico [e] l’altro piede all’esternodella coscia [opposta], si afferri la parte esterna del ginocchio destro e con la mano sinistra si tengano le dita del [piede destro, che si trovano] sotto il ginocchio sinistro. [Lo Yogi] deve restare in [questa posizione. Questa] è la posizione di Matsyendra.”
Ho eseguito pūrṇa matsyendrāsana come nella Serie Advanced A dell’Ashtanga, con il piede sinistro all’ombelico, il piede destro a terra all’esterno della gamba sinistra, la mia mano sinistra che tiene il piede destro, e la mano destra sulla coscia sinistra. Jason l’ha ottimizzata, così la mia mano destra era a terra dietro di me (come nella illustrazione del Śrītattvanidhi ).
Un altro esempio è tānāsana (112), che io ho interpretato come samakonāsana (la spaccata laterale nella Serie Advanced B dell’Ashtanga), ma Jason ha ritenuto che fosse semplicemente un allungamento delle gambe (come quando ci si sveglia) dalla posizione precedente (śavāsana). L’interpretazione di Jason ha senso se la postura segue direttamente śavāsana, ma la frase ‘dopo aver aperto entrambe le gambe’ a me fa pensare ad altro. In ogni caso, se questa fosse la versione corretta, perché dovrebbe far seguito a śavāsana? Non potrebbe essere che ‘la posa delle gambe divaricate’ venga prima di śukyāsanaṁ (110) ‘posa dell’ostrica’? Da praticante che esegue con continuità la ‘posa dell’ostrica’, o kandapīḍāsana come è nota nella Serie Advanced C dell’Ashtanga, posso condividere che le anche devono essere incredibilmente aperte (cosa che si conquista quando si padroneggiano le spaccate laterali). Nel sistema di āsana dell’Ashtanga, samakonāsana viene praticata due āsanas prima di kandapīḍāsana.
Solo una delle tante domande che sono sorte da questa ricostruzione…
Sfide e differenze con la mia pratica quotidiana di āsana Dal punto di vista pratico, sono una donna occidentale che ha superato i 40 anni, e che cerca di trovare un senso alla traslitterazione e traduzione di un testo, probabilmente realizzato da un uomo indiano circa duecento anni fa, in un contesto e in una cultura molto diversi dai miei. Ho inoltre avuto modo di notare, nei vent’anni di vita che ho trascorso nel sud dell’India apprendendo lo yoga dai guru del posto, che il loro modo di esprimersi nel loro linguaggio è molto diverso dal mio. Quindi nell’estrarre un āsana da un testo indiano, mi sento di dire che prendere ogni parola in senso letterale e tradurla esattamente per ciò che è, potrebbe non rappresentare l’intenzione che l’autore/insegnante/praticante cerca di trasmettere. Forse ci sono sfide particolari nell’utilizzare il vocabolario sanscrito per descrivere il movimento? Un ulteriore esempio è la descrizione/traduzione di krauñcāsana (103): ‘dopo aver passato i pugni attraverso le cosce e le ginocchia’ – è chiaramente impossibile seguire alla lettera queste istruzioni.
Il testo offre informazioni molto limitate sulle posture, che sollevano (almeno per me) le seguenti domande: * Il testo è veramente stato scritto dal precursore delle sequenze, o da un esperto praticante āsana? * La numerazione all’interno delle sequenze/l’ordine degli āsanas sono affidabili? * Le descrizioni su come eseguire ogni singolo āsana sono accurate? * Una cosa è essere in grado di dimostrare perfettamente un āsana, ma essere in grado di riassumerla e spiegare come eseguirla, usando i vocaboli adatti, è tutt’altro talento. * Perché non ci sono indicazioni sul dṛṣṭi? * Per quanto tempo vanno tenute le posture? * Alcuni degli āsanas vanno eseguiti da entrambi i lati? * E’ necessario padroneggiare una postura prima di passare a quella successiva? * Modalità della pratica: una sessione separata ogni giorno per sei giorni, l’intera opera quotidianamente, o le sezioni sono destinate a praticanti diversi? Sei si, per chi e perché? * Le donne eseguivano queste posture? Avevano accesso all’insegnante? * Il praticante doveva continuare con queste sequenze nelle diverse fasi della sua vita, o erano usate in modo personalizzato, a seconda della sua età? * Come può una postura ‘trafiggere il sole e la luna’? A cosa ci si riferisce? * Si trattava di una pratica solitaria?
La mia esperienza nella pratica della sequenza di āsana dell’Haṭhābhyāsapddhati La pratica delle sequenze nella loro interezza è divertente, e collettivamente invitano a livelli equilibrati di forza, flessibilità, equilibrio, stamina e concentrazione. Tuttavia non sono così raffinate ed eleganti come quelle del sistema di āsana dell’Ashtanga che pratico quotidianamente (e che Pattabhi Jois impiegò 50 anni a perfezionare). Avrei bisogno di praticare le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati per lungo tempo per capire se hanno lo stesso effetto mentale, fisico ed energetico dell’Ashtanga; per vedere se anche in questo caso è possibile raggiungere il risultato di una meditazione in movimento. Inoltre, senza poter andare indietro nel tempo per sperimentare di prima mano come venivano insegnate e apprese le sequenze dell’Haṭhābhyāsapaddhati, non potremo davvero sapere come venivano praticate.
Naturalmente è una esperienza meravigliosa avere accesso ad un testo storico che descrive una vastità di āsana in una sequenza potenzialmente dinamica, che include molte delle posture che appaiono nel libro di Krishnamacharya YogaMakaranda (Il Nettare dello Yoga, Astrolabio, NdT) così come molte altre che ora fanno parte del sistema dell’Ashtanga sviluppato da Pattabhi Jois (e presenti in altre scuole di haṭha yoga contemporaneo).
E’ verosimile pensare che se Krishnamacharya ha avuto la possibilità di consultare l’Haṭhābhyāsapaddhati, il Śrītattvanidhi ed altre opere sul movimento, ne sia stato ispirato. Queste opere così affascinanti avrebbero, in questo caso, dato forma a molte delle pratiche di yoga posturale contemporaneo.
Philippa Asher è una delle poche donne al mondo (e l’unica in UK) Certificate all’insegnamento dell’Ashtanga Yoga secondo il metodo trasmesso da Sri K. Pattabhi Jois e Sharath Jois. E’ una delle praticanti più avanzate al mondo, avendo completato la Prima, la Seconda e le Serie Advanced A e B di questo metodo. Trasmette questo metodo insegnando in India, dove vive da vent’anni, e all’estero nei suoi apprezzatissimi workshops.
Philippa Asher in Ganda Bherundasana
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Da: The Luminescent – di Jason Birch (Post-doctoral Research Fellow, SOAS University of London) e Jacqueline Hargreaves (Independent Researcher, The Luminescent)
Torno a parlare del significato del Vinyasa, questa volta in modo storicamente documentato, per cercare di fare maggiore chiarezza tra quelle che sono le opinioni personali (seppure dettate da ragionamenti logici e da interpretazioni spirituali) e gli elementi storici che l’Hatha Yoga Project ci ha fornito negli ultimi 5 anni grazie agli approfonditi studi degli accademici di Oxford che hanno preso parte a questo affascinante programma. Quella che segue è la traduzione di un interessante articolo del blog The Luminescent, scritto a quattro mani da Jason Birch e Jacqueline Hargreaves, che traduco per voi. Ciò che trovo particolarmente interessante è l’interpretazione che Krishnamacharya ha dato a questo termine, che ha derivazioni tantriche più che yogiche. Un ulteriore affascinante aspetto non solo del Sanscrito e delle sue ambiguità interpretative, ma anche e soprattutto della creatività di questo incredibile maestro, a cui le pratiche contemporanee si riallacciano continuamente. La traduzione del testo di The Luminescent ha inizio dal prossimo paragrafo.
“Il termine vinyāsa è utilizzato in contesti molto diversi nella letteratura medievale. Nel descrivere un tempio (mandira) in cui uno yogin dovrebbe praticare, ad esempio, il Nandikeśvarapurāṇa specifica che dovrebbe avere un elegante decoro (ramyavinyāsa). In questo contesto, vinyāsa significa decoro o disposizione.
La parola vinyāsa appare raramente nei testi Yogici medievali. Compare tuttavia più frequentemente nelle sezioni rituali dei Tantra medievali. Ma ciò nonostante, non implica mai il movimento che congiunge il respiro alle posture (āsana) come avviene invece nello yoga contemporaneo.
Un eccellente opera di riferimento sul significato di parole particolari del Tantra è il Tāntrikābhidhānakośa. Questo corposo dizionario (in 5 volumi) è stato scritto da un team internazionale di accademici, considerati i massimi esperti in questo campo. Nel 5° volume, che è di prossima uscita, il termine vinyāsa viene presentato come sinonimo di nyāsa.
L’imposizione o il posizionamento rituale di mantra sul corpo o sulla rappresentazione materiale della divinità (a volte su un oggetto o su una superficie) per infondere il potere del mantra. E’ una pratica diffusa, tantrica e più genericamente Induista o Buddista.
Nelle discussioni sulla pratica di āsana a e altre tecniche nei testi di Yoga medievale il termine vinyāsa non viene usato. Tuttavia, quando le forme verbali relative (come vinyasya) entrano in uso, il significato è “sistemare o posizionare”.
Gosain Saargir, a Shaivite Yogi, seated on a Leopard Skin – Monkot, c 1700 – 21.2 x 17.3 cm Brush drawing with opaque pigments on paper
Nell’ Haṭhapradīpikā, ad esempio, vinyasya appare in una delle descrizioni di Siddhāsana: Avendo posizionato (vinyasya) la caviglia sinistra sul pene e l’altra caviglia su quella, questo è Siddhāsana.
“meḍhrād upari vinyasya savyaṃ gulphaṃ tathopari | gulphāntaraṃ ca nikṣipya siddhāsanam idaṃ bhavet” ||1.38|| Un esempio simile si trova nel Dattātreyayogaśāstra (133), che descrive il sigillo del mento Mahāmudrā come “fissare il mento al petto” ([…] cibukaṃ hṛdi vinyasya […]).
Questi significati medievali non si collegano all’utilizzo del termine vinyāsa nello yoga contemporaneo, in cui si intende “movimento” piuttosto che “fissare”. A. G. Mohan (2010: 29) spiega in modo succinto il significato di vinyāsa nella biografia del suo maestro Kṛṣṇamācārya:
“Una caratteristica unica del sistema di asana di Krishnamacharya era il vinyasa. Molti praticanti di yoga oggi conoscono senz’altro questa parola , che è largamente usata per descrivere lo ‘stile’ di una lezione, come ‘hatha vinyasa’ o ‘vinyasa flow’. Vinyasa è un elemento essenziale, e probabilmente unico, negli insegnamenti di Krishnamacharya. Per quanto ne so, egli fu il primo maestro nel secolo scorso ad introdurre questo concetto. Un vinyasa, essenzialmente, consiste nel muoversi da un asana, o postura del corpo, ad un altro, associando il respiro al movimento”.
Sebbene i commenti di Mohan non escludano un precedente medievale al Vinyasa di Kṛṣṇamācārya, dobbiamo ancora trovarlo in un testo medievale tantrico o yogico.
La ricerca del Dr James Mallinson e del Dr Mark Singleton sostiene ed elabora ulteriormente questi ritrovamenti. I due studiosi hanno investigato anche termini collegati, come vinyāsakrama, viniyoga epratikriyāsana. Quello che segue è un estratto da una nota del loro libro Roots of Yoga (2017):
“Il termine sanscrito vinyāsa utilizzato (con considerevoli varianti di significato) da Krishnamacharya e dai suoi studenti, per denotare uno stato all’interno di queste sequenze collegate, non appare con questo significato nei testi premoderni sullo Yoga. Le forme verbali relative (vinyāsa è una composizione nominale dalla radice verbale √as a cui si aggiungono i prefissi vi- e ni-), come l’assolutivo vinyasya, si trovano in una manciata di descrizioni di posture con il significato di “avendo posizionato [x su y]”, come Vasiṣṭhasaṃhitā 1.72 (3.6 “Avendo posizionato un piede su una coscia, e l’altro sotto l’altra coscia…”). Vinyāsa e le parole relative sono più comuni in testi tantrici, dove usualmente si riferiscono al posizionamento di mantra sul corpo. Il composto vinyāsakrama, che viene usato da Krishamacharya e dai suoi allievi per caratterizzare una particolare modalità per collegare posture, non si trova nei testi di yoga premoderni. Lo abbiamo trovato in 5 casi in opere tantriche. In quattro, si riferisce al posizionamento sequenziale di mantra; nel quinto, il commento di Kṣemarāja al verso 9 del Sāmbapañcāśikā, è utilizzato per riferirsi alla sequenza di passi attraverso i tre mondi intrapresi da Viṣṇu incarnatosi in Vāmana. L’uso moderno di vinyāsa è perciò una riassegnazione del significato di una parola comune in Sanscrito. L’uso nella parlata dello yoga contemporaneo del termine viniyoga (che in Sanscrito significa “appuntamento”, “impiego” o “applicazione”) per indicare uno yoga disegnato sulle esigenze individuali è simile a una riassegnazione, mentre la parola pratikriyāsana, utilizzata nella tradizione Krishnamacharya per denotare una “contro-posizione”, è un conio moderno che non ha precedenti in alcun testo Sanscrito premoderno”.
PS — tutto il lavoro di traduzione e naturalmente tutti gli articoli autografati sono realizzati senza alcun compenso proveniente da associazioni, istituzioni o enti privati. Questo blog è un mio impegno personale, portato avanti per la crescita della comunità Yoga in Italia. Le vostre donazioni mi aiutano a continuare questo progetto, e sono benvenute. Se volete contribuire e sostenere The Yoga Blog, usate il pulsante che trovate sopra ogni articolo. Grazie.
Referenze
Galloway, Francesca. 2016. Court Paintings from Persia and India 1500–1900. London: Francesca
Galloway.
Goodall, Dominic, and Marion Rastelli. 2013. Tāntrikābhidhānakośa. Ṭ-PH : dictionnaire des termes
techniques de la littérature hindoue tantrique (“A dictionary of technical terms from Hindu Tantric
literature”), Wörterbuch zur Terminologie hinduistischer Tantren III III. Wien: Verlag der
Österreichischen Akademie der Wissenschaften.
Mohan, A. G., and Ganesh Mohan. 2010. Krishnamacharya: his life and teachings. Boston:
Shambhala.
Mallinson, James, and Mark Singleton. 2017. Roots of yoga. London: Penguin Books.
Vinyāsa ( विन्यास in Sanscrito) è un termine sanscrito spesso utilizzato in relazione a certi tipi di yoga. Si riferisce alla transizione tra due differenti posizioni.[1]Vinyāsa ha molti significati: nyasa (stare) e vi (in modo particolare/speciale). Il termine Vinyāsa può essere anche utilizzato in riferimento ad uno specifico stile di yoga praticato come un solo respiro, legato a un solo movimento, (Wikipedia)
Mudra (devanagari: मुद्रा, IASTmudrā) è un gesto simbolico che in varie religioni viene usato per ottenere benefici sul piano fisico, energetico e/o spirituale. (Wikipedia)
Vinyasa e Mudra sono la stessa cosa?
Il Vinyasa è un gesto sacro? Qualche giorno fa, chiacchierando con Manuela e Stefania di Yogapodcast21100 mi è stata rivolta una interessante domanda. “Possiamo considerare il Vinyasa come una Mudra?”.
Krishnamacharya in Maha Mudra
Prendiamo in considerazione la definizione di Mudra, ovvero “gesto sacro”, o simbolico. Come riporta in modo molto sintetico Wikipedia, le mudra sono gesti – in alcune tradizioni spesso associate agli asana – che si ritiene abbiano benefici particolari su corpo e mente. E il Vinyasa, tra tutti, non è forse un gesto dai benefici incredibili?
Siamo abituati a pensare che le mudra siano eseguite esclusivamente con le mani. In realtà, sappiamo che sia negli Hatha Yoga Pradipika che nei testi di Krishnamacharya, alcuni asana sono considerati vere e proprie mudra – solo che per eseguirle abbiamo bisogno di tutto il corpo. Un esempio classico è Yogamudrasana, considerato un vero e proprio “sigillo” di salute e longevità, nonché uno degli asana più efficaci per risvegliare la kundalini. Un’altra mudra molto famosa è Maha Mudra, che nell’esecuzione somiglia a Janu Sirsasana, ma eseguita con un controllo particolare sui bandha e sulla ritenzione del respiro.
Il Vinyasa, però, non è un asana o un gesto statico: è un movimento che avviene all’interno del respiro, dunque dinamico. Eppure, anche all’interno di questa dinamicità, nella radice stessa della parola (nyasa, “stare” e vi “in modo particolare”) troviamo una forte assonanza con il significato del termine mudra. Il Vinyasa è, soprattutto all’interno di alcune tradizioni, il collante tra una sequenza di posture: e al tempo stesso all’interno di ogni postura troviamo un susseguirsi di microscopici vinyasa, poiché ad ogni respiro, anche nella fase di stasi dell’asana, il nostro corpo continua a muoversi, seppure di pochi millimetri a volte, approfondendo la posizione.
Il Vinyasa, elemento fondamentale della pratica
Dunque il Vinyasa è, soprattutto nell’Ashtanga, non solo una transizione tra posture, ma un gesto di fondamentale importanza: fin dal primo respiro associato al movimento (il famoso “ekam inhale”), è un simbolo del risveglio della nostra consapevolezza. Il respiro non è più solo un avvenimento “automatico” del nostro corpo, ma diventa un atto conscio, che ha il compito di guidare il movimento e la sua durata. Sempre nell’Ashtanga, ma anche nel Vinyasa Krama, ogni singolo movimento è associato ad un respiro.
I Vinyasa non sono dunque soltanto “i passaggi” tra un asana e l’altro (anche se nell’accezione comune in occidente questo è il significato che viene associato al termine), ma ogni singolo movimento di ingresso, stasi ed uscita da un asana. In questo senso è più facile comprenderne la sacralità, o anche più prosaicamente il simbolismo: ekam (il primo vinyasa di surya namaskar, inspiro, braccia verso l’alto) rappresenta il risveglio, la rinascita, l’apertura. Dve, il secondo vinyasa, espiro, mi piego in avanti e verso terra, rappresenta il lasciar andare, il tornare a se stessi, verso l’interno, nelle profondità del se. E così via, per ogni singolo movimento della pratica.
Ecco perché spesso, quando mi si dice che l’Ashtanga Yoga è una pratica prettamente fisica, sorrido. Personalmente, ritengo che l’Ashtanga Yoga sia una delle pratiche più spirituali al mondo, perché vede nella sincronia tra movimento e respiro non un semplice atto fisico, ma una rappresentazione (anzi, un’azione) del corpo come custode dello spirito, come “porta” di accesso allo spirito. Proprio tramite il Vinyasa, che diventa, almeno per me, la mudra più significativa e, al tempo stesso, più accessibile.
Se limitiamo la nostra curiosità nei confronti dello Yoga ai suoi aspetti più materiali, rischiamo di perdere il grande messaggio di questa pratica, che passa certamente attraverso il corpo, ma solo per curarlo prima, e trascenderlo poi.
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Chi di voi non ha in qualche modo sentito le proprie certezze scuotersi quando una famosa insegnante di Ashtanga Yoga ha dichiarato “i bandha non esistono?”
Beh, io qualche domanda me la sono fatta, e nella mia esperienza ventennale devo dire che i bandha, seppur ineffabili, mi sono sempre sembrati molto reali. Certo, non sono l’elemento chiave per eseguire una verticale perfetta, ma senza i famigerati bandha la mia pratica risulta decisamente più pesante e faticosa. Mi sono dedicata quindi ad una ricerca approfondita e ho trovato un utilissimo articolo di David Keil, esperto insegnante di Yoga e bodyworker, nonché per anni braccio destro di John Scott durante i suoi teachers’ trainings. Ve lo traduco sperando come sempre di esservi utile! E vi raccomando di seguire il sito di David, YogaAnatomy, per essere sempre aggiornati sull’interazione tra anatomia classica e Yoga.
“Ciao David, ho appena letto il commento di una insegnante di Yoga che afferma che i bandha sono un mito, e che attivare i muscoli perineali alla base della pelvi non è di alcun aiuto nell’esecuzione di jump back e through. Cosa ne pensi?”
L’Hatha Yoga Pradipika, uno dei principali testi dedicati alla pratica degli asana e del pranayama, descrive uddiyana e mula bandha come pratiche che coinvolgono mente e corpo nel direzionare la nostra energia (nel testo ovviamente non si fa menzione di jump back e through). Ma allora, i bandha si attivano a livello muscolare o energetico? Direi che il concetto di bandha copre diverse aree: corporea, energetica, e anche metaforica. Sebbene la parola bandha venga tradotta abitualmente come “chiusura”, “blocco”, o “lucchetto”, se dovessi definire il concetto in modo più generico direi che i bandha sono “consapevolezza interiore concentrata, con una direzione”.
Quando facciamo riferimento ai bandha, solitamente parliamo di Uddiyana e Mula Bandha. L’Hatha Yoga Pradipika descrive così uddiyana bandha: “Il portare all’indietro l’addome al di sopra e al di sotto dell’ombelico, è chiamato uddiyana-bandha.” (Ch.3: Vs.57 – Mohan translation)
E parla così di mula bandha: “Premere il perineo con il tallone, contrarre il perineo e dirigire apana verso l’alto. Questa azione è chiamata mula-bandha.” (Ch. 3: Vs.:61 – Mohan translation)
Corporeo
No, il jump back non è lo scopo della contrazione muscolare e della concentrazione mentale che nell’Hatha Yoga Pradipika descrivono mula e uddiyana bandha. Il testo parla invece di una sottile pratica interna che sostiene lo stato meditativo. Tuttavia, quelle stesse contrazioni muscolari, eseguite con attenzione possono influenzare anche la nostra attività corporea. Contrarre questi muscoli può quindi avere un effetto sul controllo dei nostri movimenti? Assolutamente sì. Chiunque abbia assistito ad una performance di balletto o ginnastica artistica sa quali effetti abbia questo sottile controllo sui movimenti del corpo.
Cerchiamo di comprendere la corporeità dei bandha. Fisicamente, la descrizione di mula bandha nell’Hatha Yoga Pradipika si traduce nel dirigere la nostra attenzione nell’area che circonda il perineo. Il principale gruppo di muscoli che troviamo in quel punto è il gruppo dei muscoli pubococcigei (PCM). L’azione di questi muscoli, quando si contraggono, è di sollevare il pavimento pelvico, e nel far ciò fornire supporto muscolare agli organi viscerali situati in quell’area. Indirettamente, i PCM sostengono e stabilizzano la colonna, perché la pelvi sostiene la colonna vertebrale.
Per quanto riguarda uddiyana bandha l’Hatha Yoga Pradipika lo definisce come il dirigere la nostra attenzione verso gli strati profondi della muscolatura addominale. Se ci spingiamo un po’ più in profondità rispetto al muscolo retto addominale, troviamo il trasverso e l’ileopsoas. La principale azione del trasverso è comprimere l’addome e stabilizzare il tronco. L’azione primaria della contrazione dell’ileopsoas, invece, è di flettere l’articolazione dell’anca. Lo Psoas major, parte dell’ileopsoas, è il muscolo che da’ inizio all’atto di camminare.
Potete immaginare che se combiniamo tutta questa azione muscolare per stabilizzare la colonna vertebrale a livello degli strati più profondi del corpo, e poi utilizziamo un muscolo potente come l’ileopsoas per dare inizio al movimento, l’impatto che ne risulta in termini di leggerezza e stabilità in movimenti come il jump back e through è di notevole importanza. Ovviamente i bandha non rappresentano la soluzione istantanea al jump back. E’ l’interazione tra l’impiego di tutti i gruppi muscolari coinvolti, della forza necessaria e della tecnica appresa nel tempo che ci portano all’esecuzione di un jump back. I bandha influenzano quindi la sensazione e l’aspetto dei nostri jump back. Come diamo inizio ad un movimento, e i muscoli da cui partiamo per muoverci, sicuramente ne influenzano la leggerezza e l’armonia.
Energetico
Ora proviamo ad esplorare l’idea dei bandha come un modo per dirigere la nostra energia. Se riteniamo che lo Yoga non sia solo asana, ma che sia un percorso verso una maggiore concentrazione e quindi verso uno stato di meditazione, allora abbiamo bisogno di strumenti che costituiscano un ponte per connetterci da un punto all’altro. Potremmo scegliere di iniziare il nostro percorso con gli asana, perché il corpo è qualcosa verso cui è facile dirigere la nostra attenzione. Mantenere questa attenzione, tuttavia, può essere difficile; alla mente piace vagare qua e là. Utilizzare uno strumento più sottile come il respiro può approfondire la nostra attenzione rilassando il nostro sistema nervoso, sostenendo il nostro livello di attenzione. E i bandha fanno parte del respiro.
Usiamo la contrazione muscolare per gestire il respiro durante la pratica degli asana. Il respiro invia informazioni al sistema nervoso, e viceversa. Il controllo muscolare del respiro che deriva dal concetto di bandha influenza la velocità e la qualità della respirazione. In altre parole, dando una diversa forma o tensione al contenitore addominale ha un effetto su come tale contenitore si muove, cosa che a sua volta influenza la sensazione del nostro respiro. Il modo in cui gestiamo il nostro respiro influenza il sistema nervoso, e in tal modo influenza la nostra esperienza a livello energetico.
Se guardiamo un film del terrore, cosa ci accade a livello muscolare e respiratorio nel momento in cui il killer appare improvvisamente da dietro la porta? Molto probabilmente i nostri muscoli si contraggono e il nostro respiro si fa più rapido. L’esperienza di quel particolare momento è proprio di… terrore! Per contro, immaginiamo di essere sulla spiaggia e di osservare un bel tramonto. In questo caso i nostri muscoli sono rilassati e il nostro respiro è più lento. La qualità della nostra esperienza è completamente diversa. Possiamo dunque utilizzare l’intenzione per contrarre sottilmente determinati muscoli, in modo tale da influenzare il nostro sistema nervoso, per creare un particolare tipo di esperienza.
Oggetto di meditazione
Un altro modo per concettualizzare i bandha è definirli “oggetto di meditazione”, invece che un trucchetto magico per eseguire un bel jump back. Se l’esplorazione dei bandha mantiene la nostra attenzione verso un’unica direzione, allora siamo sulla strada giusta, la strada dello Yoga, perché stiamo cercando di dirigere la nostra attenzione verso un unico oggetto. In questo caso, i bandha diventano il nostro “oggetto di meditazione”.
Metaforico
Mi auguro che la pratica dello Yoga ci aiuti a raggiungere un maggiore equilibrio nella nostra vita. E’ certamente uno dei benefici che viene maggiormente citato da chi lo pratica. L’idea di un bandha della “radice” e di un bandha che ci “eleva” può diventare un modo per descrivere la nostra esplorazione dell’equilibrio. Ma equilibrio tra cosa, esattamente? Suggerirei un equilibrio tra sforzo e agio, o stabilità e leggerezza, o radicamento ed elevazione. In senso più pratico o mondano, potremmo definirlo un equilibrio tra un’eccitante avventura e una stabile dimora. E’ prana e apana, Yin e Yang, o qualunque altra definizione utilizzata per descrivere energie apparentemente opposte.
In conclusione…
… I bandha sono un concetto dalle molte facce, che possiamo utilizzare in diversi aspetti della nostra pratica; dai jump back alla meditazione. Non esiste una sola, semplice risposta che possa definire l’idea o gli effetti del lavoro sui bandha. L’evoluzione e la crescita della nostra pratica determinano la nostra esperienza dei bandha.
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Alzi la mano chi non si è mai chiesto, dopo qualche anno di Prima Serie: “Sono pronto per la Seconda Serie?”. Io me lo sono chiesta mille volte, negli anni, e quando ho iniziato a praticarla devo dire che tutto avevo considerato tranne che gli aspetti psicodinamici che la sequenza di posizioni della Seconda Serie spalanca davanti al praticante. Quando ho letto il blogpost di Ty Landrum, ieri, mi si è aperto un nuovo universo di comprensione sulle esperienze degli ultimi anni, e ho pensato di condividere le riflessioni di Ty con tutti voi, traducendo il suo meraviglioso articolo. Eccolo in italiano, un vero must per tutti i praticanti che si affacciano a questa impegnativa sequenza.
“La curva di apprendimento della Prima Serie è ripida. Mentre ci trasciniamo sui faticosi declivi della pratica, incontriamo una serie infinita di false vette. Ogni volta che ci illudiamo di aver raggiunto la cima, ne appare un’altra, che appare ancora più irraggiungibile all’orizzonte. Se proseguiamo il nostro duro cammino attraverso queste esperienze, ci accorgiamo gradualmente che le cime sono infinite. C’è sempre un livello superiore, un altro modo per eseguire la sequenza in modo più elegante, più vibrante, con maggior concentrazione e consapevolezza. Non completiamo mai davvero la Prima Serie, piuttosto continuiamo a riscoprirla, e a riscoprire noi stessi in questo processo. Questa è forse la cosa più importante da tenere a mente quando arriviamo a porci la fatidica domanda che ogni praticante di Ashtanga si ritrova ad affrontare: Sono pronto per la Seconda Serie?
Ty Landrum in Kapotasana (by Alessandro Sigismondi)
Non c’è una risposta facile a questa domanda, né un’unità di misura che possiamo utilizzare per decidere con sicurezza. Nella comunità Ashtanga, esistono alcuni standard posturali, che hanno senso in alcuni contesti, ma che sono troppo rigidi e superficiali per essere realmente applicabili. Funzionano per un piccolo gruppo di persone che rappresentano questi standard, ma impediscono agli altri, che per altri aspetti sono pronti per questa esperienza, di abbracciare il potenziale della pratica nel suo insieme. Alcuni corpi non riusciranno mai a flettersi nelle migliori forme della Prima Serie, ma ciò non significa che non siano pronti ad avanzare sia fisicamente che mentalmente nella pratica.
Tuttavia c’è una buona ragione se la Prima Serie è, appunto, prima nella lista delle sequenze Ashtanga. A livello psichico e fisico, la Prima Serie comprende le fondamenta su cui costruire le sequenze successive. E se queste fondamenta non sono solide, l’intero edificio sarà traballante e costantemente in pericolo di collassare.
Per capire se si è pronti per la Seconda Serie, è necessario comprendere alcuni aspetti psicodinamici della pratica. Il primo è che la Prima Serie è stata sviluppata specificatamente per rafforzare apana, la forza discendente e dissolvente che rimuove gli eccessi fisici e mentali. Apana è la forza che ci consente di lasciar andare pensieri, emozioni e ricordi di cui non abbiamo più bisogno, così da poter andare avanti nelle nostre vite e continuare ad evolverci. Tutto quel flettersi, strizzarsi, torcersi e arrotolarsi che caratterizza la Prima Serie ha lo scopo di consolidare e amplificare la forza apanica, con l’obiettivo di creare più concentrazione, stabilità e resilienza mentale.
La Seconda Serie, d’altro canto, è disegnata per esumare i sedimenti delle esperienze passate, rimuovere dai nostri recessi corporei frammenti di pensieri, sensazioni e ricordi non elaborati rilasciandoli nello spazio aperto della consapevolezza. Se la forza apanica è forte, dissolverà questi sedimenti e noi esperiremo il processo come una sorta di liberazione fisica. La forza creativa confinata all’interno di quei frammenti mentali sarà riassorbita dal corpo sottile, che in risposta si illuminerà, risplendendo di una rinnovata carica creativa. In termini di psicologia yogica, questo momento di assorbimento è chiamato hatha-paka, o assimilazione improvvisa, che è uno dei più cruciali processi di liberazione della mente condizionata.
Questo processo non avviene se la forza apanica della mente non è sufficientemente forte. E questo è il motivo per cui il sistema dell’Ashtanga Yoga enfatizza l’elaborazione della forza apanica fin dall’inizio. Se questa forza non è sufficiente, la mente conscia viene esposta inaspettatamente a ricordi latenti e non elaborati, il risultato può essere abbastanza traumatico. Incapace di distaccarsene e di restare solidamente ancorata, la mente si impiglia tra i ricordi e le storie drammatiche ad essi collegate. E per questa ragione, rischia di infiammarsi, se non addirittura di perdersi.
Il rilascio improvviso di ricordi non elaborati non è da prendersi alla leggera. Eppure la leggerezza – unita ad un senso di distacco e temperata dalla meraviglia – è precisamente il metodo dell’hatha-paka. Per praticare questo metodo è necessaria una forza apanica notevole. E’ importante essere ben radicati nel proprio corpo, e questo è proprio l’obiettivo della Prima Serie.
Ovviamente c’è chi è ben radicato nel proprio corpo pur non avendo completato le difficili forme della Prima Serie. Alcuni corpi non riusciranno mai ad assumere queste forme, per quanto la loro forza apanica sia evidente. Quindi l’abilità tecnica nell’esecuzione della Prima Serie è un modo alquanto superficiale per giudicare l’eventuale prontezza ad avanzare nella Seconda Serie. Piuttosto una notevole forza apanica, in grado di sostenere improvvisi ricordi e memorie latenti, è un metodo più pertinente per verificare se siamo in grado di muoverci verso la Seconda Serie. Ma anche questa unità di misura non è sufficiente da sola.
Esistono persone che hanno una forte consapevolezza corporea anche prima di iniziare a praticare Ashtanga Yoga. Magari arrivano da altre pratiche fisiche, o hanno un carattere solido per natura. Tuttavia anche per loro potrebbe non essere prudente affacciarsi subito alla Seconda Serie, perché in questa sequenza, se eseguita in modo tradizionale, sono presenti sfide fisiche importanti. E a meno che non sia stata sviluppata l’integrità fisica che deriva dalla pratica della Prima Serie per un sufficiente periodo di tempo, la Seconda Serie può esporci ad un notevole rischio di infortuni. Quindi neanche avere una notevole forza apanica può essere un sufficiente metro di giudizio per intraprendere la Seconda Serie. E’ necessario anche avere una base forte a livello di sostegno posturale, aspetto che deriva da una pratica costante della Prima Serie.
Eppure ci sono moltissime posture e molti movimenti della Seconda Serie che possono essere di grande beneficio se adattati al corpo e alle condizioni anche del praticante meno esperto. Nessuna regola di prodezza posturale dovrebbe impedire a questi praticanti di trarre beneficio da queste posizioni che hanno un incredibile potenziale terapeutico. Quindi la prontezza nell’apprendere alcune posizioni della Seconda Serie non può essere soggetta a valutazioni che combinano forza apanica e supporto posturale.
E c’è un predominante motivo psicodinamico per cui i più seri praticanti di Ashtanga iniziano a sperimentare alcune versioni adattate della Seconda Serie dopo due o tre anni, indipendentemente dal livello raggiunto nella Prima Serie. E questo motivo è l’equilibrio. Con la sua pronunciata enfasi sulla forza apanica, la Prima Serie non è una pratica bilanciata. Al contrario è un intelligente elemento di base nello sviluppo di una pratica bilanciata. Se praticata sufficientemente, la Prima Serie raccoglie e consolida le nostre energie fisiche, incoraggia la concentrazione, la stabilità e la resilienza mentale. Ma se eseguita all’esasperazione, o troppo a lungo, può incoraggiare una eccessiva introversione, rigidità mentale e persino dogmatismo.
E nemmeno questa è una prerogativa esclusiva della Prima Serie. Qualsiasi pratica fortemente apanica, se portata all’esasperazione, può portare a squilibri mentali. Lo si evince in chi diventa eccessivamente chiuso, introverso, distante e fortemente radicato nelle proprie idee e percezioni. All’estremo, lo squilibrio di tipo apanico si manifesta in estremismo, che è uno degli ostacoli più seri nello Yoga. Quindi, anche se non abbiamo grandi ambizioni nel collezionare molte posture, è un bene considerare di praticare una Seconda Serie modificata, semplicemente per invitare una maggiore apertura e ricettività nella pratica. In altre parole, è bene considerare di bilanciare la pratica apanica della Prima Serie con una sequenza che incoraggi il flusso del prana, la corrente ascendente che guida la nostra immaginazione, ispirazione, creatività e l’abilità di vedere le cose da diversi punti di vista.
Per i praticanti di Ashtanga, questo si traduce nell’aggiungere alcune versioni delle posture praniche che appaiono all’inizio della Seconda Serie, adattate intelligentemente alle proprie abilità. Si tratta di posizioni che interessano una maggiore apertura, maggiore allungamento ed estensione delle anche e della colonna, l’esatto opposto delle flessioni e delle chiusure della Prima Serie. Incoraggiano una maggiore attenzione al movimento verso l’alto e verso l’esterno, e stimolano correnti sensorie più lunghe e profonde nel corpo. Se combinate intelligentemente con la sequenza della Prima Serie, queste posizioni ci aiutano a trovare maggiore equilibrio all’interno della pratica.
La Prima Serie è invece una pratica fondamentale per coloro che hanno bisogno di governare le proprie correnti psichiche, trovando maggiore solidità nel corpo, preparandosi fisicamente e mentalmente per la pratica profonda e faticosa della Seconda Serie.
In realtà, ci sono motivi psicodinamici che sostengono l’inserimento intelligente di alcune accessibili versioni delle posture praniche della Seconda Serie fin dall’inizio della pratica. Può trattarsi dell’urgente necessità di rompere strati di stagnazione mentale, di sollevare il morale o rivolgere l’attenzione all’esterno. Come abbiamo visto, potrebbero esserci necessità di confrontare problemi apparentemente solo fisici, come il dolore cronico o la tensione nelle spalle e nelle anche. C’è più di una ragione, quindi, per inserire anche precocemente alcune posizioni della Seconda Serie nella pratica dell’Ashtanga Yoga.
Per concludere, non esiste un semplice criterio, che possiamo descrivere in termini di prodezza posturale, per determinare la nostra prontezza ad entrare nella Seconda Serie. Ci sono molte buone ragioni per inserire posizioni della Seconda Serie nella nostra pratica prima di aver raggiunto i canoni convenzionali della prodezza tecnica. Un insegnante esperto può aiutarci a decidere ma dobbiamo sempre ricordare che nessuno può prendere questa decisione al nostro posto. Naturalmente sarebbe sciocco ignorare la tradizione, e sarebbe da arroganti ignorare il consiglio di chi è più esperto di noi. Ma ciò che più conta è che sarebbe scandaloso arrendersi al giudizio delle convenzioni, e affidare ad altri la propria evoluzione fisica e psichica.
Per camminare sulla strada dello Yoga, senza finire fuori pista, dobbiamo sviluppare il potere del discernimento, viveka-khyati, così da inanellare una sequenza intelligente di azione e reazione. Diversamente, saremmo vittime dei raggiri della nostra mente, che non si stanca mai di imporre regole e costrutti sulle nostre esperienze, e che sarà lieta di impedirci di sperimentare nuove aperture di spirito. Per immergerci in questo spirito – che è lo spirito più autentico dello yoga – dobbiamo continuare ad abbandonare le nostre idee e i nostri preconcetti, insieme a quelli altrui, e guardare nuovamente, senza paura e senza inganno, nel centro luminoso della nostra esperienza, continuando ad avere illimitata e pura fiducia in ciò che siamo.
Quindi se avete trascorso un po’ di tempo insieme alla Prima Serie, e vi state chiedendo se siete pronti ad andare avanti, abbandonate regole e precetti. Invece che imporre un criterio esterno, che considera solo l’aspetto fisico e posturale, pensate all’impatto che la Seconda Serie potrebbe avere sulla vostra mente. Sappiate che non potrete predire o controllare tale impatto. E sappiate che, nel praticare la Seconda Serie, vi esporrete all’ignoto, e sentirete nuove dimensioni del vostro corpo e della vostra psiche. Siete pronti a confrontare i demoni che vi aspettano nell’ombra? Siete pronti ad abbracciarli con compassione, ad accettarli come parte di voi, senza restare impigliati nei drammi che potrebbero evocare? Con queste domande in mente, potete finalmente chiedervi: Sono pronto per la Seconda Serie?”
– Ty Landrum, direttore di The Yoga Workshop, Boulder
Lo Yoga è vivo e sta benone. Questo articolo nasce dalla lettura di un pezzo molto negativo sullo Yoga, apparso recentemente su facebook. Ebbene la mia opinione è agli antipodi (e ancora una volta, per aver espresso con cortesia un’idea diversa, sono stata bannata dall’autrice del pezzo… un gesto che si commenta da sé).
Se cerchiamo lo Yoga al di fuori di noi, se non abbiamo la perseveranza di confrontarci con la pratica ogni giorno, rimarremo sempre delusi. Se dallo Yoga ci aspettiamo il miracolo del risultato senza il lavoro necessario per arrivarci, non troveremo le risposte alle nostre domande. Se non abbiamo la perseveranza di seguire una scuola, una tradizione, per un tempo sufficientemente lungo (e parlo di anni, non di pochi mesi), non riusciremo mai a carpirne l’essenza. Se pensiamo che lo Yoga sia circo, festival, leggings colorati (che peraltro a me piacciono moltissimo), e ci meravigliamo che la pace dei sensi possa trovarsi lì, decisamente ne avremo una percezione distorta.
Sono stata fortunata: ho sempre avuto una propensione per la disciplina. Quando ho iniziato a praticare venivo da un passato sportivo (come ginnasta) e sapevo che, senza applicazione costante, non avrei ottenuto alcun risultato. Sapevo anche che, pur mettendo nella pratica tutta la mia passione e dedizione, il risultato avrebbe potuto essere diverso da quello che mi aspettavo (e certo non mi riferisco solo agli asana!). Credo che in molti, ultimamente, si avvicinino allo Yoga sperando nel “miracolo” della soluzione immediata ai propri problemi fisici e/o esistenziali e, con queste elevate aspettative in testa, ne restino altrettanto rapidamente delusi. Lo Yoga dà molto, è vero, ma solo se si è disposti a dargli altrettanto. Solo attraverso la disciplina e la volontà di andare avanti, affrontando sul percorso gli inevitabili ostacoli (incluse le tante delusioni), riusciremo nel tempo a comprenderne il valore.
Ho incontrato tanti maestri. Alcuni meravigliosi (e sono quelli che mi hanno dato la forza di continuare il percorso), altri forse discutibili. Ma se comprendiamo che ognuno di noi segue il proprio dharma, e che ogni essere vivente su questa terra sta facendo del suo meglio con gli strumenti che gli sono stati affidati, riusciremo sempre a trarre da ogni incontro una lezione importante. Su come vorremmo (e come non vorremo mai) essere. Su come possiamo fare di più, su come possiamo stare (e far stare) meglio. Su quali energie desideriamo attrarre, e da quali vogliamo tenerci a distanza.
Forse quel maestro ci ha deluso. Quel festival ci è sembrato una buffonata. Instagram ci sembra una parata di acrobati (ma ricordiamo che anche migliaia di anni fa artisti sconosciuti raffiguravano gli Yogi nelle loro complesse posizioni in statue e sulle mura dei templi…). Non smettiamo di cercare. Magari nella shala di quel maestro incontreremo qualcuno che ci suggerirà una scuola dove ci sentiremo a casa. A quel festival troveremo un libro di filosofia indiana che ci aprirà una nuova visione. Su Instagram troveremo una foto che ci ispirerà a seguire una tradizione.
E soprattutto, pratichiamo. Tutti i giorni, in ascolto. Senza guardare cosa fanno gli altri, a quale posizione sono arrivati, se riescono a fare una verticale o kapotasana. Pratichiamo e sentiamo cosa ci trasmette quello che riusciamo a fare. Ascoltiamo il corpo negli asana e controlliamo la mente con il respiro, con i mantra, con la meditazione. Seguiamo un maestro con rispetto, permettiamogli di conoscerci (e di conoscerlo) frequentandolo con continuità. Tutto il resto, come diceva Sri K. Pattabhi Jois, è circo.
Susanna Finocchi
Ashtanga Yoga Follonica ha ospitato recentemente Susanna Finocchi, KPJAYI Level 2, co-fondatrice di Ashtanga Yoga Copenhagen per un meraviglioso seminario. Sono state giornate intense di pratica, filosofia, chanting. Un gruppo di splendidi yogi, animati dal desiderio di affrontare se stessi sul tappetino e fuori, ha portato un’energia bellissima a testimonianza della vitalità dello Yoga contemporaneo. Ma soprattutto una grande maestra, che da decenni vive quotidianamente la tradizione dell’Ashtanga Yoga, ci ha trasmesso insegnamenti resi attuali dalla sua esperienza diretta e continua con la fonte. E questo per me è Yoga autentico, l’unico che mi interessa.
Susanna tornerà da noi ad agosto, per una intera settimana Mysore. Abbiamo condiviso con lei sudore e risate, e non vediamo l’ora di tornare a praticare sotto la sua guida esperta, paziente, profonda e autentica. Con lei, lo Yoga è veramente vivo e sta benone.
Ancora più importante, Ashtanga Yoga Copenhagen ospiterà una delle tappe europee di Sharath Jois. Una ragione in più per avvicinarsi alla fonte di questa meravigliosa disciplina.
(nella foto sopra: Susanna Finocchi in Galavasana. Stay tuned per le sue nuove date a Follonica!)