
Anthony “Prem” Carlisi
Ricerca: una parola importante, soprattutto quando parliamo di Yoga. Forse non tutti sanno perché, inizialmente, Sri K. Pattabhi Jois chiamò la sua Shala “Ashtanga Yoga Research Institute”. Negli anni, e con il passaggio del testimone a Sharath, questa istituzione mutò il suo nome in KPJAYI, K. Pattabhi Jois Ashtanga Yoga Institute. A raccontarci cosa è cambiato, cosa è rimasto dell’originario intento di ricerca di Guruji, è Anthony Prem Carlisi, uno dei primissimi studenti di Guruji. Prem inizia a praticare Ashtanga nel 1978, insieme al primo gruppo di studenti di Pattabhi Jois. Negli anni, è diventato uno dei più noti insegnanti di Ashtanga Yoga al mondo, e ha fondato un centro rinomato a Bali, che mantiene viva la tradizione di Guruji. Pochi giorni fa, Prem ha rilasciato una bellissima intervista a Scott Johnson, titolare di Stillpoint Yoga London, attualmente una delle Shala più frequentate a Londra, dove maestri come John Scott spesso conducono lezioni e workshop. Scott (che ho già tradotto su queste pagine) e Prem si conoscono da molti anni, e questa intervista è un racconto intimo e toccante sull’Ashtanga Yoga e come questa disciplina, animata da un forte spirito di ricerca, abbia sostenuto Prem nelle sue vicissitudini esistenziali. Il racconto di Prem è anche un bellissimo resoconto sulle intenzioni di Guruji e sull’evoluzione del suo metodo: le sue affermazioni sono a volte molto forti, e credo sia il un modo per stimolarci alla riflessione, all’approfondimento e alla ricerca che dovrebbe animare tutti i praticanti di Yoga. L’invito è di non fermarsi mai accettando senza spirito critico quanto ci viene insegnato da un maestro, ma di proseguire la sua ricerca attraverso la nostra esperienza. A tutti voi posso solo suggerire: se siete a Londra, praticate con Scott. E se avete la fortuna di passare da Bali, non mancate di visitare la Shala di Prem.
SJ: Cosa ti ha portato verso la pratica dello Yoga, così tanti anni fa, e cosa ti ha spinto a proseguire?
APC: All’epoca, lo Yoga non mi interessava. Avevo 21 anni ed ero fresco di università, pronto per affrontare il futuro. Alcuni amici mi proposero di partecipare a una lezione di Ashtanga Yoga, che secondo loro era fantastico. Sapevano che ero un tipo atletico e interessato alle attività fisiche, così mi feci trascinare facilmente. Entrai in una stanza piena di gente che praticava, e rimasi affascinato da queste persone che sembravano fluire con grazia da una postura all’altra. La pratica mi conquistò nel preciso istante in cui entrai in quello spazio sacro. Iniziai a praticare il giorno dopo, nell’autunno del 1978, e da allora non ho mai smesso. L’Ashtanga ha cambiato radicalmente la mia vita, in ogni aspetto. Diventai vegetariano, eliminai droghe e alcol. Tre mesi dopo, Guruji (Pattabhi Jois) arrivò dall’India negli Stati Uniti e si fermò per sei mesi ad insegnare nella nostra Shala di Encinitas, in California. L’anno successivo andai a Mysore, dove mi fermai per studiare con lui per 3-4 mesi. Divenne un pellegrinaggio annuale, che mantenni finché mi sposai: dopo, con i bambini, non mi fu possibile assentarmi da casa per periodi prolungati. Ma continuai a seguirlo nei suoi tour in California e alle Hawaii, dove si fermava ad insegnare per mesi, tra gli anni ’80 e ’90. Appena i ragazzi crebbero, ripresi ad andare a Mysore.
Avevo un rapporto molto stretto con Guruji, che mi trattava come se facessi parte della sua grande famiglia. Mi diede il nome di “Raghava” durante il mio primo soggiorno a Mysore, e da quel momento mi chiamò sempre con quel nome, che è uno dei nomi di Re Rama, nel Ramayana. Guruji mi trattava sempre con affetto rispetto a tanti altri studenti. E per me era come un padre. Mi aiutò tantissimo negli anni più importanti della mia crescita esistenziale, e grazie a lui mantenni un atteggiamento ispirato ed entusiasta anche davanti alle difficoltà.
A mantenere vivo il mio amore per la pratica tutti questi anni è anche l’immenso beneficio fisico che ne ho ricevuto. Ho 61 anni, e non dimostro né sento di avere questa età: il merito è dello Yoga, e del piacere che mi dà condividere questa disciplina con migliaia di altri praticanti. E’ tuttora un’esperienza molto gratificante; è come offrire all’umanità un dono prezioso… una salute eccezionale.
SJ: Raccontami dei primi anni a Mysore con Guruji, quando gli studenti erano ancora pochi. Dava suggerimenti diversi per la pratica? E aveva davvero un taccuino su cui annotava appunti su ognuno di voi?
APC: Quei primi anni con Guruji furono magici! Era così intimo con noi. La sua shala e la sua casa erano luoghi familiari per me. Passavo ore con lui e la sua famiglia, sua moglie Ama, sua figlia Saraswati e i nipoti, Sharmila e Sharath. Condivisi con lui molto della mia vita. Gli rivolgevo molte domande, e lui mi rispondeva nel suo inglese stentato. Mi conosceva come le sue tasche. Si rivolgeva a me in modo diverso rispetto agli altri: cercava una connessione personale. Sapeva quando essere severo, e quando essere gentile. Mi rispettava per ciò che ero. Mi faceva ripetere gli asana in cui avevo maggiori difficoltà, quelli che odiavo di più. Sapeva riconoscere un’autentica debolezza da un semplice atteggiamento pigro. Era un vero maestro nel leggere corpo e mente.
Era un autentico insegnante, nel verso senso della parola. Ci portava al limite: spesso cambiava istruzioni per metterci alla prova. Sapeva tirare fuori il meglio da noi. Dal suo modo di insegnare, appresi a capire la differenza tra una vera esigenza del corpo, e un semplice trucco della mia mente. E questo è stato il suo dono più grande. Mi ha dato l’autonomia e la forza necessaria a scoprire da solo la verità. Dalla sua trasmissione diretta, sono riuscito a portare avanti la tradizione e la ricerca. Se non avessi vissuto questa esperienza diretta con lui, forse tutto sarebbe diventato una sorta di “religione”.
E’ quello che mi sembra stia accadendo oggi con questo metodo. Gli studenti che diventano oggi insegnanti si limitano ad imitare quello che diceva Guruji o quello che ripete Sharath, come se fosse “la verità” o una sorta di “vangelo”. Non è qualcosa che conoscono davvero profondamente. Non deriva dalla loro esperienza diretta. E’ come essere pappagalli, e questo è quello che intendo per “religione”. Questo rende il metodo qualcosa di morto, senza più linfa vitale. Il nome della shala oggi è “Krishna Pattabhi Jois Ashtanga Yoga Institute”. Il nome originale era “Ashtanga Yoga Research Institute”. Non c’era un brand, o un’autorità sopra lo studente. Non bisognava memorizzare o fare ciò che diceva il maestro, era una ricerca continua, sua e nostra insieme a lui.
Inoltre, notate bene: non tutti i praticanti, ai miei tempi, diventavano insegnanti. Non andavamo a Mysore con il desiderio di insegnare, ma con la passione di imparare qualcosa di più su noi stessi. Alcuni tra noi erano portati all’insegnamento, Guruji li notava e li incoraggiava. Non rilasciava certificati, ma suggeriva personalmente, a chi riteneva adatto, di cominciare a insegnare. Il concetto e il business dei “corsi per insegnanti”, di qualsiasi tradizione, è totalmente senza senso. Ed è grazie a questo concetto che lo Yoga sta andando alla deriva. I corsi per insegnanti sono la più grande fonte di guadagno nel cosiddetto Yoga business. Tutti vogliono essere insegnanti, e praticamente qualsiasi centro yoga al mondo ne propone uno, per pagare le bollette. L’avvento dei corsi per insegnanti è diventato la rovina dell’integrità dell’insegnamento, e del trasmetterlo come un dono. Ha in parte diluito anche il metodo dell’Ashtanga.

Guruji davanti alla Shala di Lakshmipuram, Mysore
Guruji andava in ufficio ogni giorno a scrivere appunti sulle nostre classi di asana e pranayama. Stava formulando una ricerca per il suo istituto: l’Ashtanga Yoga Research Institute. Non scriveva su un taccuino in shala, ma lo faceva nel suo piccolo ufficio. Manju Jois (figlio di Guruji e suo legittimo erede), lo conferma, e dice che Guruji aveva pile di note, fogli su cui aveva scritto per decenni. Manju dice inoltre che Guruji creò le sequenze o serie (Prima/Seconda/Avanzate) sulla base di quello che gli sembrava opportuno. E posso testimoniare che il modo originale di insegnare ai primi studenti, negli anni ‘70/’80, era ben diverso rispetto ad oggi. Non esistevano le classi guidate: insegnava solo in stile Mysore. Introdusse la classe guidata quando gli studenti che partecipavano ai suoi tour divennero troppi. Negli anni cambiò anche ordine e metodo: non c’era una serie definita scritta su foglie di banana e mangiata dalle formiche. Era un modo per lui di mantenere misterioso il suo metodo, di legarlo alle metodologie insegnate anticamente agli Yogi tibetani. Sono molti gli studenti che possono testimoniarlo, persino Manju. Questo non toglie nulla all’immensa energia della pratica dell’Ashtanga Vinyasa Yoga creata da Pattabhi Jois. Guardate come sono diversi i metodi insegnati da BKS Iyengar e da TKS Desikachar (figlio di Krishnamacharya), anche se provengono tutti dallo stesso Maestro, Krishnamacharya. Ognuno di loro ha trasformato gli insegnamenti ricevuti in un metodo diverso; ognuno ha radici solide nei principi dell’Hatha Yoga, ma ha sviluppato il metodo che ha ritenuto opportuno. Ed è quello che propongo io oggi. E’ necessario un approccio scientifico, è necessario osservare gli strumenti di benessere che questi geni dello Yoga ci hanno trasmesso. Niente di più e niente di meno. La pratica degli asana e del pranayama è un contributo alla nostra salute: non c’è nulla di spirituale in questo. Asana e pranayama lavorano sui centri energetici, i chakra, che sono sotto i nostri occhi. Se consideriamo questo aspetto fisico come spirituale, manchiamo l’obiettivo. Sono pratiche che garantiscono la salute fisica e mentale: il percorso spirituale inizia quando arriviamo al terzo occhio, o sesto chakra. Guruji avrebbe voluto insegnarci qualcosa di più su questo, ma non pensava che fossimo pronti per gli aspetti più profondi dell’Ashtanga Yoga. Manju mi disse personalmente, dopo la sua morte, che Guruji avrebbe voluto approfondire gli altri rami dell’Ashtanga Yoga, ma che noi occidentali eravamo ossessionati dall’esteriorità, dagli asana. Volevamo asana sempre più complessi, eravamo bravi ad eseguirli, come del resto sono bravi i praticanti di oggi. Per quanto riguarda nello specifico il Pranayama, Guruji lo insegnava solo ad una cerchia ristretta. Chi tra noi aveva completato gli asana più avanzati poteva praticare pranayama sotto la sua guida. Voglio dire che noi, in pratica, abbiamo imparato solo i fondamenti dell’Ashtanga Yoga: il metodo principale dello Yoga è un viaggio interiore. Abbiamo perso il treno! Ecco perché io ho esplorato altri aspetti dello Yoga, perché sapevo, dentro di me, che non era tutto lì. Mi sentivo ingabbiato in un solo metodo.
La meditazione è la chiave che libera i misteri dell’inconscio. L’intuizione risiede nel sesto chackra, il terzo occhio, ed è qui che entriamo nell’ambito spirituale, che entriamo in contatto con l’anima. La forza dell’anima è ciò che anima il sistema mente/corpo. Asana e Pranayama, insieme a Yama e Niyama, sono passi preliminari per costruire un sistema corpo/mente pronto ad affrontare il viaggio interiore. Guruji enfatizzava questi primi quattro rami. Non ci spingeva verso i rami più alti, finché non avevamo conquistato un’autentica padronanza dei fondamenti dello Yoga. Riteneva che se non è possibile fermare l’irrequietezza del corpo e della mente, ancor meno lo è sedere in meditazione. Questo è in parte vero, ma è vero anche che abbiamo dedicato fin troppa energia nel pulire il nostro vascello, e ben poca a riempirlo. Dobbiamo elevare la nostra attenzione al ritiro sensoriale e alla concentrazione (Pratyhara/Dharana). Dhyana è l’immobilità che ricaviamo da questo ritiro verso l’interno. Samadhi è l’effetto che deriva dal perfezionamento della nostra concentrazione, dal riposizionarla dietro al terzo occhio. Da quel punto, tutto è grazia: lì inizia il nostro viaggio verso casa. L’ingresso nel regno dello spirito è attraverso quella porta: il terzo occhio. Persino Gesù ha detto “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque l’occhio tuo è pieno di luce, tutto il tuo corpo sarà illuminato” (Matteo, 6:22). Ha inoltre detto: “Bussa e ti sarà aperto” (Matteo 7:7). Le nove porte al di sotto del terzo occhio sono le aperture al mondo esterno (i due occhio, le due orecchie, le narici, la bocca, i genitali e l’ano). Quindi parliamo dei chakra sottostanti. Asana e Pranayama lavorano su questi centri energetici. L’ingresso al mondo spirituale inizia invece nel terzo occhio. Quando ci sediamo e ritiriamo la nostra attenzione all’interno, abbandoniamo il nostro corpo fisico. Attraversiamo la morte da vivi. Non credetemi sulla parola: scopritelo da soli. Non credete mai a nessuno! Verificate sempre tutto di persona. Questo è ciò che mi angoscia nell’attuale modo di insegnare. Tutti dicono: “seguite il capo”. Invece, dobbiamo aprire il nostro terzo occhio per vedere realmente. Sfortunatamente, a Mysore lo spirito di ricerca è finito. Alcuni tra i più coraggiosi continuano a portare avanti la tradizione, per come era stata concepita.Il resto… segue il branco, ciecamente, con il terzo occhio chiuso.
SJ: Hai osservato negli anni la crescita di Mysore, l’affluenza di un numero sempre maggiore di praticanti e la perdita di un contatto diretto e personale con Guruji. Questo sviluppo ha cambiato le cose?

Prem, Radha e Manju Jois

Prem e Tim Miller, giovanissimi, agli albori dell’Ashtanga
Con il passare degli anni, avevo sempre meno voglia di andare. Il numero di studenti era cresciuto fino a diventare impossibile da gestire. Guruji non poteva seguire tutti. La vecchia shala di Lakshmipuram, a Mysore, poteva ospitare una decina di studenti. Quando andai la prima volta, riceveva 7-8 persone per volta. Poi, un numero crescente di praticanti cominciò ad arrivare. Guruji iniziava ad insegnare alle 4 del mattino, e continuava anche fino a mezzogiorno. Gli studenti aspettavano in fila sulle scale della sua casa di tre piani, ammassandosi fino al tetto, fermi per ore prima di entrare. Anche allora, Guruji mi trattava con affetto, mi riservava una corsia preferenziale, mi evitava lunghe attese. Con l’apertura di Gokulam, la shala divenne uno showroom di esibizionisti. L’energia nella sala era meno rispettosa della pratica, e molto rivolta all’apparenza. Tutti sembravano aver perso di vista il motivo per cui eravamo lì. Divenne un circo! Gli studenti più avanzati – o meglio quelli che riuscivano ad eseguire gli asana più complessi – venivano visti come idoli. Tutti volevano essere come loro. Se eseguire asana difficili significa essere spirituali, allora dobbiamo osannare gli acrobati del Cirque du Soleil! La gente sgomitava per entrare in Shala. C’era spazio solo per 70-80 studenti: si riceveva pochissima assistenza. Il mio ultimo viaggio a Mysore fu proprio poco prima che Guruji morisse, nel 2009. Mi dicono che le cose con Sharath non sono cambiate: tutti sembrano rincorrere la prossima postura, e il pezzo di carta che li autorizza a insegnare.
SJ: Come sono cambiate le cose per te dalla morte di Guruji, nel 2009? Che impatto ha avuto su di te, sulla tua pratica e sul tuo modo di insegnare? Condividi ancora il suo metodo?
APC: Quando Guruji morì, Radha ed io stavamo insegnando ad Amburgo, in Germania. Sapevo che Guruji non stava bene. Dissi a Radha, una mattina, che avevo avuto una visione della sua morte: controllai le mail, e ne ebbi conferma. La sera in cui ebbi questa visione, provai un grande senso di responsabilità nel portare avanti i suoi insegnamenti. Un’onda di energia mi travolse durante le lezioni che tenni ad Amburgo quel giorno. Sentii da quel momento che Guruji continuava il suo lavoro attraverso di me. Continuo a condividere con i miei studenti ciò che ho imparato da lui. A questo unisco ciò che ho imparato attraverso la mia personale ricerca, relativa alla sua pratica, e oltre la sua pratica. Non ho alterato l’essenza della pratica, ma ad essa ho aggiunto i miei approfondimenti, che derivano da 40 anni di ricerca, studio e pratica. Ho avuto la rara opportunità di lavorare con migliaia di studenti. So che questo metodo, se insegnato correttamente, funziona. E’ come essere un vero medico, che rispetta ogni individuo e somministra a ciascuno il farmaco più adatto. Nei tempi antichi, gli yogi che insegnavano asana erano in sintonia con i loro studenti. Oggi la maggior parte delle lezioni di yoga assomiglia ad un corso di stretching aerobico con la musica, anni luce di distanza rispetto alle origini. Molti praticanti non praticano ciò che predicano, e il risultato è una versione molto diluita della forma originale. Ai miei tempi, praticavamo per approfondire la nostra consapevolezza. Ora tutto è orientato all’obiettivo, alla ricerca esterna di qualcosa di più. E’ triste notare la piega che ha preso lo yoga “moderno”. Anche nell’ambito dell’Ashtanga, è sempre più raro entrare in una classe in cui il rispetto per lo studente sia la priorità.
SJ: Tu sei anche un medico e terapeuta Ayurvedico. Guruji ti ha in qualche modo incoraggiato in questo percorso, e in che modo queste tecniche ti aiutano nell’insegnamento?
APC: Si, il mio maestro Dr Vasan Lad mi considera oggi un medico Ayurvedico. Dr Lad è noto in tutto il mondo per la sua esperienza in campo ayurvedico, ed ha scritto molti libri su questa materia. Dirige inoltre l’Ayurvedic Institute di Albuquerque, in New Mexico. Ho studiato con lui per quattro anni nel 1983. Da allora ho incorporato l’Ayurveda nel mio modo di insegnare. Guruji amava l’Ayurveda, ne abbiamo discusso molte volte negli anni. L’aveva studiata a scuola. Anche Krishnamacharya era un grande sostenitore di questa scienza. Guruji lo disse più volte durante i nostri incontri, e spiegò quanto fosse importante apprenderla. Io fui uno tra i pochi a prendere in considerazione il suo consiglio. Penso che per chi insegni Mysore Style, lo studio dell’Ayurveda sia una componente molto importante. Questa scienza ci aiuta a rivolgerci a ogni studente in modo personalizzato, in base al dosha, all’età, all’ambiente, alla stagione. Senza la comprensione dell’Ayurveda, il metodo diventa generico e con un approccio standardizzato, quindi ben diverso da come Guruji l’ha trasmesso a me! E non è certo in questo modo che la pratica dello Yoga veniva trasmessa anticamente. Non è necessario diventare medici Ayurvedici per metterne in pratica le basi nel quotidiano. Penso però che sia un prerequisito per chi vuole insegnare conoscerla meglio. Se non siamo in grado di distinguere i bisogni specifici dei nostri studenti, come possiamo ottenere buoni risultati? Fatevi questa domanda, e ditemi se non vi sembra un ragionamento sensato.
SJ: Hai aperto due centri dedicati all’Ashtanga, uno a Bali e uno in Sri Lanka. Ci puoi raccontare come nasce e come cresce una comunità in stile Mysore?
APC: Negli anni, ho avuto l’opportunità di costruire molte comunità per chi pratica Ashtanga Yoga. Una delle prime è stata a Phoenix, in Arizona. Ho contribuito alla formazione di una comunità molto attiva fino agli anni ‘90, prima di andare altrove. Ho aiutato mio fratello Eagle a creare Pineapple Yoga a Kauai, nelle Hawaii. Eagle insegna lì ormai da 15 anni. E ho aperto un centro in Sri Lanka nell’anno in cui fu colpito dallo Tsunami! Non è stato un bel modo di partire, anzi è stata un’esperienza molto intensa, che ho descritto in un mio libro. Ma è stata un’idea che mi ha premiato in molti modi diversi. In Sri Lanka, l’idea (che non raccomando a tutti) è stata di aprire una comunità in cui tutti potessero praticare, ma con l’impostazione di un resort. Ci occupavamo di tutto, e a volte mi è sembrato di gestire un centro di assistenza per adulti! Avevo davvero troppe responsabilità in ambiti che non mi interessavano realmente (la ristorazione, la ricezione degli ospiti, il loro intrattenimento, etc.). Il mio centro a Bali, Ashtanga Yoga Bali Research Centre (in onore di Guruji) è molto simile a quello che ho vissuto io nei primi anni a Mysore. Gli studenti devono fermarsi per almeno un mese, questo è il requisito di permanenza minima. Sono in tanti a tornare e a crescere insieme al centro. Affrontiamo la pratica con spirito di ricerca, utilizziamo le tecniche che abbiamo appreso per decenni, per aiutare gli studenti ad affrontare i loro limiti personali. Ognuno di noi ha esigenze specifiche, e noi ci rivolgiamo ai singoli individui utilizzando l’Ashtanga e l’Ayurveda. Al termine del soggiorno, i praticanti sono forti e stabili nella loro pratica e possono tornare a casa con rinnovato entusiasmo. Ed è a questo punto che centri come Stillpoint Yoga London entrano in gioco, mantenendo viva la comunità locale. E’ un concetto simile a quello che un tempo animava le chiese, un luogo di devozione interiore dedicato allo sviluppo e alla trasformazione personale. Questo è l’autentico significato del detto di Guruji, “practice and all is coming”. Tutto ruota intorno alla pratica, quotidiana, regolare e costante: è al suo interno che avviene il cambiamento. Non è un desiderio o un sogno. E’ solo attraverso la partecipazione continua e completa che possiamo rimuovere l’ignoranza che avvolge il sistema corpo/mente. Nel mantra di apertura, la frase “Samsara Hala Hala (la velenosa natura delle fissazioni mentali) ci rivela natura della pratica, ovvero indurre corpo e mente a collaborare. La pratica è mentale e il corpo è il meccanismo con cui incoraggiamo la mente a cambiare. Gli strumenti che utilizziamo nella pratica hanno lo scopo di indurre la mente a collaborare con il corpo. Il respiro è uno dei “ponti” necessari a creare questa connessione. Un altro è costituito dai Bandha, un altro ancora dal Drishti. Guruji ne parlava spesso! Ecco perché poneva una grande enfasi sulla parte fisica della pratica, sugli asana. Ci diceva di cominciare da questo. Il sistema mente/corpo era il nostro laboratorio: il respiro ci consente di cambiare il nostro corpo e la natura della nostra consapevolezza. E’ come un laser puntato sulla nostra mente, che ci consente di penetrare gli stati più elevati di coscienza. Perché se corpo e mente non sono quieti, non riusciremo mai a ottenere quell’immobilità necessaria alla meditazione. Guruji voleva che la ricerca sugli altri rami dello Yoga fosse individuale, la lasciò al nostro libero arbitrio.
SJ: Vorrei toccare un tasto molto personale. Qualche anno fa, hai perso tragicamente tua figlia, Shanti. Vuoi parlarcene, e dirci in che modo la tua pratica spirituale e lo yoga ti hanno sostenuto nel superare quel momento? Come stai ora?
APC: Perdere mia figlia Shanti è stato l’evento in assoluto più devastante della mia vita. Ero completamente impreparato. Avevo due figlie meravigliose, che amavo alla follia. Ero in un momento bellissimo della mia vita personale e professionale. Mi ero appena sposato con una donna meravigliosa, Radha. Avevo costruito insieme a lei una comunità di grande successo a Bali, dove Yoga e Ayurveda crescevano insieme. Ero economicamente tranquillo. Ero in piena salute. Avevo tutto ciò che desideravo dalla vita. E poi mi arrivò la notizia… Radha ed io eravamo appena tornati dalla California, dove ci eravamo sposati, il 21 giugno del 2013. Il 18 luglio atterrammo a Bali. Aprii il computer e trovai una mail di Mira, la mia figlia minore. L’oggetto era “CHIAMAMI IMMEDIATAMENTE”. Sentii un pugno allo stomaco, e la chiamai immediatamente. Mi rispose e mi diede la tragica notizia. Shanti era morta in un incidente d’auto. Inutile dire che da allora la mia vita ne è stata profondamente influenzata. Yoga e Pranayama mi hanno aiutato nel superare questa perdita terribile? Sì e no. Ho sofferto le pene dell’inferno. La pratica mi ha costretto ad andare ancora più in profondità. Mi ha lasciato vulnerabile e solo. Ad un certo punto sono entrato in una seria depressione. Ho dovuto toccare il fondo per riuscire a rialzarmi. Grazie a Dio la pratica mi ha mantenuto in salute per tutto il tempo necessario a uscire dalle circostanze più tristi che un essere umano possa trovarsi ad affrontare. In tanti mi hanno detto che la perdita di un figlio è l’evento più tragico che un essere umano possa affrontare. Non posso che essere d’accordo. Il mio insegnante di meditazione, Ishwar Puriji, mi ha aiutato più di chiunque altro. E’ arrivato nella mia vita proprio quando ero pronto a mollare tutto. Qualcuno mi inviò un suo video su YouTube. Guardai le sue conferenze sui temi della vita e della meditazione. Mi toccarono profondamente e decisi di incontrarlo il prima possibile. Mi ha condotto sul cammino del Surat Shabd Yoga (lo Yoga delle Correnti dell’Anima). Una pratica che mi ha dato sostegno spirituale. La mia mente cerca spesso di sabotare le mie vittorie spirituali, ma grazie al cielo posso rivolgermi a Ishwar in ogni momento. Credo che tutto, nella nostra esistenza, sia pre-ordinato. Questo evento drammatico è un disegno che mi ha costretto a svegliarmi, a comprendere il vero significato della vita, e a capire dove è la mia vera casa. Se questa tragedia non mi avesse colpito, non avrei mai compreso queste verità.
SJ: Come è cambiata la tua pratica negli anni? Pratichi ormai da oltre 30 anni: cosa hai imparato, e cosa stai ancora imparando?
APC: Con l’età la mia pratica è gradualmente cambiata. A vent’anni, ero un entusiasta degli asana, volevo completare le serie avanzate, e ci riuscii abbastanza facilmente e velocemente. Ero molto atletico, la pratica per me era una sfida: la mia attrazione per lo yoga era puramente fisica in quel periodo. Dopo aver conquistato le posizioni più complesse, cominciai a chiedermi: e ora? Fu la motivazione che mi spinse verso gli aspetti più mentali e spirituali della pratica, ma non accadde dalla sera alla mattina! Come ho detto, forse il risveglio più profondo è arrivato insieme alla perdita di mia figlia Shanti. Naturalmente, la saggezza che deriva dall’essere un “vecchio” insegnante/praticante mi ha regalato la capacità di offrire la giusta prospettiva sia ai principianti che ai più esperti. Riconosco subito l’ossessione per la forma tipica delle giovani promesse dello Yoga. E’ naturale, è parte del processo. Posso incoraggiarli a proseguire, ma devono passare da soli attraverso questa fase. Mi ci sono voluti anni per capire quanto fossero ridicole le pose da ginnasta rispetto alla profonda realizzazione spirituale, o anche semplicemente a ciò che è davvero necessario per essere in salute. Ho perso tanta di quella energia per rincorrere un asana! Eppure, quella fase ha fatto parte del mio processo di crescita, dell’ignoranza della gioventù. Ora, a 60 anni, ho una pratica adatta alle mie esigenze e alla mia età. Non mi pavoneggio in posizioni avanzate, né ne sento il desiderio. Pratico una serie composta dai Saluti al Sole, dalle posizioni in piedi e dagli asana seduti della prima e della seconda serie che ritengo più adatti a me. E sto benissimo! Ho appena fatto un check up completo in Thailandia: tutti i test possibili. I risultati sono stati eccellenti, i medici ne sono rimasti colpiti. Sicuramente devo tutto alla mia pratica e alla mia alimentazione (salutare ma priva di fanatismi), e un po’ anche al mio sense of humor.
Ho imparato e sperimentato sulla mia pelle l’efficacia di questa pratica, se usata correttamente. Per “correttamente” intendo secondo i principi dell’Ayurveda (i dosha, l’età, l’ambiente, la professione, la vita familiare del praticante). E’ necessario rivolgersi alla persona come ad un individuo unico in se stesso. Dobbiamo rivolgerci all’essere umano onorandolo con la nostra massima attenzione, rispetto e cura. Molti insegnanti non hanno idea di cosa stanno facendo, perché non sanno nemmeno di cosa hanno bisogno loro in prima persona. Come possono essere sensibili nei confronti dei loro studenti? Se usiamo l’Ashtanga Yoga, gli asana e il pranayama in modo superficiale, il danno che rischiamo di arrecare gli individui è di proporzioni epidemiche! Il mio ruolo di insegnante anziano è di portare avanti questa tradizione facendo tesoro di ciò che ho imparato attraverso l’esperienza e la ricerca. Ciò che oggi viene proposta è una versione generica, standardizzata della pratica. E’ di scarso valore per i praticanti, perché viene insegnata con scarsa sensibilità. Ecco perché enfatizzo l’approccio ayurvedico come strumento per sviluppare il potenziale e l’equilibrio del singolo. Questo è il modo più corretto di rivolgersi ad ogni individuo all’interno di una lezione di gruppo. Lo stile Mysore era stato creato per insegnare ad un gruppo di persone, pur mantenendo intatta la personalizzazione della pratica. Non si può fare diversamente. Ma purtroppo non è così che la pratica viene trasmessa nella maggior parte dei centri yoga sparsi in tutto il mondo.

Ashtanga Yoga con Guruji negli anni 70-80. Pochi si avventuravano in India.
Viviamo oggi in un’epoca e in luoghi diversi rispetto alle origini di questo metodo. Dobbiamo adattarlo alla situazione contingente e al singolo praticante. Questa pratica è stata concepita per “padri di famiglia”: era insegnata da uomini (Pattabhi Jois/Krishnamacharya) che avevano famiglie, non da monaci o viandanti. Si basava sul solido principio di poter essere praticata tutti i giorni, su base regolare, per aiutare il singolo a vivere al meglio la propria esistenza, ad esprimere il proprio potenziale in qualsiasi campo. Giovani o vecchi, uomini o donne, c’è un modo corretto per praticare questo metodo, per far sì che ci renda forti e resilienti oltre la nostra immaginazione. Posso testimoniarlo per esperienza diretta, per la continua ricerca e per le migliaia di studenti a cui ho insegnato: ne ho visti gli effetti su ognuno di loro. Non conosco un’altra forma di esercizio in grado di coinvolgere organi interni, muscoli, fascia, ossa, articolazioni, circolazione, etc. E’ sicuramente il metodo migliore che esista. Ci aiuta a mantenere intatto il tempio del nostro corpo, a renderlo pronto alle pratiche di meditazione rivolte al sé supremo. Se ne conoscete uno migliore, per favore ditemelo!
SJ: Quindi… qual è il tuo prossimo progetto?
APC: La mia missione, attraverso l’Ashtanga Yoga Bali Research Centre e all’estero, è di insegnare correttamente e con saggezza questo metodo. So che posso trasmetterlo nel modo migliore se mi applico nel dimostrare a tutti in che modo l’Ashtanga Yoga può migliorare le nostre vite. Desidero che tutti ne traggano gli stessi vantaggi di cui ho goduto io per oltre 40 anni, ma è necessario che la saggezza accompagni la potenza di questo sistema, o saranno sempre più numerosi i praticanti danneggiati, dentro e fuori, da uno strumento usato male. Mi impegno a mantenere viva la ricerca! Le religioni, i fanatismi sono pericolosi. Aiutatemi a mantenere vivo l’Ashtanga Yoga: fate ricerca, e salvate questo metodo dall’inaridimento totale. La scintilla è ancora accesa. Se esplorate il metodo con mente aperta, vedrete voi stessi se ho ragione o torto. Il vero lavoro inizia dentro di noi, non fuori. Non limitatevi a lustrare la barca praticando asana e pranayama. Se vi fermate agli asana, prendete in giro voi stessi. Ho scritto un libro dal titolo “The Only Way Out Is In”. Non c’è altro modo per sopravvivere agli alti e bassi dell’esistenza di cui ci è stato fatto dono. Siamo venuti in questo mondo per esperire il regno fisico. Io mi ritengo sazio: e voi? Verificate da soli ancora una volta l’autenticità delle mie parole. L’autentico significato della vita ci attende proprio dietro i nostri occhi. Non davanti al nostro ego. La lotta tra oscurità e luce esiste: il polo positivo è il terzo occhio, il polo negativo è la nostra radice, muladhara. La forza ci accompagna se ci muoviamo verso la luce. Incoraggio tutti voi ad usare l’innato buonsenso. Il mio insegnante spirituale, Ishwar Puriji, dice “il buonsenso è una rarità”. E io sono d’accordo. Coltivate la ricerca attraverso l’intuizione che risiede nel vostro terzo occhio: è un rilevatore innato delle fandonie che cercano di propinarci. E’ il modo per sovrascrivere la Matrix. E’ oltre il sistema corpo/mente. Ci eleva fino a renderci osservatori obiettivi per l’uso corretto del nostro “vascello”. La nostra mente vuole comandare il gioco e rappresenta il potere negativo. L’anima è l’osservatore. E’ Krishna che guida il nostro carro, tenendo le redini dei nostri cinque sensi. Lasciate che Krishna conduca la corsa, sedetevi e godetevela. Diversamente, sarete condannati a ripetere continuamente gli stessi errori. Questo è il significato autentico della frase “Samsara Hala Hala”.
Ho condiviso qui la mia esperienza personale. So di andare controcorrente rispetto al credo popolare, ma mi sta bene essere un ribelle per una causa giusta. Lo siete anche voi?
– Anthony Prem Carlisi intervistato da Scott Johnson
Traduzione di Francesca d’Errico