Tracce di Yoga: tra Asana e meditazione

Che cos’è “Tracce di Yoga”? E perché ho scelto di dare questo titolo al mio libro?

Da tempo volevo mettere nero su bianco la mia esperienza con la pratica che mi ha cambiato la vita. Ho iniziato il cammino nello Yoga ormai vent’anni fa, e come ho spesso ripetuto su queste pagine, mi sono sempre sentita molto “piccola” e umile di fronte all’immensità di questa disciplina che spazia tra filosofia, spiritualità, terapia per il corpo e per la mente. Di tutto e di più è stato scritto in materia: testi che ne hanno spiegato i benefici fisici, trattati di anatomia e yoga, libri su come costruire le sequenze e altri su come approcciare ogni singolo Asana, senza contare i testi “sacri” di questa disciplina, primo fra tutti gli Yoga Sutra di Patanjali. Chiunque abbia fatto un corso per insegnanti, e chiunque abbia sviluppato da semplice praticante un interesse più profondo per lo Yoga ha una libreria ben fornita dove spiccano nomi altisonanti, ben più importanti del mio.

E’ innegabile che negli ultimi anni l’attenzione si sia però sempre più spostata verso la pura fisicità della pratica, con effetti a volte controversi e spesso fonte di dibattito tra “vecchie” e “nuove” scuole. La mia intenzione nello scrivere questo libro era di fornire a chi pratica e a chi desidera avvicinarsi allo Yoga una visione un po’ diversa, una prospettiva spirituale che tuttavia non trascurasse il veicolo attraverso cui accediamo agli aspetti più profondi di questa disciplina: il corpo. E soprattutto, volevo offrire a tutti noi praticanti occidentali, alle prese con le mille sfide del quotidiano, un testo agile, da poter leggere nei ritagli di tempo, per praticare lo Yoga fondendo il suo aspetto più fisico alle sue enormi potenzialità spirituali – trasformando ogni gesto in una piccola meditazione, e stimolando il lettore ad andare oltre, a cercare ancora.

Volevo scrivere un libro che potesse diventare un compagno di viaggio, con cui confrontarsi lungo il cammino. Un libro che diventa un amico, e ci spiega in modo semplice perché eseguire un Asana, raccontandone il segreto.

Grazie a Marco Pantani, fotografo innamorato della Natura, ho potuto accompagnare al testo immagini che raffigurano il significato del termine Asana: stabilire un contatto con la Terra. Grazie a Paola Surano e Laura Dalzini, di Tracce per la Meta, ho potuto trasformare il mio progetto in un libro. Rileggendolo, mi sono accorta di come lo Yoga abbia parlato attraverso di me in tutti questi anni. Ci sono tante persone a cui vorrei dedicare le pagine che spero leggerete. Persone che mi sono state accanto in questo cammino, dandomi fiducia. Altre che avrei voluto portare con me, ma che ancora non erano pronte. Ecco, questo libro è anche per loro. Magari un giorno aprendolo a caso, si riconosceranno in una posizione e cominceranno a riscrivere la loro storia attraverso lo Yoga.

Ci sono poi tanti maestri che voglio ringraziare, da Sharon Gannon a Saraswathi Jois, Hamish Hendry, John Scott, Louise Ellis, Greg Nardi, Gingi Lee, Anurag Vassallo. Persone meravigliose che mi hanno introdotta, guidata, ricondotta (quando pensavo di aver perso il filo) e accompagnata per mano in questa meravigliosa storia d’amore con lo Yoga.

“Tracce di Yoga” è diventato il mio piccolo omaggio alla pratica che mi ha reso ciò che sono oggi. Una persona (che cerca di essere) libera.

Il libro uscirà nelle librerie e su Amazon a dicembre. Ma potete pre-ordinare la vostra copia online al prezzo speciale “early bird” sul sito dell’editore Tracce per la Meta, cliccando su questo link: Tracce di Yoga per riceverlo prima di tutti. Non dimenticate, una volta effettuato l’ordine, di inviare una mail a info@tracceperlameta.org con il vostro indirizzo.

Ci vediamo sul tappetino, e tra le pagine di Tracce di Yoga.

Il conteggio dei Vinyasa: tra mantra e terapia (part 1)

Anthony Grim Hall in Pasasana. Autoritratto

Di tutti gli aspetti dell’Ashtanga Yoga, il conteggio dei Vinyasa è forse quello che mi affascina di più, da sempre. A metà strada tra mantra (contare è, in fondo, un po’ come pregare) e terapia (attenersi al conteggio dei Vinyasa favorisce i processi metabolici messi in atto dalla respirazione ritmica), è anche uno dei principi del metodo che lo rende diverso da qualsiasi altro. Alla ricerca di maggiori informazioni in vista del mio prossimo workshop, ho trovato un post del sempre ottimo Anthony Grim Hall che fa luce, almeno in parte, su questa affascinante teoria. Dico almeno in parte perché il conteggio dei Vinyasa, un po’ come il controllo dei Bandha, è uno di quegli aspetti che un giorno ci sembra di afferrare, e l’altro di aver perso chissà dove. E forse, in un certo senso, è bene che sia così: solo qualcosa che ci sfugge continuamente, in fondo, ci spinge a continuare a cercare.

Ho suddiviso questo lungo post in diversi articoli, per favorire la memorizzazione del conteggio e anche perché Anthony ha approfondito l’argomento soffermandosi anche sul Drishti di ogni conteggio. In questo modo, potete concentrarvi su ogni aspetto con calma.
Buona lettura!

John Scott consiglia di imparare il conteggio dei Vinyasa; non solo se siamo insegnanti, ma anche se siamo semplici praticanti perché secondo lui il conteggio è come un mantra, e contribuisce in modo sensibile alla concentrazione.

“Come si è arrivati a comprendere il conteggio dei Vinyasa?”

In pratica è andata così. Nei primi anni di pratica presso la Shala di Lakshmipuram (agli albori dello stile Mysore), non sapevamo cosa Guruji volesse dire quando ci ordinava: “Catvari!”. Pensavamo che “Catvari” significasse “saltate indietro”, perché Guruji diceva appunto: “catvari – jump back”. Quindi avevamo tradotto questa parola con “saltate indietro”, “Panca” con Cane a Testa in Su, “Sat” come Cane a Testa in Giù, “Sapta” con “saltate avanti”. Pensavamo che “Sapta” volesse dire saltate in avanti! Alla fine ci svegliammo, cominciammo ad ascoltare davvero, e ci rendemmo conto che Guruji stava contando in sanscrito: 4,5,6,7. E ci mettemmo a cercare cosa significasse davvero la parola “vinyasa”.
Guruji diceva che Vinyasa significava “Counted Method”.

Quando il mio caro amico Lino Miele, in Francia, osservò Guruji contare durante una lezione, ebbe un’illuminazione e cominciò ad occuparsi della documentazione dei Vinyasa. Lucy ed io partecipammo al progetto di Lino, che divenne un libro. Da quel momento in poi, decisi che avrei dovuto concentrarmi ed imparare al meglio il conteggio dei Vinyasa di Guruji. 

In ‘Yoga Mala’, il libro di Guruji, il Maestro si riferisce alla pratica come ad un mala, una ghirlanda di posizioni. Ogni posizione ha un suo “stato”, ed ogni stato o Asana ha un numero specifico di  vinyasa contati in entrata e in uscita, ed ognuno di essi è in sintonia con il Respiro. I Vinyasa sono come i grani di un rosario, movimenti coreografati da respiro e movimento; ognuno di essi va contato e su ognuno di essi è opportuno meditare, ed è necessario che il praticante impari questo conteggio come un mantra per la sua pratica personale”.
John Scott, Winter, 2013 Stillpointyoga London

Una nota sul mantenere il conteggio durante la pratica. Rispettare il conteggio dei vinyasa non significa che dobbiamo affrettarci per entrare o uscire da una posizione, soprattutto se stiamo entrando, ad esempio, in Marichiyasana D, per essere al passo con gli altri praticanti presenti alla lezione. Il conteggio non significa contare ogni singolo respiro: sono presenti respiri “extra” per così dire “ufficiali”, proprio per consentirci di entrare correttamente in una postura difficile. Ciò che conta è riuscire a rientrare nel vinyasa corretto al momento giusto.

Un esempio. In Marichiyasana B saltiamo avanti sul “SUPTA inspiro” e dovremmo chiudere la postura prima di “ASTAU espiro”, restando per 5 respiri.  Ma non trovo nessun motivo per cui non si debba camminare in avanti invece che saltare, fare un paio di respiri in più per chiudere la posizione e quindi, quando siamo pronti, espirare una volta entrati nell’asana contando mentalmente “astau”. Se ciò significa che siamo in ritardo rispetto al resto dei praticanti, possiamo comunque restare all’interno dell’asana solo un respiro, ed uscirne insieme a tutti gli altri. A casa o durante la self practice possiamo invece attardarci una volta entrati nell’asana per tutti e cinque i respiri previsti.

Un approccio per imparare il conteggio dei Vinyasa 
Il conteggio qui presentato si basa sui libri di John Scott e Lino Miele. Lino elenca il conteggio in modo semplice e chiaro, ma John entra ancora più in dettaglio in merito ad ogni Vinyasa e alle inspirazioni ed espirazioni “extra”. Il “Full Vinyasa” (n.d.T., la pratica in cui tra una postura e l’altra si esegue un vinyasa completo, partendo e tornando a Samasthiti) è una pratica meravigliosa, io non la trovo più stancante del tradizionale mezzo vinyasa, e se ho problemi di tempo pratico la prima metà della serie un giorno, e la seconda metà il giorno seguente. Esistono differenze nei conteggi tra gli insegnanti più esperti, da Manju a Sharath fino ad arrivare ai più famosi tra i certificati KPJAYI. Sono differenze che dovrebbero suscitare interesse e non polemica. Personalmente, mi piace esplorare le variazioni dei conteggi di  Krishnamacharya, Pattabhi Jois, Manju Jois Lino Miele/John Scott e Sharath.

1. Iniziamo imparando a contare fino a 30 in sanscrito (utilizzate le tabelle qui sotto). Anzi, è sufficiente per la maggior parte dei vinyasa arrivare a 22. E partiamo contando da 1 a 9, conteggio che vi permetterà di praticare correttamente Surynamaskara A.

1   = ekam
2   = dve
3   = trīṇi
4   = catvāri
5   = pañca
6   = ṣaṭ
7   = sapta
8   = aṣṭau
9   = nava
 

2. Praticate alcuni saluti al sole cantando mentalmente il conteggio (tralasciando i 5 respiri di Ardho Mukha Svanasana così non dimenticate dove siete arrivati). Quindi, per una settimana, contate tutti i Saluti al Sole A e B.

Notate come si tende ad andare verso l’alto durante l’inspirazione, e verso il basso durante l’espirazione. Può sembrare ovvio ma è una osservazione che può esserci di aiuto nel localizzare il nostro conteggio, una sorta di GPS interiore. Inoltre, tendiamo a inspirare sui numeri dispari ed espirare sui pari.

ekam  – Inspiro, le braccia vanno verso l’ALTO
dve  – Espiro, il corpo scende verso il BASSO 
trīṇi –  Inspiro, schiena piatta mentre torniamo verso l’ALTO 
catvāri  – Espiro, saltiamo in Chatauranga ( in pratica, verso il BASSO)
pañca  – Inspiro, torniamo verso l’ALTO 
ṣaṭ   –  Espiro, la parte posteriore del corpo va verso l’alto mentre la parte superiore si china e rivolgiamo lo sguardo all’ombelico (BASSO) 
sapta  – Saltiamo con i piedi verso le mani e inspiriamo appiattendo la schiena come in dve, quindi verso l’ALTO 
aṣṭau  – Espirando ci flettiamo verso il BASSO 
nava  – Inspiriamo portando le braccia verso l’ALTO 

Al termine dei vinyasa, rilasciamo le braccia lungo il corpo in Samasthiti, che non viene conteggiata (n.d.T. una sorta di “zero” da cui partiamo e a cui torniamo). 

3. Impariamo il numero di vinyasa per ogni postura, e per lo stato effettivo dell’asana (vedi tabella più sotto); spesso sono la stessa cosa.

Ad es. da Ardha Baddha Padmottānāsana a Marichiyasana C tutti gli asana hanno 22 Vinyasa, e lo stato dell’asana cade all’8 e al 15 (che rappresentano i due lati dell’asana). 

4. Immaginando di aver imparato a contare in sanscrito, ora dobbiamo solo sapere su quale numero cade lo “stato” dell’asana.

Sappiamo come contare durante i vinyasa, avendo praticato in Surya Namaskara, e sappiamo su quale numero cade lo stato dell’asana che vogliamo eseguire: se vi sono discrepanze, significa che abbiamo avuto bisogno di inserire o togliere un respiro.

Ad es. nell’esecuzione dei quattro Prasarita, vogliamo trovarci nell’asana a TRINI. Quindi EKAM (inspiro) corrisponde all’apertura delle gambe, ma se ci piegassimo immediatamente, ci troveremmo nell’asana a DVE e non a TRINI. Questo significa che ci deve essere un vinyasa extra. DVE (espiro) corrisponde alla flessione in avanti e al poggiare le mani a terra. Non possiamo fletterci durante l’espirazione dunque deve esserci una inspirazione extra, che non è conteggiata, guardiamo verso l’alto, appiattiamo la schiena e in TRINI (espiro) portiamo la testa sul tappetino per i nostri 5 respiri. 

HALF VINYASA: Qui sotto trovate il conteggio del full vinyasa, half vinyasa è in pratica una versione più breve della pratica, ma implica comunque il conteggio completo. Se scegliamo di praticare half vinyasa non torniamo a samastithi dopo ogni posizione da seduti, ma solo ad Adho mukha svanasana (cane a testa in giù). Nonostante questo, inizieremo comunque il conteggio a SUPTA quando eseguiamo il jump through per la postura successiva, esattamente come se fossimo arrivati a Samasthiti e ritorno. Imparare su quale numero “cade” l’asana ci aiuta a capire in che modo è stata abbreviata la pratica attuale degli half vinyasa.

5. Lavorate su gruppi di asana, quindi imparate i vinyasa della sequenza in piedi per una settimana, quindi la settimana successiva aggiungete gli asana fino a Navasana, la terza settimana  terminate il conteggio di tutta la sequenza della prima serie, e infine aggiungete la sequenza di chiusura.

6. Esplorate un paio di vinyasa complessi al di fuori della vostra pratica quotidiana, semplicemente ripetendone il conteggio, magari alla sera, per non costringervi ad interruzioni durante la pratica regolare.

I libri possono essere di aiuto. Il libro di John Scott è probabilmente il migliore per delineare i vinyasa, oltre che essere esaustivo nella spiegazione senza essere prolisso. Anche il libro di Sharath è eccellente a questo scopo. Yoga Mala di Sri K. Pattabhi Jois completerà il vostro lavoro di studio al di fuori del tappetino.

Un’altra eccellente risorsa relativa al conteggio dei vinyasa è quella di Dr. Ronal Steneir e del suo team, a questo link:  http://www.ashtangayoga.info/practice/

7. Praticate qualche guidata seguendo un CD o un DVD. E’ senz’altro un aiuto anche se dovrete comunque lavorarci da soli. La nuova app di John Scott è praticissima a questo scopo. Anche il CD di Sharath, con il solo conteggio e i nomi degli asana è ottimo, e il DVD di Manju dove durante una guidata tutti ripetono il conteggio.

Contare in Sanscrito 

1   = ekam
2   = dve
3   = trīṇi
4   = catvāri
5   = pañca
6   = ṣaṭ
7   = sapta
8   = aṣṭau
9   = nava
10  = daśa 
11  = ekādaśa 
12  = dvādaśa 
13  = trayodaśa
14  = caturdaśa 
15  = pañcadaśa 
16  = ṣoḍaśa 
17  = saptadaśa 
18  = aṣṭadaśa 
19  = ekonavimśatiḥ 
20  = vimśatiḥ 
21  = ekāvimśatiḥ
22  = dvāvimśatiḥ 
23  = trayovimśatiḥ 
24  = caturvimśatiḥ 
25  = pañcavimśatiḥ 
26  = ṣoḍavimśatiḥ; 
27  = saptavimśatiḥ 
28  = aṣṭovimśatiḥ

Il Conteggio della Prima Serie dell’Ashtanga Vinyasa

Legenda:
Il primo numero seguito da * è il numero dei vinyasa
I numeri dopo l’asterisco sono lo “stato” dell’asana
Quindi  Jānuśīrṣāsana A – C   22 *  8 , 15  rappresenta tutte le tre versioni di Jānuśīrṣāsana, che hanno ognuna 22 vinyasa e in cui lo stato dell’asana (per ciascun lato) cade su 8 e 15.
Ho raggruppato gli asana che hanno lo stesso vinyasa/stato per aiutare la memorizzazione:
POSTURE IN PIEDI
Sūryanamaskāra A = 9 vinyasa  B = 17 vinyasa 
 
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Pādāngusthāsana 3 * 2
Pāda Hastāsana    3 * 2
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Uthitta Trikoṇāsana A and B         5 * 2 , 4
Uthitta Pārśvakonāsana A and B   5 * 2 , 4                
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Prasārita Pādottānāsana A to D      5 * 3           

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Pārśvottānāsana     5 * 2 , 4 
Utthita Hasta Pādāṅguṣṭhāsana    14 * 2 , 4 , 7 & 9, 11 , 14 
Ardha Baddha Padmottānāsana     9 * 2 + 7       
 
Utkatāsana 13 * 7

Vīrabhdrāsana  16 * 7 , 8 , 9 , 10


PRIMA SERIE – POSIZIONI DA SEDUTI
Paścimattānāsana  16 * 9  
 
Purvottānāsana 15 * 8   
———————————————–
Ardha Baddha Padma Paścimattānāsana  22 *  8 , 15
 
Tiryañgmukha Ekapāda Paścimattānāsana  22 * 8 , 15 
 
Jānuśīrṣāsana A – C   22 *  8 , 15 
 
Marīcāsana A and B        22 *  8 , 15
—————————————————
 
Marīcāsana C and D  18 * 7 , 12  
Nāvāsana  13 * 7 
 
Bhujapīḍāsana 15 * 7 ,  8 
 
Kūrmāsana 16 * 7 
Supta Kūrmāsana  16 * 8 
 
Garbha Piṇḍāsana  15 * 8 
 
Kukkutasana   15 * 9 
Baddha Konāsana     15 * 8 
 
Upaviṣṭha Konāsana      15 * 8 , 9 
 
Supta Konāsana        16 * 8   
 
Supta Pādāñguṣṭhāsana     28 * 9 , 11 , 17 , 19 
Ubhyaya Pādāñguṣṭhāsana    15 * 9  
 
ūrdhva Mukha Paścimattānāsana         16  * 10  
 
Setu Bandhāsana     15 * 9    
 
SEQUENZA DI CHIUSURA
ūrdhva Dhanurāsana      15 * 9  
——————————————-
Salaṁbā Sarvāṅgāsana      13 * 8 
 
Halāsana         13 * 8   
 
Karṇapīḍāsana          13 * 8 
——————————————-
ūrdhva Padmāsana              13 * 9 
 
Piṇḍāsana                 13 * 9
——————————————–
Matsyāsana          14 * 8  
—————————————-
Uttāna Pādāsana       13 * 8 
śīrṣāsana          13 * 8 
Baddha Padmāsana        13 * 8   
—————————————-
Yoga mudra          14 * 9  
Padmasana             13 * 8    
Uth Pluthi            14 * 8 

(continua)

di Anthony Grim Hall

traduzione e commenti di Francesca d’Errico

 

Hatha Yoga, la ricerca di uno standard

… Ovvero standardizzare ciò che non ha standard

Recentemente mi sono occupata su queste pagine della difficile situazione dello Yoga e degli organismi che tentano di creare degli standard per l’insegnamento di questa disciplina (come la Yoga Alliance). Scorrendo l’interessante blog di James Dylan Russell, ho scoperto che anche in UK, dove mi sono formata come insegnante dieci anni fa, la situazione si sta complicando, riflettendo un dilemma che sta diventando di proporzioni globali. La domanda che si pone sempre più frequentemente, soprattutto tra praticanti avanzati e insegnanti, è se è davvero possibile identificare degli standard che qualifichino all’insegnamento dello Yoga, e sotto quale egida debba finire la nostra amata pratica. In Italia, al momento sembra che il CONI stia per cambiare idea togliendo lo Yoga dalle discipline sotto il suo patrocinio, azione che getterebbe non poco scompiglio a livello organizzativo e fiscale per quasi tutte le scuole italiane (sebbene io stessa nutra delle perplessità sull’inserimento dello Yoga tra le discipline sportive, principalmente perché la sua caratteristica è proprio l’assenza – almeno come principio – di competizione nella pratica).

Anche all’estero la situazione si fa difficile. Si direbbe che, un po’ ovunque, le amministrazioni pubbliche abbiano “fiutato” nel dilagare dello Yoga aria di business, e più che interessarsi alla qualità dell’insegnamento, rivolgano la loro attenzione a come tassare quella che probabilmente ritengono una fonte di guadagni (ahimé assai scarsi, e chi lavora seriamente lo sa) finora passata inosservata. In realtà, e chi insegna lo sa bene, a guadagnare non sono quasi mai scuole ed insegnanti, che si limitano a restare a galla, ma i business paralleli allo yoga, che sfruttano la sua attuale popolarità in modo più o meno onesto. Ma questa sarebbe materia di un altro post: quello che mi ha colpito nell’articolo di James è invece l’aspetto filosofico che sottende la questione, ovvero se sia davvero possibile, in quale misura e da parte di chi, creare uno standard identificativo per chi insegna con serietà e passione. Lascio a voi le riflessioni del caso, e traduco qui di seguito il bellissimo lavoro di James.

Hatha Yoga Pradipika – immagini di Global Hindus

“La comunità Yogica britannica si è recentemente trovata a discutere in modo acceso la proposta governativa di creare degli standard occupazionali nazionali per l’insegnamento dello Yoga (National Occupational Standards, NOS). Molti insegnanti mettono in dubbio le capacità dell’organizzazione preposta all’identificazione di questi standard, la Skills Active (SA), che sta rivolgendo la sua attenzione proprio alle forme di Hatha Yoga.

‘Il NOS si limiterà a coprire l’insegnamento dei principi fondamentali dell’Hatha Yoga, e non intende controllare o classificare i singoli insegnanti, le loro pratiche e il loro credo. Il processo di sviluppo del NOS si concentrerà sull’insegnamento dell’hatha yoga, che non prevede pregiudizi, scopi o obiettivi religiosi, quindi promuoverà lo yoga in senso inclusivo, aperto ad ogni fede e non confinato ad una sola’ (C. Larissey, Standards & Qualifications, SA)

Da praticante di Hatha Yoga, questa dichiarazione mi porta a considerare:

  1. Quali sono, ed esistono, i “principi fondamentali dell’Hatha Yoga”?
  2. E’ corretto dire che l’hatha yoga non ha pregiudizi, scopi o obiettivi religiosi?

Cos’è l’Hatha Yoga?

Hatha Yoga è una definizione generica che denota una serie di tecniche fisiche ed energetiche che facilitano l’esperienza dello Yoga. ‘Hatha’ è un termine sanscrito che significa ‘forza’. Tradizionalmente, il termine “qualifica gli effetti delle sue tecniche, piuttosto che gli sforzi richiesti per eseguirle” (Birch, 2011). Per esempio, l’esperienza dell’energia ascendente della kundalini attraverso l’asse centrale del corpo potrebbe essere definita una di queste ‘forze’.

Una interpretazione alternativa, e più recente, fornita da Sri K. Pattabhi Jois, recita:

“Per comprendere il termine Hatha, dobbiamo sapere che ‘ha’ identifica Surya Nadi (il canale energetico solare), e ‘tha’ Chandra Nadi (il canale energetico lunare). Il processo di controllo del prana (respiro) che si muove attraverso queste due nadi è conosciuto come Hatha Yoga”.

Entrambe le interpretazioni puntano ad una metodologia di trasformazione fisica, in cui l’energia sottile è diretta all’obiettivo ultimo, ‘moksa’ – o la liberazione dello/a yogin durante la sua esistenza terrena.

Origini

“Ode a Sri Ganesha/l’Hatha-pradipika è ora composto/mi inchino a Sri Adinath – Shiva, che propagò la saggezza dell’Hatha Yoga, che è considerata la scala per raggiungere il più alto stato del Raja Yoga” (Hatha-pradipika 1.1)

L’Hatha Yoga si è sviluppato originariamente nel nono-decimo secolo ed è una sintesi di Tantra e Ascetismo, che consolida un vasto spettro di tecniche che si concentrano sul contenimento dell’energia sottile; trattenimento del seme e risveglio di una potente energia spirituale – ‘kundalini sakti’. I pionieri dell’hatha yoga erano asceti che vivevano ai margini della società indiana. Inizialmente, i loro insegnamenti venivano trasmessi oralmente, e a partire dall’undicesimo secolo vennero trascritti in sanscrito. L’Hatha Yoga crebbe quindi in popolarità attirando a sé seguaci Induisti, Buddisti, Jainisti, Musulmani e Sufi. Uno dei primi manuali illustrati di hatha è un testo persiano chiamato ‘Bahr al-hayat’ – Acqua di Vita (1602).

Sebbene l’interesse nell’hatha yoga incontri un declino tra il 18esimo e il 19esimo secolo, il 20esimo secolo mostra un rinascimento di questa disciplina, capeggiato da maestri come T. Krishnamacharya, Swami Kuvalayananda e Swami Sivananda, che combinano l’hatha con lo Yoga di Patanjali, i Neo-Vedanta e il Tantra.

Nel convergere con la modernità, i parametri e l’identità dell’hatha sono mutati, e molti dei suoi elementi più estremi ed esoterici si sono persi. L’automortificazione si è intersecata con la cultura fisica occidentale: il patriarcato con il femminismo e la rinuncia con il consumismo. La pratica che ne è emersa promuove l’hatha come un’attività che mira alla salute e al benessere a tutto tondo. In questa nuova veste l’hatha yoga è stato esportato con successo in occidente, dove vive una rinnovata popolarità.

L’Hatha moderno

Contemporaneamente, lo yoga transnazionale è spesso caratterizzato dall’enfatizzazione degli asana – posizioni, al punto che per molti la parola ‘hatha’ è diventato sinonimo di posture:

“Hatha si riferisce semplicemente alla pratica delle posizioni fisiche dello yoga, quindi Ashtanga, Vinyasa, Iyengar e Power Yoga sono tutti appartenenti all’Hatha Yoga” (YogaJournal.com – n.d.t.: e questa definizione superficiale arriva dalla testata di Yoga più famosa al mondo. Aiuto).

I ricercatori hanno coniato il termine ‘Yoga Posturale Moderno’ per distinguere questo approccio dal più vasto sistema dell’hatha yoga. Per alcuni insegnanti, ‘hatha’ può sembrare un’etichetta sempre più ridondante e legata a un sistema medievale che ha ben poco a che fare con la loro personale interpretazione dello yoga. Molti altri insegnanti continuano ad allineare il loro yoga con l’hatha, ed è uso comune trovare l’hatha yoga nell’orario di centri o palestre – termine che solitamente denota una lezione facile, che può contenere una varietà di pratiche.

L’Hatha Yoga è alla fine un concetto amorfo, generico, in cui il significato è costruito, formato e adattato attraverso le pratiche e le esperienze condivise da chi vi partecipa.

I principi fondamentali dell’Hatha Yoga?

Tra i testi principali e fondamentali dell’hatha yoga sono riconosciuti: ‘Hatha-pradipika (15esimo secolo), ‘Siva Samhita (16esimo) e ‘Gheranda Samhita’ (17esimo). Sono testi che descrivono in dettaglio molti dei gruppi chiave delle pratiche comuni a quasi tutte le tradizioni:

  • Yama & Niyama – restrizioni etiche e osservanze individuali (HP)
  • Asana – posture (HP, GS)
  • Sat-karma/Kriya – purificazioni (HP, GS)
  • Mudra & Bandha – continimento delle energie sottili (HP, GS, SS)
  • Pratyahara – ritiro sensoriale (GS)
  • Pranayama & Kumbhaka – regolazione/sospensione del respiro/forza vitale (HP, GS)
  • Dhyana – meditazione (HP, GS, SS)
  • Samadhi – chiara percezione (HP, GS, SS)

Sebbene queste componenti formino la base pratica dell’hatha yoga, la definizione ‘principi fondamentali’ è inadatta, poiché le pratiche non sono prescritte come pre-requisiti assoluti o soggetto di fede.

All’interno del più vasto contesto dello yoga, alcuni autori hanno posizionato l’hatha come ausiliario alla pratica del raja yoga (yoga regale) che viene variamente ascritto al Tantra o allo Yoga di Patanjali: “Non è possibile avere successo nel Raja Yoga senza Hatha, e viceversa” (Hathatatvakaumudi 2.28)

Spiritualità rappresentata

A differenza di tradizioni yogiche antecedenti, in cui il corpo è respinto come un ostacolo alla liberazione, gli hatha yogin utilizzano il corpo come strumento per la liberazione, e in virtù del loro ‘sadhana’ (pratica), trasformano il ‘ghata’, il vascello corporeo, da mondano a divino.

“L’Hatha Yoga non cerca la mera esperienza trascendentale. Il suo obiettivo è trasformare il corpo umano rendendolo un veicolo utile alla realizzazione individuale”. (Fuerstein 1990)

La concezione del corpo è metafisica: è percepito come una sottile matrice di canali e vortici energetici, attraverso i quali l’energia spirituale e il potenziale super-umano posso essere percepiti e resi manifesti.

“Il corpo non è, per l’hatha yogin, mera massa di materia vivente, ma ponte mistico tra esistenza fisica e spirituale” (Aurobindo, 1970)

Pregiudizio religioso

  1. “Religione: una serie di credo relativi alla causa, alla natura e allo scopo dell’universo, specialmente quando lo si considera la creazione di uno o più agenti super umani, solitamente comprensiva di osservanze e rituali votivi, e spesso contenente un codice morale che governa la condotta delle vicende umane.
  2. Una specifica serie di credo e pratiche generalmente concordate da un numero di persone o da sette: la religione cristiana, la religione buddista.
  3. Un corpo di individui che aderiscono ad una particolare serie di credo e pratiche.” (dictionary.com)

Se ci basiamo sulle definizioni sopra elencate, l’hatha yoga corrisponde a molti dei criteri di una religione:

1.  Una serie di divinità e agenti sovrannaturali vengono citati in seno alla sua letteratura. Queste entità sono generalmente associate all’Induismo, o al suo vernacolo precedente, ‘Sanatana-Dharma’.

“Una volta avvicinai Brahma, che sedeva su un fiore di loto, dotato di quattro volti, eterno e non deperibile, creatore del mondo e di tutti i suoi oggetti animati e inanimati, noto come ‘parameshti’. Esprimendogli la mia devozione e prostrandomi dinanzi a lui con riverenza, gli chiesi della materia (lo Yoga) di cui voi mi chiedete ora” (Yoga Yajnavalkya 1.17-18).

Sebbene il panteon delle divinità frequenti i testi dell’hatha, e le pratiche votive facciano parte del sadhana di alcuni yogin, le tecniche non sono settarie. Il credo in dottrine teologiche o nell’eziologia è opzionale, così che il successo nell’hatha yoga non dipende dalla fede o dalla provvidenza divina. Un ‘codice morale che regola le vicende umane’ è presente nel corpo dei dieci Yama e dieci Niyama, restrizioni etiche e osservanze individuali (in modo simile, l’Ashtanga Yoga di Patanjali contiene 5 yama e 5 niyama).

“Per essere degni di insegnare, gli studenti devono prima rispettare i requisiti morali noti come Yama e Niyama, pre-requisiti morali allo studio dello Yoga” (Theos Bernard, 1950).

2. I praticanti partecipano ad una varietà di pratiche, condividendo e affermando il credo fondamentale che tali pratiche abbiano il potenziale di facilitare la crescita individuale. La struttura di una tipica lezione moderna di yoga è altamente ritualizzata e i temi della trasformazione e della trascendenza restano centrali. Robert Orsi ha classificato queste tipologie di esperienze e narrative condivise come “religione vissuta”.

3. La comunità globale dei praticanti di hatha è un esempio di “gruppo di persone che aderiscono ad una particolare serie di credo e di pratiche”.

Sebbene il pregiudizio religioso possa essere dimostrato con certezza, l’hatha yoga è sempre stato inclusivo – attirando e accogliendo praticanti provenienti da una moltitudine di fedi e comunità:

“Che sia un bramino, un asceta, un buddista, un jainista, un portatore di teschi o un materialista, il saggio che si impegna con fede e devozione costante alla pratica dell’hatha yoga sarà premiato con il successo” (Dattatreyyogasastra – il testo più antico sull’insegnamento dell’hatha yoga).

Scopi e obiettivi

Storicamente l’hatha yoga ha un definito proposito, che è condiviso in tutte le tradizioni: ‘Moksa’, la liberazione dall’inerente ‘Duhkham’, difficoltà del ‘Samsara’, l’esistenza terrena.

“Non c’è altra via se non lo yoga, che porta alla liberazione dell’essere umano” (Hathatatvakaumudi, 1.18)

Gli scopi associati dell’hatha yoga (passato e presente), includono: la trascendenza, l’immortalità, un corpo adamantino, il benessere, la buona salute, il contenimento del seme, i poteri soprannaturali, la pace mentale, la meditazione, la regolazione del respiro, la realizzazione individuale, l’illuminazione e la terapia. Tutte queste aspirazioni condividono la fondamentale premessa che l’hatha yoga sia un mezzo per la crescita individuale.

Conclusione

L’Hatha Yoga è un cammino di trasformazione fisica e liberazione spirituale. Sebbene il termine ‘principi fondamentali’ sia inappropriato, esistono serie distinte di tecniche comuni a molte tradizioni. Comunque, nessuna di queste parti è obbligatoria, ed è presente una considerevole libertà di adattamento e innovazione.

L’Hatha Yoga si è evoluto attraverso le lenti filosofiche e la visione del mondo del Sanatana Dharma, e, in ciò, è dimostrabile un pregiudizio. Ha inoltre definiti scopi e obiettivi. I temi della trasformazione personale, della trascendenza, della meditazione e della liberazione sono durevoli e persistenti. Un buon numero di praticanti sceglie di seguire l’hatha yoga insieme ad altre forme di yoga, spiritualità e indagine personale.

Tuttavia, per alcuni praticanti contemporanei, l’hatha yoga non è un’attività religiosa né spirituale. Un’interpretazione popolare dello Yoga è concepirlo come una serie di esercizi respiratori e di allungamento per il raggiungimento della forma fisica e della salute. Alcuni rigettano interamente il termine Hatha e la sua associazione con un sistema arcaico che ha ben poco in comune con la loro pratica.

Quindi: mentre per alcuni l’hatha yoga è una pratica religiosa, o un’aggiunta ad altre forme di religione e spiritualità, per altri non lo è. Entrambe le prospettive sono valide e importanti. La libertà ideologica si è alimentata in tutta la storia dell’hatha yoga e ritengo sia cruciale continuare ad onorare e rispettare la nostra diversità collettiva.

Nella dichiarazione rilasciata originariamente da Skills Active si dice che il NOS “non intende controllare o classificare i singoli insegnanti, le loro pratiche e il loro credo”. Tuttavia la stessa dichiarazione descrive l’hatha yoga come privo di “pregiudizio, scopo o obiettivo religioso”. Sembra esserci una contraddizione dovuta ad una scarsa comprensione della pratica stessa.

La mia preoccupazione è che se lo standard proposto si concentrasse principalmente sulla pedagogia posturale, sarebbe riduttivo e fallirebbe nell’assimilare l’immenso scopo dell’hatha yoga. Non possiamo ignorare significato, cultura, costumi e testi che appartengono a una tradizione che ha migliaia di anni. Allo stesso modo, non possiamo ignorare i mille diversi modi in cui le persone oggi scelgono di costruire significato e identità nel partecipare alle metodologie di questa tradizione. L’Hatha Yoga è un fenomeno transnazionale che affonda le sue radici nelle tradizioni spirituali dell’Asia meridionale. Come tale, ritengo che dovrebbe essere considerato in seno ad un contesto globale e dalla prospettiva dei suoi partecipanti, insegnanti, ricercatori e degli yogin indigeni.

Mi oppongo al tentativo che una minoranza che si è autoeletta imponga la sua interpretazione dello yoga su una vastissima comunità. Uno standard per l’hatha yoga che manchi di considerare l’intera vastità delle sue pratiche e la diversità dei suoi praticanti, finirebbe per legittimare la secolarizzazione, la diminuzione e la trivializzazione di una tradizione vibrante e viva.

“Non esiste uno standard per l’insegnamento dell’hatha yoga, perché non esiste uno standard per la pratica dell’hatha yoga”.

– James Dylan Russell

James Dylan Russell

Traduzione e commenti, Francesca d’Errico

Luna piena e Luna nuova: praticare o no?

“Si ritiene che la luna, per esperienza diretta, influenzi non solo gli oceani ma tutto ciò che è composto d’acqua, e di conseguenza anche il cervello umano”  (C.16, Moon Lore)

Chi di noi non si è mai sentito influenzato dalle fasi della luna? La luna influenza le maree e, nei detti popolari, tutto ciò che è composto d’acqua. Dunque, perché no, anche noi. Tuttavia nell’Ashtanga Vinyasa Yoga, questo detto è diventato una regola, e da sempre noi praticanti ci asteniamo dagli asana nei giorni di luna piena e luna nuova. Il motivo? Ce lo spiega oggi James Dylan Russell, che ha effettuato un’accurata ricerca tra testi antichi e ricerche scientifiche. E al termine dell’articolo, la mia personale e modesta opinione. Che forse ribalterà tutto ciò che leggerete.

“Questo mese ho condotto una lezione durante la fase di luna piena. All’inizio della mia lezione, uno studente ha informato il gruppo della ricorrenza di questa particolare fase lunare e mi ha chiesto se ritenessi opportuno praticare asana. Era preoccupato che questa fase lunare potesse renderci più inclini agli infortuni.

Gli ho spiegato che sebbene nell’Ashtanga Vinyasa Yoga sia consuetudine evitare la pratica durante le fasi di luna piena o nuova, questa particolare abitudine non faceva parte degli insegnamenti che avevo ricevuto. Ne è nata un’accesa discussione sulla possibile influenza delle fasi lunari non solo sulla pratica yoga, ma in generale sulla nostra vita. Sebbene non potessi offrire una spiegazione razionale per astenersi dalla pratica degli asana durante la luna piena o nuova, mi sono ritrovato a riflettere se non fosse il caso di praticare in modo più morbido e gentile.

“Nella tradizione dell’Ashtanga Yoga, da sempre è consuetudine riposare e astenersi dalla pratica degli asana durante i giorni di Luna piena e Luna nuova” (Jois Yoga)

La spiegazione più popolare e al tempo stesso più controversa per l’osservanza dei cosiddetti “moon days”, nasce dalla supposizione che la forza gravitazionale della luna influenzi i cicli respiratori:

“Come tutte le cose di natura acquatica (gli esseri umani sono composti per il 70% di acqua) siamo influenzati dalle fasi lunari. Sia il sole che la luna esercitano una forza gravitazionale sulla terra. Le loro posizioni creano esperienze energetiche diverse che possono essere paragonate ai cicli della respirazione. La luna piena corrisponde al culmine dell’inspirazione, quando la forza del prana è alla sua massima espressione. E’ una forza espansiva e diretta verso l’alto, che ci fa sentire carichi di energia e molto emotivi, ma ci rende poco stabili. Nelle Upanishad, si ritiene che il prana principale risieda nella testa. Durante la luna piena, siamo più caparbi”. (Ashtanga Yoga Center)

James Dylan Russell

Sebbene questa spiegazione possa risultare credibile, si basa su inesattezze scientifiche e mitologia popolare. E’ vero che le masse composte d’acqua, come gli oceani, sono influenzate dalle forze gravitazionali della luna, ma tali forze non sono collegate alle fasi lunari. Il grado di forza gravitazionale dipende dalla massa della luna e dalla sua distanza dalla terra. La massa rimane costante, e la distanza fluttua ogni mese tra perigeo (distanza minima dalla terra) e apogeo (distanza massima). Il perigeo e l’apogeo possono avere luogo in un qualsiasi momento delle fasi lunari. 

Non esiste una spiegazione per cui “l’energia della luna piena” corrisponda al culmine dell’inspirazione, né per cui la “forza del prana” (un altro concetto problematico per lo scienziato materialista) sia al suo massimo durante questa fase del ciclo respiratorio. Anche se accettiamo, attraverso lo studio dell’Hatha Yoga, l’asserzione che il prana (vayu) sia una sottile forza energetica ascendente, non esiste una correlazione dimostrabile tra questo tipo di energia e la forza gravitazionale della luna.

La fallace logica popolare vuole che, in questa fase mensile, un eccesso di prana renda il praticante più caparbio, e quindi più prono agli infortuni: “Tradizionalmente, l’Ashtanga Yoga non viene insegnato nei giorni di luna piena o nuova, poiché in questi giorni è più alto il rischio di infortuni” (Ashtanga Yoga London). Ma questa teoria solleva più domande che risposte, e soprattutto non esiste uno studio che provi la ricorrenza di un maggior numero di infortuni legati alle fasi lunari.

“Moon days” e astrologia

Il concetto di “moon day” ha le sue origini nell’astrologia indiana: Joytisha (che in sanscrito significa “luce” o “corpo celeste”). All’interno del Joytisha troviamo tithi, il nome di un giorno lunare, o il tempo che occorre all’angolo longitudinale tra luna e sole per aumentare di 12 gradi. Questo processo può richiedere tra le 19 e le 26 ore. Una traduzione accurata la definirebbe una “fase lunare”.

“Dalla prospettiva del nostro maestro (Sharath Jois), i giorni di luna piena e luna nuova corrispondono al 15esimo e 30esimo tithi del sistema astrologico indiano (Joytish)”. (Jois Yoga)

All’interno di questo sistema, troviamo approssimativamente 30 tithi ogni mese. Ogni fase è presidiata da una specifica divinità, e da una varietà di attività favorevoli. Il tithi della luna nuova si chiama Amavasya, e quello della luna piena Purnima. Durante la luna nuova si raccomandano pratiche di austerità, e durante la luna nuova si incoraggiano cerimonie di buon augurio.

Nel Joytisha, la luna è solitamente associata alla mente. In modo simile, nell’astrologia occidentale, la luna corrisponde agli stati emotivi, al subconscio e alla memoria. Mallinus, poeta del primo secolo, descriveva la luna come “malinconica”, e la luna è spesso associata alla follia e alle intossicazioni (n.d.t. vedi anche nella simbologia dei Tarocchi, che saranno argomento di un mio prossimo post). La paura della luna è uno spettro oscuro che risiede nelle profondità della nostra psiche collettiva, e attraverso la storia troviamo una serie di mali e pazzie attribuiti alle influenze della luna. La parola “lunatico” (n.d.t. che in inglese ha il significato letterale di ‘pazzo’) deriva proprio dalla radice della parola “luna”.

Come avviene per l’astrologia occidentale, anche l’astrologia indiana è sempre stata messa al bando dalle comunità scientifiche, che non sono in grado di “provare” la maggior parte delle sue affermazioni.

I Moon Days nella tradizione Yoga

Nella tradizione dell’Hatha Yoga, da cui derivano alcune delle pratiche dell’Ashtanga, è noto che i testi inizino con una serie di severe avvertenze e indicazioni per la pratica, molte delle quali oggi ci sembrano arcaiche o misogine. Per esempio, l’Hatha Pradipika del 15esimo secolo cita: “E’ opportuno evitare la compagnia di persone malvagie, il fuoco, le donne, le lunghe passeggiate, il bagno al mattino, saltare i pasti e fare attività fisica troppo intensa”. (HP 1.49)

A queste indicazioni si aggiungevano suggerimenti sul luogo in cui praticare, sull’alimentazione da seguire, sulle stagioni, oltre a severe avvertenze su cosa sarebbe accaduto contravvenendo a tali indicazioni.

Sebbene non abbia ancora trovato un testo in cui vengano date precise indicazioni su come praticare durante le fasi lunari, candra, la luna, è certamente un simbolismo ricorrente nell’Hatha Yoga. Candra è spesso associata al passaggio delle energie sottili conosciuto come Ida Nadi, ed è inoltre definito come la fonte di bindu o amrta che risiede nella corona della testa. Lo Yoga Bijia fornisce in epoche più recenti una creativa interpretazione del termine Hatha, in cui Ha sta per sole, e Tha per luna.

Candra è spesso sinonimo di passivo, inerte, freddo. Nello Yoga Yajnavalkya si consiglia di assumere una postura stabile e confortevole “dirigendo lo sguardo verso la punta del naso, concentrandosi sempre sui raggi freddi della luna, con il flusso del nettare dalla cima del capo” (YY 5.15).

L’osservanza dei Moon Days non appartiene alla tradizione dell’Hatha Yoga, quindi, né all’Ashtanga di Patanjali, da cui si ritiene che derivi, filosoficamente e metaforicamente, l’Ashtanga Vinyasa. Il solo, esplicito riferimento alla luna negli Yoga Sutra di Patanjali si trova nel terzo libro, in cui il saggio asserisce che dalla meditazione sulla luna “deriva la conoscenza dei moti delle stelle” (YS 3.28). Nel commento degli Yoga Sutra di Vacaspati Misra, nel decimo secolo, troviamo la metafora di Purusa paragonata al riflesso della luna nell’acqua.

Una Tradizione dell’Ashtanga Yoga?

Sri K. Pattabhi Jois, “Guruji”

E’ probabile che la tradizione di astenersi dalla pratica durante i Moon Days appartenga agli elementi introdotti da Sri K. Pattabhi Jois. Il suo maestro, T. Krishnamacharya, non li osservava durante la pratica, né li menziona nella sua immensa opera del 1934  Yoga Makaranda (n.d.t. Il Nettare dello Yoga, in italiano edito da Ubaldini). Qualche anno fa, ho partecipato ad un seminario di un allievo diretto di Krishnamacharya, Srivatsa Ramaswami. Quando gli abbiamo chiesto come comportarci durante i Moon Days, Ramaswami ci ha riferito che, nei suoi 30 anni di pratica con Krishnamacharya, non era uso astenersi dalla pratica in concomitanza delle fasi lunari, né il maestro vi faceva alcun riferimento. Alla nostra insistenza, Ramaswami ha risposto che questa usanza deriva probabilmente da un’epoca in cui l’insegnamento dello Yoga era affidato prevalentemente alla casta dei Bramini, figure molto religiose. Nei giorni di luna piena e luna nuova, i Bramini avevano (e hanno) funzioni religiose specifiche da osservare, e in quei giorni non potevano insegnare. Ci si aspettava comunque che i loro allievi continuassero a praticare anche nei giorni privi di lezioni.

Questa considerazione mi ricorda una lettera di Eddie Stern a Barry Silver, pubblicata nel 2014: “L’osservanza di questi giorni da parte di Pattabhi Jois è molto semplice. Come sapete, il Maharaja’s Pathashala (il Sanskrit College) di Mysore era chiuso sia durante i moon days, che il giorno prima e il giorno dopo. Gli studenti proseguivano i loro studi, ma non venivano impartite lezioni. Il motivo è che durante amavasya e purnima, insegnanti e studenti (tutti Bramini) spesso in quei giorni doveva svolgere delle funzioni religiose, come il pitr tarpana durante amavasya e il bagno rituale nel giorno successivo al moon day, rituali che richiedevano tempo per essere praticati. Pattabhi Jois è stato prima studente al Maharaja’s Pathashala e poi insegnante, dal 1937 al 1973. L’osservanza di questi rituali era parte integrante delle sue abitudini”. 

Il nome Jois è un’interpretazione dell’India del Sud del termine Joytish, e l’astrologia era parte delle tradizioni della famiglia di Guruji. Nel suo libro Yoga Mala, del 1962, l’unico riferimento ai giorni di luna è in merito alla pratica del Brahmacarya, la condotta sessuale. Jois raccomanda che i giorni dedicati a questa pratica coincidano con quelli di massima fertilità della donna, poiché “l’unione con la propria compagna dovrebbe essere indirizzata alla procreazione”. Pattabhi Jois non fa riferimento all’astensione dalla pratica degli asana in quei giorni.

In conclusione

La mia teoria è che Pattabhi Jois non insegnasse nei giorni di luna, perché impegnato in altre pratiche al tempio o in casa, e in seguito perché ormai abituato a riposare durante quei giorni.  Nel tempo, questa sua abitudine è diventata una consuetudine tra i suoi praticanti, che sono determinati a rispettarne la tradizione. Una simile interpretazione è forse più credibile che non l’associare il flusso del prana alle fasi lunari. Forse i praticanti di Ashtanga con gli anni hanno voluto dare una loro interpretazione ai giorni di luna, creando una sorta di mitologia al riguardo.

Le considerazioni di natura astrologica danno alla pratica dell’Ashtanga un forte valore simbolico. Praticare 6 giorni a settimana, riposando nelle fasi lunari, per 52 settimane all’anno, connota la pratica di un simbolismo di dimensioni cosmiche. Comunque, asserire che “è sempre stato tradizione, nell’Ashtanga Yoga, non praticare nei giorni di luna piena e nuova” è un’interpretazione libera del termine “tradizione” e una combinazione con la precedente tradizione dell’Ashtanga Yoga di Patanjali, in cui i giorni lunari non sono contemplati. L’Ashtanga Vinyasa (n.d.t.: o meglio chi se ne fa portavoce) spesso si appella alla “tradizione” per garantire la propria autorità e autenticità, tuttavia i suoi protocolli raramente hanno riscontro nell’analisi dei testi antichi.

L’osservanza delle fasi lunari ha quindi più a che fare con la tradizione astrologica e i rituali dei Bramini, che non con la pratica dello Yoga. Non esistono prove scientifiche a supporto di questa tesi. Ci sono molte cause legate agli infortuni sul tappetino, ma le fasi lunari non hanno voce in capitolo. E attribuire alle fasi lunari un infortunio sarebbe un po’ come togliere a noi praticanti la responsabilità delle nostre azioni. C’è sicuramente un valore nell’attenersi al rispetto del parampara, ma al tempo stesso è importante prendere le distanze da dogmi e superstizioni. Io ho spesso praticato Ashtanga e altri metodi di yoga nei giorni di luna e non ho notato nessun particolare problema. Certo è che se pratichiamo convinti che ci accadrà qualcosa, molto probabilmente questo qualcosa avverrà. Il mio consiglio perciò è di praticare senza preoccuparsi della luna!”

James Dylan Russell

N.d.T.: Per quanto riguarda me, come donna da sempre interessata sia allo Yoga che all’astrologia e alla scienza, personalmente ho notato che il mio corpo e la mia mente sono più instabili durante le fasi di perigeo e apogeo, che non durante le fasi di luna piena o nuova. Detto questo, mi piace e continuerò a rispettare la tradizione dei Moon Days, perché Sri K. Pattabhi Jois per me resta il più grande maestro dello Yoga contemporaneo dopo T. Krishnamacharya, e perché astenendomi dalla pratica in quei giorni, mi sembra in qualche modo di onorare la sua memoria. E per me, questo è abbastanza: né dogma né superstizione, ma affettuosa memoria. Possiamo cercare spiegazioni scientifiche a qualsiasi aspetto dell’Ashtanga Yoga, ma esso resta, almeno per me, ammantato della magia che avviene quando si pratica un rito in cui si ha fede, perché negli anni se ne è sperimentato, su corpo e mente, l’effetto. Onorare una tradizione, per quanto recente, se fondata da un maestro in cui si ha fiducia ha una valenza non tanto superstiziosa, ma simbolica. E il potere dei simboli sul benessere psicofisico, seppur sfuggente alle logiche scientifiche, è da sempre innegabile.

– Francesca d’Errico

Il motivo migliore per praticare: nessun motivo

David Garrigues

Questa mattina ho aperto la mia mail e come sempre ho trovato molti messaggi provenienti da insegnanti di Yoga di tutto il mondo. Mi sono iscritta alle loro newsletter perché mi piace ricevere ogni giorno uno spunto di riflessione, uno stimolo alla ricerca, un motivo in più per praticare.

Quindi la mail di David Garrigues, oggi, mi ha particolarmente stupito perché il titolo recitava proprio così: il miglior motivo per praticare è nessun motivo.

Ma come? Non cerchiamo ogni giorno una motivazione in più per metterci sul tappetino, anche quando abbiamo dormito male, mangiato troppo, ci siamo stressati e innervositi per ragioni ben poco yogiche? Non abbiamo sempre bisogno di ripeterci qualcosa che ci ricordi quanto la nostra pratica sia importante? Il messaggio di David, che attraverso le sue provocazioni stimola sempre un pensiero in più, sembrava suggerire tutto il contrario. Lo riporto in italiano, perché mi ha fatto riflettere, e alla fine… mi ha fatto dimenticare di riflettere, e venire voglia di mettere i piedi nudi sul tappetino, senza dovermi nemmeno chiedere perché. E accendendo di colpo la lampadina sulla famosa frase di Sri K. Pattabhi Jois: “Lo Yoga è 1% teoria, e 99% pratica”. Buona lettura!

” La pratica è importante perché ci porta oltre la teoria, dentro l’esperienza. Esperienza della conoscenza sacra ed esoterica del Sé. Sri K. Pattabhi Jois, il fondatore dell’Ashtanga Yoga, enfatizzava ripetutamente la differenza tra la conoscenza teorica e l’esperienza pratica della conoscenza.  

I praticanti di Ashtanga yoga sono rinomati per la serietà con cui affrontano la pratica. Seguiamo religiosamente la ricetta di due o più ore di pratica per sei giorni alla settimana. Alcuni di noi (parecchi in realtà) si alzano ad orari assurdi (intorno alle 3 del mattino) per ritagliarsi uno spazio di tranquilla solitudine in cui praticare. C’è da chiedersi da dove arrivi l’energia per sostenere un programma così estenuante… 

Praticate solo perché avete voglia di praticare. Punto. Non fatelo per un motivo particolare; non perché state seguendo una tradizione, non perché volete dimagrire, essere in forma, divertirvi, stare bene, crescere spiritualmente, realizzarvi, o mostrare devozione. No, nessuno di questi motivi.  

Bandite qualsiasi “motivo” vi venga in mente per avere la spinta necessaria a mettere piede sul tappetino. 

Capiamo di aver trovato qualcosa di importante per noi quando sentiamo la voglia di farlo, senza un motivo particolare: semplicemente, non abbiamo altra scelta. Riusciamo in qualche modo a trovare il tempo per praticare, leggere, studiare, ascoltare, contemplare, riflettere, o essere in qualche modo connessi con la materia che ci interessa. Se parliamo di Yoga, questo significa cercare un maestro e usare qualsiasi mezzo in nostro possesso per conoscere, poco a poco, sempre qualcosa in più. Siamo alla ricerca di qualcosa che ci permetta di penetrare in quello che Kabir definisce “il nostro corpo ignorante”.   

Pensate a quando eravate bambini. Facevate le cose senza motivo, spontaneamente, senza pensare a cosa avreste ottenuto da una qualsiasi azione, né a migliorare voi stessi. Non avevate bisogno di convincervi, vi capitava qualcosa di bello sotto mano, e cominciavate a giocarci. Non appesantite la vostra pratica con un motivo. 

Come dice Kabir:

“Chi spera in un motivo, fallirà. 

L’arroganza della ragione ci ha separato dall’amore. 

La parola stessa “ragione” ci allontana inesorabilmente.” 

Non avete bisogno di un guru, di profondità psicologiche, di rivelazioni penetranti o improvvise per rivoluzionare la vostra anima. E’ così semplice e facile semplicemente scegliere di vedere, è quasi un solletico difficile da afferrare. Come direbbe Alan Watts, “Non potete mordervi i denti”.   

Cercare un motivo in più, come se potesse renderci più forti, ci allontana dall’obiettivo ed è una vera tragedia, perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un battito di ciglia, e un sorriso malizioso. 

– David Garrigues, maggio 2017

Traduzione e commenti Francesca d’Errico

Praticare in Italia: Ashtanga Yoga Napoli, la tradizione sotto il Vesuvio

Prosegue il mio personale giro d’Italia nello Yoga con una città a cui sono particolarmente affezionata, perché la mia famiglia affonda le sue radici proprio lì: la meravigliosa Napoli, cuore appassionato del nostro Paese, città dall’anima ospitale e calda, dove la tradizione dell’Ashtanga è portata avanti con amore da Valerio Pandolfi e Cristiana Signorelli. Dall’austero mondo della giustizia (erano entrambi avvocati) sono arrivati allo Yoga guidati da maestri davvero eccezionali. Ecco la loro storia, e tutte le informazioni per raggiungerli e per partecipare a workshops davvero importanti, in calendario nei prossimi mesi.

Valerio Pandolfi e Cristiana Signorelli fotografati da Alessandro Sigismondi

FDE: Come nasce Ashtanga Yoga Napoli? Chi sono Valerio Pandolfi e Cristiana Signorelli, e come è nata la passione per lo Yoga e per il suo insegnamento?

VP: Mi sono avvicinato all’Ashtanga Yoga per curiosità, grazie al libro di David Swenson, ma la mia prima maestra in assoluto è stata Nancy Gilgoff. E’ bastata una sola classe nella sua shala a Maui, Hawaii, per decidere che avrei trascorso più tempo possibile in quel luogo, per apprendere da Nancy l’Ashtanga Yoga tradizionale, così come insegnatole, in maniera intima e personale, da Sri K Pattabhi Jois all’inizio degli anni Settanta. Dopo un primo periodo di due mesi, ho continuato, anno dopo anno, a recarmi alle Hawaii per lunghi cicli di studio con Nancy. Intanto, stanco del lavoro di avvocato, che stava assorbendo gran parte delle mie energie, non perdevo occasione per seguire, in Italia ed Europa, workshops e corsi di formazione per insegnanti, soprattutto con David Swenson e Manju Pattabhi Jois, figlio primogenito di Sri K Pattabhi Jois, il padre dell’Ashtanga Yoga. Non avevo intenzione di insegnare, volevo semplicemente ricaricarmi, perfezionare la tecnica ed apprendere l’arte dello Yoga da questi grandi Maestri. Un incidente in moto ha rischiato di interrompere bruscamente il mio percorso. A causa di una seria ernia cervicale, tutto il lato sinistro del corpo si era indebolito. Giunto al punto di non riuscire a reggere un bicchiere d’acqua, decisi di tornare da Nancy, alle Hawaii e dedicarmi completamente all’Ashtanga Yoga Therapy. Sapevo che lo Yoga si sarebbe preso cura di me. Avrei rincontrato anche Manju Jois, che sarebbe rimasto a Maui per un lungo periodo. Un giorno, durante il suo workshop, in una shala gremita di yogi esperti ed entusiasti, mi sono ritrovato “mat to mat” accanto a David Williams, l’uomo che, insieme a Nancy Gilgoff, ha presentato Sri K Pattabhi Jois e suo figlio Manju all’Occidente, negli anni Settanta. David Williams, venuto a salutare Manju, ha praticato insieme a noi e dopo la pratica ci siamo conosciuti e gli ho parlato del mio problema al collo. David mi ha invitato a nuotare con lui quello stesso pomeriggio, per mostrarmi alcuni movimenti in acqua che, accompagnati dalla pratica yoga quotidiana, mi avrebbero dato enorme sollievo. Abbiamo passato il pomeriggio insieme ed il feeling è stato immediato. Così, ho trascorso i successivi sei mesi studiando con Nancy di mattina e con David di pomeriggio: un’autentica full immersion! In quei mesi, David Williams mi ha insegnato il Pranayama, completo e tradizionale, così come insegnatogli da Sri K Pattabhi Jois nel 1973. Il Pranayama è diventato subito parte integrante della mia pratica quotidiana e sarò sempre grato a David per questo dono. Al termine di quella esperienza, ero guarito. A dire il vero, non mi ero mai sentito così bene e decisi di dedicarmi a tempo pieno alla condivisione di quanto appreso, con la benedizione di Nancy Gilgoff, David Williams e Manju Pattabhi Jois. Lo stesso Manju, dopo anni di studio e verificata la serietà delle mie intenzioni, mi ha autorizzato ufficialmente ad insegnare la Prima Serie e la Serie Intermedia dell’Ashtanga Yoga, nel rispetto del metodo di suo padre.

Ashtanga Yoga Napoli nasce dall’intreccio di questa storia con quella della mia compagna, Cristiana Signorelli.

CS: Pratico yoga da circa vent’anni. Mi resi conto che lo sport eccessivo, praticato fino ad allora, mi logorava il corpo e non mi calmava la mente. Approcciai diversi tipi di Yoga, ma nessuno, come l’Ashtanga, mi ha dato l’equilibrio e la consapevolezza di me stessa. Ho cambiato molti insegnanti di asana, ma i veri Maestri li ho incontrati alle Hawaii, dopo quindici anni di pratica: Nancy Gilgoff e David Williams. Sono stati loro a farmi davvero comprendere la magia dell’Ashtanga Yoga. Anche io facevo l’avvocato, ma per passione insegno ormai da quindici anni e mi gratifica sapere che alcuni dei miei ex alunni sono ora dediti all’insegnamento.

Ashtanga Yoga Napoli nasce dal desiderio di contribuire, nel nostro piccolo, a mantenere in vita gli insegnamenti di Krishnamacharya e Sri K Pattabhi Jois. Da cinquemila anni, l’Ashtanga Yoga ha dimostrato la sua efficacia e per questo motivo riteniamo essenziale restare fedeli alla tradizione e divulgare il metodo che ha portato enormi benefici alla nostra vita.

FDE: Avete studiato a lungo con Manju Jois, Nancy Gilgoff e David Williams. Ospiterete Nancy e David a breve. Cosa vi hanno trasmesso questi tre insegnanti? Il primo, figlio di Sri K. Pattabhi Jois; la seconda, una tra le prime occidentali ad incontrare Guruji nel lontano 1973…, il terzo, quasi una leggenda vivente…

VP: Manju Jois è una persona straordinaria: semplice, umile e sempre disponibile, ci ha trasmesso la leggerezza e la gioia della pratica. Inoltre, il suo immenso bagaglio gli consente di dispensare asana, come medicine, per ogni tipo di patologia, così come insegnatogli dal padre. Nancy Gilgoff ci ha trasmesso la tecnica, la disciplina e l’integrità dell’Ashtanga, oltre all’importanza della concentrazione, durante  tutta la pratica, sul flusso energetico. Il motto di David Williams è “if it hurts, you’re doing it wrong”. Lo Yoga serve ad aumentare il prana, l’energia vitale e niente riduce il prana più del dolore. Nel momento in cui inizia il dolore, finisce lo Yoga.

FDE: Napoli è una città piena di contraddizioni, anche frenetica e caotica. Qual è il profilo del praticante del vostro centro? E quale approccio suggerite a chi si avvicina allo Yoga per la prima volta?

CS: I Napoletani hanno un’energia vulcanica, che in molti casi non sanno incanalare: noi gli insegniamo a farlo attraverso il respiro, che li aiuta a riconnettersi con la loro parte più intima. Non smettiamo mai di ricordare, ai nostri allievi, l’importanza del respiro. La mente viaggia alla stessa velocità del respiro. Se il respiro si calma, la mente si calma ed il corpo si scioglie. Come ripeteva spesso Sri K Pattabhi Jois: “Body is not stiff, mind is stiff”.

FDE: Quale lettura Yogica ritenete indispensabile per il praticante moderno? E qual è il vostro insegnante di riferimento, oggi?

CS e VP: Il testo che consigliamo è “Pranayama, la dinamica del respiro” di Andre Van Lysebeth. I maestri di riferimento, con i quali continueremo a studiare, sono Manju Pattabhi Jois, Nancy Gilgoff, David Williams. Stimiamo molto anche David Swenson, altro grandissimo Maestro e fonte di grande ispirazione.

FDE: Quali sono o prossimi eventi organizzati da Ashtanga Yoga Napoli?

CS e VP: Il 19 e 20 luglio, David Williams, per la prima volta a Napoli, sarà con noi per un workshop di due giorni. Il 12-15  ottobre, dopo la bella esperienza dello scorso anno, Nancy Gilgoff tornerà a trovarci a Napoli per un Practitioners Clinic di quattro giorni per sole venti persone. L’11 e 12 novembre sarà la volta di Manju Pattabhi Jois.

Per info ed iscrizioni: http://www.ashtangayoganapoli.it/workshop/

Sito web: www.ashtangayoganapoli.it

Valerio insieme ai suoi tre maestri: da sinistra, David Williams, Valerio, Manju Jois e Nancy Gilgoff

Tradizione contro innovazione, o tradizione innovativa?

Andrew Eppler e Sri K. Pattabhi Jois. Tradizione e innovazione. Sono due concetti che si elidono a vicenda, e che produrranno sempre conflitti e dibattiti? O possono coesistere pacificamente? In questo post Andrew Eppler spiega come e perché questi due concetti possono collaborare in modo produttivo.

Tradizione e innovazione: due concetti in lotta, o una possibile armonia? Traduco oggi il post pubblicato da Andrew Eppler e Sabine Nunius di Ashtangayogainfo, non solo insegnanti di Yoga ma anime del progetto documentaristico Mysore Yoga Traditions, che si prefigge di fare luce sulla lunga tradizione yogica di Mysore, al di là della sola pratica fisica. Il loro articolo mi sembra di grande interesse proprio in un momento storico in cui molti praticanti si sentono confusi davanti alla pratica “tradizionale”. A volte sentiamo il bisogno di “rompere le righe”, ma abbiamo paura di sbagliare. Quando il cambiamento può essere positivo, e soprattutto, è giusto “innovare” la tradizione? Ancora una volta grazie ad Anthony Grim Hall per aver portato questo post alla mia (e vostra) attenzione.

Tradizione – la base della nostra pratica

Se affrontiamo la questione “tradizione vs innovazione” – o piuttosto, tradizione “e” innovazione – dobbiamo innanzi tutto parlare di tradizione. E questo ci porta, per quanto possa sembrare banale, alla domanda: “Cosa intendiamo per tradizione? E qual è la definizione di una ‘tradizione yogica’? Per tradizione, intendiamo solo una sequenza di posizioni, possibilmente databile nella notte dei tempi? E dobbiamo giudicare la validità di una tradizione semplicemente basandoci sull’età di questa particolare sequenza?

Personalmente ritengo che una tradizione yogica non si componga solo di posizioni. Molti di noi hanno iniziato a praticare grazie agli asana, quindi è normale che questo sia l’argomento che per primo cattura la nostra attenzione. Tutti noi tendiamo a interessarci alle cose che catturano la nostra attenzione, e che confermano ciò che già conosciamo. Ai miei occhi, questo è anche un fenomeno caratteristico delle culture occidentali: l’idea occidentale dello yoga tende a focalizzarsi sulle sequenze di posizioni e sulla loro origine temporale. Cerchiamo di stabilire cosa sia più autentico, determinandone l’età.

Per contro, c’è una tradizione yogica molto forte a Mysore e in molte altre parti dell’India, che differisce notevolmente dall’approccio occidentale. Questa tradizione non si concentra sulla pratica delle posizioni, come potremmo essere portati a credere. Tuttavia, è una tradizione bellissima e vivace.

Mi concentrerò sullo yoga che è arrivato a noi da Mysore. Le statistiche ci rivelano che la metà di tutti gli stili praticati oggi nel mondo sono stati influenzati direttamente da Sri Tirumalai Krishnamacharya e dai suoi discepoli. Gli anni più importanti per Sri Krishnamacharya furono i 25 anni che trascorse insegnando a Mysore, a cavallo tra gli anni ’30 e ’50. Quindi quale tradizione yogica appartiene a Mysore? Se guardiamo oltre gli asana, e entriamo in una gamma più vasta di pratiche e filosofie nella comunità di Mysore, notiamo che questa città vanta una tradizione yogica molto antica.

La tradizione di Mysore: oltre gli asana

Il Maharaja di Mysore, dal 1894 fino al 1940: Krishnaraja Wadiyar IV

Le tradizioni yogiche indiane non sono mai state legate solo agli asana. A Mysore possiamo trovare una cultura spirituale che copre esercizi respiratori, concentrazione, meditazione, canti, devozione: ed è una cultura almeno millenaria, tracciabile fino al tempo di Ramanuja. Quando il Re di Mysore convinse Krishnamacharya ad insegnare proprio nella sua città, il Sanskrit College era una realtà già molto conosciuta, con una biblioteca immensa dedicata alla filosofia indiana. Lo Yoga è una delle sei principali filosofie indiane, ed è sempre stata presente a Mysore.

Krishnamacharya apprese l’Ashtanga Vinyasa Yoga in Nepal, o come dicono alcuni in Tibet, e mise una forte enfasi sugli asana e sull’hatha yoga. Era un grande studioso, e le sue argomentazioni a favore della pratica degli asana convinsero la comunità intellettuale di Mysore. Sappiamo che Krishnamacharya portò con sé nuove tecniche e nuove idee, ma sappiamo anche che a Mysore lo yoga era già praticato, in senso più vasto, come filosofia.

Tutte le pratiche posturali dello yoga, prima di Krishnamacharya, erano solitamente un fatto molto privato, quasi segreto. Alcuni dei più anziani eruditi di Mysore affermano di avere appreso gli asana con il conteggio dei respiri, e i Saluti al Sole dalle loro famiglie, che praticavano yoga da generazioni, ben prima che si fossero mai sentiti i nomi di Krishnamacharya e del Vinyasa. Lo Yoga è una forma d’arte molto integrata e non è veramente possibile affermare quanto sia antica, o da dove provenga. Per come la vedo io, l’Ashtanga Vinyasa Yoga è un sistema coerente, ben costruito, che deriva da una tradizione culturale molto innovativa. L’innovazione fa parte della tradizione! E questo Yoga “Mysoriano” è fortemente radicato nella cultura e nella filosofia indiane. I nomi degli asana parlano di saggi, divinità, animali e icone culturali che fanno parte della filosofia della comunità di Mysore. Tutto questo sembra evidenziare l’esistenza di una cultura ricca, bella e antica.

Le radici dello Yoga – oltre 5000 anni fa

E’ vero che lo Yoga è stato “inventato” più di 5000 anni fa? Personalmente, penso che questa affermazione sia più o meno autentica. Dipende da cosa intendiamo per Yoga. Danny Paradise dice per esempio che lo yoga è connesso a tutte le tradizioni shamaniche e indigene, e che è nato insieme all’umanità stessa. Io sono d’accordo. Probabilmente, ogni civiltà che è andata oltre lo stadio primitivo può vantare pratiche fisiche e psichiche affini allo yoga. Se parliamo di Yoga indiano, possiamo dire datare la sua origine a 5000 anni fa, o 4500 anni fa se vogliamo esprimere una stima più conservativa. Quando parliamo invece degli asana che pratichiamo ancora oggi, i primi riferimenti testuali sono nelle Upanishad minori e nei testi del Tantra. L’Hatha Yoga Pradipika (databile al 1500 AD) entra in maggiori dettagli. Ma se vogliamo discutere le esatte sequenze Ashtanga Vinyasa Yoga, possiamo affermare che furono sviluppate da by Sri Krishnamacharya e Sri K. Pattabhi Jois. Parliamo quindi di un centinaio di anni, forse meno.

Sri K. Pattabhi Jois: l’Asthanga arriva in Occidente

Sri K. Pattabhi Jois fu certamente il maestro che trasmise l’Ashtanga Vinyasa Yoga all’Occidente. Con il suo inglese incerto, riuscì a creare enorme entusiasmo e devozione nei suoi discepoli. Lo ritengo un autentico genio creativo. Sistematizzò gli asana in modo da dar loro un senso, rendendoli memorizzabili e praticabili. Ad oggi, il suo modo di creare sequenze e il suo approccio hanno un’immensa influenza sulle forme di yoga praticate nel mondo. Il suo modo di insegnare ha fatto di alcuni praticanti delle autentiche icone, e ha realmente infuocato gli animi di intere folle. E con grande coerenza verso la sua cultura, come tutti i veri maestri indiani fanno Sri K. Pattabhi Jois ha dato il credito di tutti i suoi successi al suo insegnante e alla tradizione da cui derivava. Non ha mai fatto parola del suo personale contributo.

Ed è a questo punto che comincia la confusione. Pattabhi Jois insisteva nel dire che lo yoga è antico, che lui insegnava un buon metodo, e che i suoi studenti dovevano dedicarsi a quel metodo. Che c’è di male? Queste affermazioni esprimono umiltà e devozione, sono adorabili. Soprattutto sulla scena attuale dello yoga, dove tutti sembrano cercare in ogni modo di dare un tocco di novità. Appena qualcuno pensa di aver avuto una buona idea, immediatamente cerca il modo di brandizzarla, metterci il copyright e monetizzarla. Oggi abbiamo tutti i tipi di yoga possibili. Siamo così condizionati dall’aspetto materiale della pratica, che ci sta sfuggendo di vista il suo vero significato. Litighiamo sulle sequenze, che sono un aspetto molto moderno alla luce della storia dello yoga, e dimentichiamo di vedere la civiltà e la cultura che ce lo hanno consegnato.

Mai cambiato una virgola: perché gli insegnanti insistono così tanto sull’aver ricevuto una sequenza precisa dal loro maestro (e il loro maestro dal maestro precedente, e così via)?

Non lo fanno tutti gli insegnanti. Il mio maestro, Sri BNS Iyengar, che ha appena compiuto 90 anni, insegna una sequenza leggermente diversa dell’Ashtanga Vinyasa Yoga. Sa essere molto innovativo quando lavora con praticanti avanzati. Infatti, non esistono al mondo due insegnanti che trasmettano esattamente lo stesso metodo. Non importa quanto ci proviamo, è semplicemente impossibile. Penso che le sequenze fisse abbiano una buona ragione per esistere. Avere una struttura di base in comune è un’idea brillante, ed ha un impatto molto positivo sullo yoga, secondo me. Le sequenze fisse sono come le scale per un musicista. Chiunque abbia studiato le sequenze dell’Ashtanga con Sri K. Pattabhi Jois o Sri BNS Iyengar ha una grazia e una competenza che derivano dalla ripetizione dei movimenti. Penso che Sri K. Pattabhi Jois in questo abbia dato un contributo superiore a quello di qualunque altro maestro. Quando le sequenze sono fisse, la pratica diventa molto più concentrata, elevando esponenzialmente gli standard. Quindi secondo me, gli asana che pratichiamo derivano effettivamente da una lunga tradizione. E la comunità in cui sono nati è davvero molto antica. La loro “formattazione”, però, è un po’ più recente di quello che ci piacerebbe pensare. Lo Yoga esiste da sempre, e ha assunto nel tempo diverse forme.

L’approccio Indiano vs l’approccio Occidentale: amore per la tradizione vs opposizione alla vecchia scuola?

La mia opinione è che tra i due approcci esistano enormi differenze. Noi occidentali ci annoiamo in fretta. Ogni insegnante ha lo stesso problema. Come fare per mantenere vivo l’interesse dei nostri studenti, motivandoli a studiare Yoga in modo sincero? Non esistono metodi giusti o sbagliati. Tutti noi osserviamo le cose attraverso le lenti della nostra mente, e spesso trasferiamo le nostre idee nello yoga, come facciamo con qualsiasi altra cosa. Ecco qual è la differenza principale: un approccio più tradizionale presuppone il rinunciare ai nostri “perché?”, e limitarsi a praticare. Quando la mente si calma, riusciamo a vedere il significato profondo oltre la pratica. Come dice David Williams, “prima della pratica la teoria è inutile, dopo la pratica, la teoria è ovvia”.

“O mio Dio – la mia pratica non è così antica come credevo. E ora che faccio?”

Fate un bel respiro, e superate questo trauma! Noi insegnanti occidentali abbiamo la tendenza a dare valore alle cose in base alla loro antichità. Ci piace sentirci legati a tradizioni e lignaggi d’altri tempi. Storicamente, il Guru Parampara non si è mai basato semplicemente solo sul seguire una particolare sequenza di posizioni. Il contesto e la pratica degli asana sono relativamente moderni, ma la filosofia da cui sono scaturiti è molto antica. Dobbiamo solo identificare quali parti dello yoga siano realmente antiche. L’idea di poter ricavare stabilità emotiva e mentale attraverso la meditazione è molto antica. Gli asana sono un passo necessario alla preparazione della meditazione. L’idea di salutare la divinità del sole attraverso il movimento deriva dai Veda. Siamo in errore solo quando cerchiamo di dire che una particolare sequenza di asana sia antica. Non mi sembra che ci sia poi un grande problema!

Lo Yoga si è evoluto per migliaia di anni e continuerà ad evolversi. Ciò che è immutato nei tempi è il grande esperimento che lo Yoga compie sulla coscienza e sulla libertà dell’uomo. Lo Yoga è una scienza che ha come scopo il raggiungimento del più alto potenziale individuale. I metodi sono mutati molte volte nella storia, a seconda delle circostanze, ma le idee fondamentali sono sempre state coerenti. Gli esercizi fisici sono moderni, ma lo yoga è antico. Anche se lo yoga è diventato esercizio fisico, ancora mantiene parte delle sue antiche radici ed è in grado di creare uno stato mentale di calma e chiarezza, che porta alla meditazione e agli aspetti più interiori dello yoga, per chi decide di esplorarli.

Gli approcci alla tradizione nella comunità Ashtanga

C’è una differenza nell’approccio ai fatti descritti da parte delle scuole di Ashtanga che si sono sviluppate nel tempo, solitamente in relazione a uno specifico insegnante? Io non vedo grandi differenze. Possiamo attaccarci alle fantasie se ci fa piacere, ma i fatti relativi alle sequenze sono abbastanza chiari a questo punto.

Andrew Eppler

Penso sia interessante osservare il background filosofico e l’eredità di Sri  Krishnamacharya in merito agli asana. Per quanto riguarda la parte filosofica, Sri Krishnamacharya era un Iyengar. Apparteneva ai Vaishnavas e praticavano il Bhakti. Seguivano gli insegnamenti di Ramauja e Vishishta Advaita. In quella tradizione, lo Yoga era sempre stato una parte importante. Nell’era attuale, la questione è se un insegnante vuole concentrarsi principalmente sull’insegnamento dei soli asana, o se vuole insegnare filosofia yoga insieme agli asana.

Tutti i filosofi di Mysore si riferiscono ai Bhagavad Gita e agli Yoga Sutra di Patanjali, oltre ad altri testi. Sono testi che appartengono alla tradizione in tutta l’India. E’ importante comprendere che il dibattito filosofico fa parte della tradizione indiana, e che le discussioni filosofiche durano da migliaia di anni. Ma i principali testi a cui si riferiscono e i concetti di base sono gli stessi un po’ ovunque sul territorio.

Quanta innovazione è lecita, e chi decide quando un cambiamento è “buono” o “cattivo”?

I metodi classici e testati nel tempo sono sicuri ed efficaci se insegnati correttamente. Non tutte le nuove, folli e divertenti idee si rivelano utili. Penso che lo yoga si stia evolvendo in modo rapido a livello fisico in occidente, e che gli standard si stiano elevando progressivamente da questo punto di vista. Lo yoga fisico è persino diventato una scienza, sia in India che in Occidente, ed effettivamente può curare una serie di disturbi fisici. E’ diventato più facile da approcciare, e più facile da trovare. E questa è una cosa bellissima. Per costruire una pratica intensa, sostenuta, stabile nel tempo, continuo a pensare che l’Ashtanga Vinyasa sia un metodo imbattibile.

Sabine Nunius

Quindi chi decide quando un cambiamento è “buono”? Semplice: voi. Tutti noi. Ma la noia non è una buona ragione per cambiare cose che sono state messe insieme con cura e attenzione. Dobbiamo diventare tutti autonomi nella nostra pratica. L’intenzione è tutto. Quando andiamo da un insegnante, siamo “obbligati” a seguire il suo insegnamento. Quando siamo soli, facciamo quello che ci pare. Il risultato racconta la storia delle nostre intenzioni e ci rivela se il nostro approccio è corretto. Personalmente ritengo che i praticanti più seri siano attratti dalle sequenze fisse, che li portano più facilmente ad uno stato meditativo. Lo Yoga diventa sacro e devozionale attraverso la ripetizione.

L’Ashtanga Vinyasa Yoga è una pratica molto precisa. Possiamo alterarla, ma ciò che conta sono le ragioni che ci spingono a farlo. Lo facciamo a causa dei nostri limiti fisici? O semplicemente per renderla più accessibile e per guarire parti del corpo che, diversamente, potremmo danneggiare? O lo facciamo per renderla graficamente più bella, per attirare gli sguardi di chi ci osserva? Sono le intenzioni a fare la differenza. Quando gli asana sono troppo difficili per noi, ci affidiamo alla nostra saggezza e alla tecnica del nostro insegnante per affrontare la problematica. Senza un interesse sincero, non esiste lo yoga, ma non dobbiamo dimenticare il buon senso! Se crediamo in un metodo al punto da praticarlo ogni giorno per anni, allora probabilmente quel metodo contiene qualcosa di valido. Ma se siamo ossessionati dalla nostra apparenza e dall’approvazione degli altri, stiamo facendo una digressione, ed esprimiamo vanità e instabilità.

Direi che il Vinyasa Flow è oggi la forma di yoga più popolare al mondo. E’ molto più difficile insegnare yoga senza una struttura da seguire. Nelle mani di un insegnante capace, con una profonda conoscenza fisiologica e l’esperienza necessaria a mettere insieme le cose in modo intelligente e accessibile, può essere una pratica assolutamente eccezionale. Quando osservo le persone che praticano in una shala, sono evidenti i praticanti che hanno raffinato la tecnica fino ad integrarla alla perfezione con il funzionamento del sistema nervoso. Questo è il tratto distintivo della tecnica dell’Ashtanga Vinyasa. Quel livello di perfezione non può essere raggiunto solo giocando con gli asana, per quanto si sia in possesso di doti atletiche.

Il cambiamento oltre la sequenza degli asana. Perché non praticare con la musica?

In questo ambito non c’è giusto o sbagliato. La musica ha una connessione antica con lo yoga. Krishnamacharya vantava un legame con Nathamuni, che era un Nada Yogi. Nada è lo yoga del suono. Ho sperimentato lezioni di yoga in cui la musica selezionata era in grado di condurre alla concentrazione, oltre che essere in perfetta sincronia con il flusso di asana. Personalmente, preferisco interludi di silenzio che rendono l’intervento della musica più potente. D’altro canto, trovo che la musica pop sia un elemento di distrazione. E’ un genere musicale che preferisco ascoltare in altri momenti. Mi piace il suono del mio respiro. Non penso ci sia nulla di sbagliato nel praticare con la musica, dipende come sempre dalle intenzioni. Quando sono solo, preferisco il silenzio. Detto questo, ascoltare della musica leggera può essere un modo per entrare in contatto più facilmente con le sensazioni che lo yoga può produrre nel nostro corpo. Se invece preferiamo acquietare le nostre menti e sintonizzarci sul respiro, è meglio usare una sequenza fissa. E al momento non ho trovato una struttura migliore dell’Ashtanga Vinyasa Yoga. Se ne avessi trovata una, avrei già iniziato a praticarla!

La mia pratica personale: un esperimento libero, o un’esperienza radicata nella tradizione?

Siamo noi a decidere quanta libertà esercitare nel nostro spazio. Direi che chiunque pratichi qualsiasi tipo di yoga, animato da motivazioni mentali e/o emotive o dal desiderio di aumentare la propria capacità di concentrazione, sta praticando in modo autentico. Questo include anche motivazioni di benessere e salute, ma se essere in forma è il nostro unico obiettivo, allora stiamo solo facendo esercizio fisico.

E’ giusto innovare? Tuti noi siamo costretti all’innovazione all’interno delle sequenze, semplicemente perché gli asana sono difficili e spesso non riusciamo ad eseguirli. Le innovazioni che funzionano per una persona possono non funzionare per qualcun altro. Ed è qui che entra in campo la capacità di insegnare. Vedo le sequenze fisse come qualcosa di positivo. Creano un terreno comune e una base su cui lavorare.

I problemi nascono solo quando diventiamo ossessivi e superstiziosi in merito a queste sequenze. Nella mia personale opinione, pensare che queste sequenze di asana siano un’antica via per l’illuminazione, e che cambiarle significhi mancare di rispetto a qualcuno, è un pensiero folle. Queste sequenze non sono più antiche di Sri K. Pattabhi Jois, per quanto la mia ricerca abbia avuto modo di verificare. A Mysore mi è stato detto che le quattro serie originali tramandate a Sri K. Pattabhi Jois derivavano dal sillabario del suo corso quadriennale di Yoga al Sanskrit College del Maharaja. Provenivano da una tradizione innovativa e da un corpo di pratiche di asana molto più vasto. Le sequenze evolutive di asana hanno il nome di Vinyasa Krama. Le serie dell’Ashtanga sono molto dinamiche, e racchiudono una intensa esplorazione della pratica degli asana. Ecco il motivo per cui Sri K. Pattabhi Jois chiamò la sua scuola Ashtanga Yoga RESEARCH Institute!

Creare una pratica individuale

Ognuno di noi può fare – e farà – ciò che meglio crede. Penso che il consiglio migliore sia semplicemente trovare un insegnante che ci piace e con cui siamo in sintonia. Dobbiamo ascoltare il nostro corpo ed evitare azioni che possano provocare dolore, indipendentemente da qualsiasi cosa ci dicano. Dobbiamo sperimentare, osservare cosa ci fa stare bene e ci porta buoni risultati. Dobbiamo fidarci della nostra saggezza interiore e sviluppare una pratica personale. Disciplina, devozione e una pratica personale sono i requisiti necessari per l’esplorazione dello Yoga. Possiamo girarci intorno per un po’, ma alla fine dobbiamo trovare stabilità in un metodo e praticare seriamente se vogliamo ottenere qualcosa di autentico.

Alla fine, possiamo abitare la tradizione e innovare al suo interno, come hanno sempre fatto tutti gli insegnanti di Yoga. Non andiamo in confusione e soprattutto non accusiamoci l’un altro per piccoli cambiamenti o differenze nell’esecuzione degli asana. Non dimentichiamo quella ramo dello Yoga che ci invita ad essere delle brave persone. Non importa quale approccio scegliamo, solo il tempo ci dirà se abbiamo avuto ragione. Abbiamo bisogno di lavorare sodo e intelligentemente per arrivare alla nostra mèta. Chi s’innamora dello Yoga solitamente gli resta fedele. Ma è anche difficile amare qualcosa se ci fa del male… l’innovazione è inevitabile.

backstage dal documentario “Mysore Yoga Traditions”

Molte delle opinioni espresse in questo post, soprattutto quelle relative alla tradizione Yoga di Mysore, derivano da conversazioni dirette con studiosi, anziani, yogi e leader spirituali di Mysore. “Mysore Yoga Traditions” diventerà un documentario dedicato alla comunità intellettuale di Mysore. Ci stiamo lavorando con la massima velocità e speriamo di potervelo consegnare entro la primavera del 2017. Continuate a seguirci!

Andrew Eppler e Sabine Nunius

Traduzione e commenti di Francesca d’Errico

Praticare in Italia: Ashtanga Yoga Varese, la tradizione in provincia

Amo lo Yoga anche per le persone che ti permette di incontrare. Ti fa sentire a casa nel mondo: ovunque io vada, so che troverò una comunità di persone interessate alla mia stessa pratica. E’ un piacere quindi vedere che anche nelle province italiane ci sono persone dedicate a far nascere nuove comunità, impegnate a tramandare la tradizione Mysore di Sri K. Pattabhi Jois e Sharath. Se poi la persona in questione è un amico, e questo amico riceve proprio in questi giorni, da Sharath Jois, l’autorizzazione a trasmettere il metodo dell’Ashtanga Yoga, la sensazione che si prova è di grande gioia.

Ho conosciuto Alessandro Cioffari Bertalli a Mysore lo scorso anno. Mi ha conquistata per la sua energia, il suo grande amore per la pratica, il suo sense of humor in grado di far dimenticare le difficoltà di una posizione, e i suoi bellissimi aggiustamenti, frutto di corsi specifici a cui ha dedicato molto tempo. Alessandro ha ricevuto qualche settimana fa l’autorizzazione ad insegnare Ashtanga Yoga proprio dall’attuale Guru, Sharath Jois, nipote del padre dell’Ashtanga e da lui designato a portarne avanti la tradizione. Ho voluto intervistarlo perché Alessandro porta avanti la sfida di far crescere questo metodo in provincia, e lo fa con grande passione e determinazione. Un esempio molto bello, una storia che sono felice di raccontare, e un insegnante che vi consiglio di frequentare se vivete a Varese e provincia. Vi conquisterà con la sua bellissima energia.

FDE: Raccontami del tuo percorso nello Yoga. Quando hai iniziato, e come sei arrivato all’Ashtanga Yoga? Cosa significa oggi per te essere autorizzato KPJAYI?

ACB: Lo yoga – in particolare l’Ashtanga Yoga – è entrato nella mia vita lentamente. L’idea di provare questa “cosa” un po’ strana rispetto al mondo del fitness dal quale provengo mi è balenata quando ero molto più giovane, attorno ai 20 anni. La giovane di età, il desiderio di aderire al gruppo (erano gli anni del boom delle palestre) e l’idea che fosse decisamente troppo freak mi hanno fatto rimandare il tutto a circa 10 anni fa. A quel punto della mia vita, già lavoravo nelle palestre ma sentivo l’esigenza di un cambiamento. Così ho frequentato la mia prima classe. Era una lezione di Power Yoga. Ed è stato amore. L’insegnante, nel corso delle lezioni successive e parlando brevemente di teoria dello yoga, ha menzionato che lo yoga dinamico che stavamo praticando derivava dall’Ashtanga Yoga. Mi sono quindi chiesto: perché non andare all’origine? La prima pratica è stata complicata. Gente che cantava in una lingua strana, parole che non comprendevo, posizioni che al momento credevo impossibili. Ma piano piano il metodo Ashtanga mi ha conquistato. La calma, la concentrazione, la continua scoperta sono diventate parte integrante della mia pratica quotidiana. Ad oggi non posso più farne a meno.

Essere autorizzato KPJAYI per me è il coronamento di questa prima parte del mio percorso nell’Ashtanga, basato su anni di pratica, di studio e numerosi viaggi in India. È un riconoscimento che mi riempie quindi di gioia. È al contempo una grande responsabilità: significa mantenere vivi ed attuali la tradizione ed il metodo Ashtanga come insegnato a Mysore da Guruji prima e da Sharath ora. Credo che Sharath con l’autorizzazione all’insegnamento riponga in noi grande fiducia, e spero con il mio lavoro, nella Shala, con gli studenti di ripagarla in pieno.

FDE: Negli ultimi tempi, a Mysore le cose sembrano essere in rapido cambiamento. Tu sei appena tornato dall’India: come pensi si evolverà KPJAYI? Qual è la tua opinione su Sharath?

ACB: Come tu ben sai l’india è un paese ricco di contraddizioni. Le evoluzioni e i cambiamenti possono essere tanto lenti quanto repentini. Io ho la massima fiducia in Sharat. Più volte in conferenza ha confermato che il suo unico scopo è quello di continuare il lavoro di Guruji, quindi KPJAYI rimarrà l’unico vero istituto dove apprendere l’Ashtanga in modo autentico, così come ce lo ha trasmesso chi lo ha concepito, Sri K. Pattabhi Jois.

FDE: Sappiamo che i social, negli ultimi anni, hanno avuto un ruolo contraddittorio ma anche positivo, avvicinando molti neofiti allo Yoga. Tuttavia, il rischio è quello di spettacolarizzare troppo gli aspetti esteriori della pratica. Qual è il tuo rapporto con questo mezzo di comunicazione?

ACB: L’estetica in sé non è un male. A chi piace vivere in una casa brutta? O circondarsi di oggetti brutti? Tuttavia credo che la spettacolarizzazione in se stessa, senza alcuna logica e senza alcun contenuto non servano a nulla, soprattutto nello Yoga. Come diceva Pattabhi Jois, “it’s only circus”. E’ un discorso che può essere allargato a qualsiasi ambito, non riguarda solo lo Yoga. I social media funzionano molto attraverso le immagini, per questo è importante concentrarsi su un utilizzo volto a comunicare in modo autentico, più che a mostrarsi. L’uso dei media resta un passo necessario per la diffusione dello Yoga, dobbiamo però cercare di farlo al meglio, per offrire un servizio davvero utile sia ai principianti che ai praticanti più esperti.

FDE: E’ innegabile che negli ultimi anni l’Ashtanga Yoga sia diventato uno dei metodi più insegnati al mondo. Ma sono in molti ad improvvisarsi maestri. Quanto è importante, oggi, avere un legame con le origini di questo sistema, e ricevere l’autorizzazione ad insegnare da KPJAYI?

ACB: Ritengo che l’autorizzazione da KPJAYI sia fondamentale. Molte volte mi viene da pensare che ci sono più insegnanti di yoga che praticanti. Investire parte della propria vita studiando in India, dove il Metodo Ashtanga è nato, è un passo necessario per chi sceglie con responsabilità di essere insegnante. Non è facile, richiede dedizione, tempo e coraggio, e l’autorizzazione è il completamento di questo percorso. O forse è solo l’inizio di un nuovo, ancora più convinto cammino nell’Ashtanga.

Alessandro Cioffari Bertalli fotografato da Alessandro Sigismondi

FDE: Ashtanga Yoga Varese è nata da poco, ma ha già al suo attivo molte attività: workshops con Laruga Glaser, Elle Syrilak, Taylor Hunt… quali sono i tuoi obiettivi nel prossimo futuro? E’ difficile creare una comunità in provincia?

ACB: Ashtanga Yoga Varese (AYV) è una piccola realtà. Con passione e dedizione l’Ashtanga si sta diffondendo. Insegnare in provincia non è difficile. Certo è una realtà diversa da una grande città come Milano o una metropoli come può essere New York, con milioni di persone, e quindi percentualmente dotate di un maggior numero di praticanti. Per questo, sono veramente onorato che insegnanti di calibro internazionale come Laruga Galaser, Elle Sirilak e Taylor Hunt vengano a Varese. È un chiaro segnale che non è la piccola realtà di provincia il limite alla diffusione dell’Ashtanga, perché la bellezza e la profondità dello yoga trascendono qualsiasi luogo. Inoltre lavorare in una realtà di dimensioni ridotte consente di creare un rapporto profondo con i propri studenti, di seguirli con grande attenzione.

I miei progetti per il futuro sono semplici. Continuare ad insegnare con passione e dedizione. Riuscire a trasmettere tutto il mio amore per l’Ashtanga e il suo “magico” potere, facendo passare il concetto che tutti possono praticare: tutti abbiamo infinite possibilità che troppe volte, però, dimentichiamo di possedere.

– Francesca d’Errico, 2017

Non perdete i prossimi eventi di Ashtanga Yoga Varese, che hanno per protagonisti insegnanti KPJAYI davvero eccezionali:

ELLE SIRILAK: 26-28 MAGGIO

TAYLOR HUNT: 30 giugno 2 luglio

LARUGA GLASER: 27-29 ottobre

È attiva la mailing list per gli eventi, suggerita l’iscrizione per essere sempre aggiornati sulle tante attività proposte da Alessandro Cioffari Bertalli.

Alessandro Cioffari Bertalli a Mysore, il giorno della sua autorizzazione

Donne e Yoga: Kristina Karitinou Ireland

Kristina Karitinou Ireland

Da tempo desideravo parlare di donne e Yoga. Nata come disciplina inizialmente riservata solo agli uomini, lo Yoga, soprattutto negli ultimi 40 anni, ha attirato un numero sempre crescente di donne, fino ad annoverare Maestre di grande importanza, che hanno saputo infondere in questa disciplina le caratteristiche meravigliose del femminile. Ho pensato quindi di iniziare una serie di interviste con le protagoniste dello Yoga contemporaneo, e il primo nome che mi è venuto in mente è stato quello di Kristina Karitinou: chi meglio di lei, insegnante certificata KPJAYI e compagna del rimpianto Derek Ireland, indimenticabile portavoce dell’Ashtanga Yoga in Europa, può raccontarci come si declina lo Yoga al femminile? Con la gentilezza che la contraddistingue, Kristina ha subito accettato. Ne è nato un dialogo carico di entusiasmo, che desidero condividere con tutti voi.

FDE: Kristina, sei certificata KPJAYI all’insegnamento dell’Ashtanga Yoga e hai avuto la grande fortuna di imparare questo metodo direttamente da Guruji (Sri K. Pattabhi Jois) e da tuo marito, il leggendario e rimpianto Derek Ireland. Certo non è possibile riassumere la tua esperienza in un post, ma come hai iniziato a praticare Yoga?

KKI:  Lo Yoga è entrato nella mia vita per la prima volta quando avevo 14 anni: partecipai ad una lezione di Hatha Yoga e seguii il corso per qualche tempo. Poi, dovendomi dedicare agli studi, mi fermai. Compiuti i 18 anni, una cara amica mi disse che avrei dovuto provare l’Ashtanga Yoga. Mi presentò alla sua insegnante, Lindra Kapetaniu. Linda aveva studiato con Derek Ireland. Mi innamorai del metodo fin dalla prima lezione, e alla seconda, compresi che quella pratica era nel mio destino.

FDE: Quali insegnamenti ti ha trasmesso Guruji? E come è stato praticare e insegnare al fianco di Derek? 

Derek Ireland e Kristina

KKI: Quando ho incontrato Guruji avevo 25 anni. Era un saggio che applicava quotidianamente una filosofia pratica per seguire il suo Dharma. Era un autentico erudito, come tutti gli insegnanti di yoga ai suoi tempi. Desiderava trasmettere la sua pratica e aiutare la gente con asana terapeutici, e conosceva ogni possibile variante per ogni posizione, così nessun praticante poteva accampare scuse!  Rivelava ad ognuno di noi le possibilità del corpo. Insegnava Sanscrito all’Università di Mysore, materia su cui era estremamente preparato. Come tutti i grandi maestri, aveva affrontato molte difficoltà finanziarie, ma non aveva mai rinunciato all’Ashtanga Yoga. Guruji era un uomo di famiglia, amava sua moglie, i suoi figli e i suoi studenti. Aveva la capacità di leggere dentro ogni praticante, di riconoscere il dolore fisico ed emotivo, ed era sempre pronto ad intervenire per aiutarci a superare gli ostacoli. Era forte e vulnerabile al tempo stesso, e il suo modo di rivelare la pratica era di grande ispirazione.

Derek era un uomo generoso, una forza della natura in grado di trasmettere la pratica a chiunque. Mi considero molto fortunata per essergli stata accanto per sei anni, imparando e insegnando insieme a lui. Era il mio mentore. Trovava sempre il modo giusto per arrivare agli studenti, li trattava con grande rispetto fornendo loro gli strumenti adatti ad affrontare qualsiasi difficoltà. Ha inoltre fatto molto per lo status degli insegnanti di Yoga nel mondo, rendendoli figure di tutto rispetto anche in occidente. Derek è stato il primo a trasmettere il metodo in Europa, utilizzando un linguaggio adatto al nostro pubblico. Ha realizzato il primo video di Ashtanga, registrando la Prima Serie con moltissime informazioni al di là del semplice conteggio dei Vinyasa. E’ stato anche il primo a formare insegnanti, aiutandoli a superare i limiti del corpo per imparare a praticare in sicurezza. La sua professionalità e il suo carisma lo avvicinavano alla perfezione, la sua energia nelle lezioni resta ineguagliata. Derek si serviva del suo carisma per diffondere la pratica nel mondo. Insegnava in modo intenso, preciso, istintivo, efficace. La catarsi era un elemento importante del suo modo di insegnare. Manteneva gli studenti nella giusta prospettiva, educava in modo energico. Era anche un vero amico per i suoi studenti. Derek era molto rispettato da insegnanti e praticanti, era affascinante, incredibilmente intelligente, pieno di risorse nell’affrontare le difficoltà della pratica. Era un vero Bodhi Sattva. 

FDE: Hai insegnato a migliaia di studenti a Creta e nel mondo. Ritieni che l’Ashtanga possa essere trasmesso a tutti nello stesso modo? Modifichi asana e/o sequenze? E cosa pensi dell’atteggiamento competitivo che sembra aver preso piede nella comunità dell’Ashtanga Yoga?  

KKI: Questa pratica può essere trasmessa in mille modi, tanti quante sono le tipologie corporee nel mondo! Sì, il metodo ha una sequenza, un ordine, è un metodo. Ma qualsiasi tipo di Hatha Yoga in cui si applichino Bandha, Drishti e Pranayama può essere considerato Ashtanga. L’insegnante esperto trasmette la sua conoscenza attraverso la varietà. La serie resta immutata, ma esistono variazioni di ogni genere per consentire a chiunque di imparare a praticare. Non è necessario chiudere Marichyasana D o Kourmasana per avanzare nella pratica, la verità è che dobbiamo imparare la variante più adatta a noi e andare avanti. Dopo 2, 3 anni di Prima Serie è necessario passare alla Seconda per bilanciare le eccessive flessioni. Questo è quanto insegnavano Krishnamacharya e Pattabhi Jois.  Non cambio la sequenza delle posizioni, ma uso le varianti più adatte allo studente, che sono il vero tesoro del buon insegnante.

Per quanto riguarda l’esibizionismo egoico negli asana, una cosa è certa. Quando impariamo o insegniamo, apprendiamo sempre qualcosa attraverso i nostri sensi. Quando pratichiamo gli asana, la nostra prospettiva si ampia, il nostro corpo rivela la sua essenza, comprendiamo di più, sintonizziamo il corpo e la mente con l’ambiente circostante. Se perdiamo l’occasione di riconoscere questa opportunità e utilizziamo gli asana solo per diventare delle celebrità, diamo briglia sciolta all’insicurezza e all’ignoranza. Ma sono fasi attraverso cui passiamo tutti. Si, lo Yoga e in particolare l’Ashtanga si prestano molto ad essere commercializzati. Ma alla fine, ci vogliono molti anni per arrivare a comprendere il potere della pratica, le sue immense possibilità, i suoi effetti su tutti i livelli dell’esistenza. E questi doni non arrivano semplicemente mettendosi le gambe dietro la testa. 

FDE: Lo Yoga è il tuo compagno di viaggio da molti anni e hai iniziato a praticarlo giovanissima. In che modoti ha sostenuto negli anni? Quale consiglio daresti alle donne che iniziano a praticare in diverse fasi della loro esistenza (pubertà, gravidanza, menopausa etc.)?  

KKI: La pratica è per me una cara amica, un rifugio, un modo per fare ricerca, la mia casa. Il solo sapere di averla nella mia vita è un dono immenso. Sono passata attraverso molte fasi prima di comprendere che l’Ashtanga Vinyasa Yoga è una forma di meditazione molto personale, che avviene solo quando la si esegue. Non è un argomento di conversazione o uno strumento per sentirsi superiori agli altri. Mi aiuta ad accettare la mia mortalità. La pratica è quel punto di riferimento, nella mia mente, dove posso affrontare i momenti più difficili e prendermi cura di me. Mi dona chiarezza, forza, capacità di percezione, spazio interiore, una migliore qualità della vita. Mi rende un essere umano migliore. Vedere, attraverso la pratica, il benessere di chi mi circonda mi porta a credere in un mondo migliore. Le donne sono naturalmente portate verso la pratica. Si può praticare a partire dall’adolescenza, fino alla vecchiaia più avanzata. In occidente, molte tra noi praticano anche durante il ciclo mestruale: io personalmente raccomando di lasciare riposare il corpo almeno due giorni, e negli altri giorni del ciclo suggerisco di praticare senza bandha e senza inversioni. Sicuramente per noi donne riposare in quei giorni è la soluzione migliore, ma tutto sta alla singola praticante. Non insegnerei Ashtanga ad una principiante se è in gravidanza, piuttosto la indirizzerei verso un corso specifico, pensato per quel delicato periodo. Ma se la praticante è una ashtangi esperta, può continuare ad eseguire le sequenze con le necessarie varianti, secondo il consiglio del medico e con la presenza di un insegnante. Ho vissuto 3 gravidanze, e la pratica ha regalato a me e ai miei figli grandi benefici. Praticare per le donne in menopausa, infine, è una meravigliosa opportunità. La pratica sostiene il corpo in questa fase di cambiamento, sia sul piano ormonale che sul piano psicologico. Gli sbalzi emotivi sono meno pesanti, più sopportabili. Attraversare diverse fasi esistenziali è un vantaggio per chi pratica. Derek enfatizzava sempre l’importanza di praticare dopo i 40 anni, per mantenere il corpo forte e flessibile anche a 50, 60 anni e oltre. 

FDE: Oggi tutti sembrano voler diventare insegnanti di Yoga. Personalmente, ritengo che i corsi per insegnanti siano troppo spesso troppo brevi, portando sul “mercato” insegnanti troppo poco esperti, nella pratica personale prima ancora che nell’insegnamento. Cosa ne pensi? 

KKI: Come biasimarli? Ovvio che vogliano diventare insegnanti, i media continuano a reclamizzare l’immagine di neo-guru illuminati, autentici prodotti commerciali! Era destino che accadesse, dobbiamo dare spazio alle nuove generazioni e anche ammettere che insegnare Yoga è meraviglioso. Personalmente, ritengo che ci vogliano 100 anni di apprendimento per insegnare bene 10 cose. Questo è ciò che mi hanno trasmesso i miei maestri. Alcuni, tra noi, sono nati per insegnare: ma è comunque necessario imparare come comportarsi in una shala, studiare i testi con attenzione, e soprattutto fare esperienza sul piano emotivo e intellettuale. E’ quasi buffo vedere un insegnante che pratica da 5 anni, insegna da 3, e a cui gli studenti si rivolgono con la deferenza degna di un grande saggio. Tutto dipende da che tipo di insegnante si desidera essere: vogliamo andare in palestra a fare sfoggio dei nostri diplomi, in cerca di un impiego, o il nostro obiettivo è diventare un insegnante a cui nessuno può togliere ciò che sa, una persona responsabile che ama il suo lavoro? 

FDE: Come è cambiata la tua pratica negli anni? Pratichi ancora così come ti ha insegnato Guruji? Puoi condividere con noi i suoi saggi consigli? 

Kristina Karitinou e Guruji

KKI: Con la pratica, la conoscenza cresce. Sono stata molto fortunata ad avere i migliori insegnanti al mondo, per ben otto anni senza alcuna interruzione. A quei tempi – avevo 29 anni – praticavo la serie Avanzata A. Oggi, 16 anni dopo, la mia pratica è ancora forte ed è un elemento importante della mia vita. Osservate in che modo i praticanti di Ashtanga, invece che invecchiare, sembrano solo “crescere” in modo aggraziato. Guruji non ci ha forse detto… praticate, e tutto arriverà? Arriva e se ne va, arriva e di nuovo se ne va… ma ciò che resta è che praticando continuiamo a crescere mantenendo vivo l’entusiasmo della gioventù.  Lavorando attraverso le varianti più adatte, riesco ad imparare sempre qualcosa di nuovo anche alla mia età, e ad affrontare senza traumi i cambiamenti. La pratica è sempre un grande piacere. La rispetto ancora di più oggi di quando ero ragazza! Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, comprendo me stessa, e torno ad innamorarmene. E’ una vera gioia. 

Sì, continuo ad insegnare ciò che Guruji mi ha trasmesso così generosamente. Il metodo mi è stato insegnato da lui e da Derek, e non cambierei una virgola! Pattabhi Jois ha lasciato dietro di sé noi insegnanti “senior”, per continuare il suo lavoro accanto a Manju, Sharath e Saraswati Jois.  Il sogno di Guruji era che la sua famiglia restasse forte e unita. La sua saggezza lo portava a desiderare pace e profonda connessione. I suoi studenti erano un’estensione della sua famiglia, e desiderava solo insegnarci il suo metodo, senza pretese. Si donava al 100%, era sempre attento nei nostri confronti. 

FDE: Pensi che l’approccio all’Ashtanga sia cambiato, dopo la morte di Guruji? Cosa consiglieresti a chi si avvicina alla pratica per la prima volta? 

KKI: Il metodo è sempre lo stesso, poche cose sono cambiate, molti insegnanti seguono ancora ciò che diceva Guruji. In passato, i praticanti si preparavano a lungo prima di andare a Mysore. I loro insegnanti li educavano su come avvicinarsi al metodo e alla tradizione in ogni aspetto. Oggi, basta praticare per un paio di mesi con un insegnante autorizzato. Non sono d’accordo sull’eliminazione delle varianti degli asana, cosa che porta i praticanti a credere che sia necessario eseguire perfettamente un asana prima di passare al successivo. Con Guruji non era così: altrimenti non esisterebbero le varianti, che sono pensate sia per i principianti che per i più esperti.  Non possiamo sostituire gli asana delle sequenze, ma possiamo scegliere di praticare una variante se è necessario. Se eliminiamo varianti e aggiustamenti, chi è meno forte e flessibile dovrebbe fermarsi alla prima serie per 10 anni, solo perché non riesce a salire dai ponti. Ma sappiamo bene che dopo 3 anni di flessioni in avanti, il corpo ha bisogno di qualche inarcamento! Inoltre, è necessario capire che a Mysore è impossibile dare assistenza a tutti. Ci sono tantissimi praticanti, e solo pochi assistenti esperti. Non dimentichiamoci però che esistono tanti bravi insegnanti senior, proprio qui in occidente: ed è nelle shala occidentali che gli studenti possono ricevere l’attenzione che Guruji avrebbe riservato loro se fosse ancora vivo.  Ai principianti consiglio di osservare prima, e solo successivamente di scegliere di praticare l’Ashtanga Vinyasa Yoga: deve essere una scelta personale. E’ importante rivolgersi ad un insegnante esperto, che abbia una solida pratica da tanti anni, che abbia frequentato seri corsi per insegnanti, come quelli offerti da Manju Jois, e che abbia praticato con Sharath. Ma soprattutto, è importante trovare un insegnante responsabile, informato, amorevole. A questo punto, lasciatevi conquistare dalla pratica, che vi rivelerà il suo immenso potenziale. 

Francesca d’Errico, 2017

Per conoscere le date dei tour di Kristina Karitinou: www.yogapractice.gr 

Ashtanga Yoga: la ricerca infinita di Anthony Prem Carlisi

Anthony “Prem” Carlisi

Ricerca: una parola importante, soprattutto quando parliamo di Yoga. Forse non tutti sanno perché, inizialmente, Sri K. Pattabhi Jois chiamò la sua Shala “Ashtanga Yoga Research Institute”. Negli anni, e con il passaggio del testimone a Sharath, questa istituzione mutò il suo nome in KPJAYI, K. Pattabhi Jois Ashtanga Yoga Institute. A raccontarci cosa è cambiato, cosa è rimasto dell’originario intento di ricerca di Guruji, è Anthony Prem Carlisi, uno dei primissimi studenti di Guruji. Prem inizia a praticare Ashtanga nel 1978, insieme al primo gruppo di studenti di Pattabhi Jois. Negli anni, è diventato uno dei più noti insegnanti di Ashtanga Yoga al mondo, e ha fondato un centro rinomato a Bali, che mantiene viva la tradizione di Guruji. Pochi giorni fa, Prem ha rilasciato una bellissima intervista a Scott Johnson, titolare di Stillpoint Yoga London, attualmente una delle Shala più frequentate a Londra, dove maestri come John Scott spesso conducono lezioni e workshop. Scott (che ho già tradotto su queste pagine) e Prem si conoscono da molti anni, e questa intervista è un racconto intimo e toccante sull’Ashtanga Yoga e come questa disciplina, animata da un forte spirito di ricerca, abbia sostenuto Prem nelle sue vicissitudini esistenziali. Il racconto di Prem è anche un bellissimo resoconto sulle intenzioni di Guruji e sull’evoluzione del suo metodo:  le sue affermazioni sono a volte molto forti, e credo sia il un modo per stimolarci alla riflessione, all’approfondimento e alla ricerca che dovrebbe animare tutti i praticanti di Yoga. L’invito è di non fermarsi mai accettando senza spirito critico quanto ci viene insegnato da un maestro, ma di proseguire la sua ricerca attraverso la nostra esperienza. A tutti voi posso solo suggerire: se siete a Londra, praticate con Scott. E se avete la fortuna di passare da Bali, non mancate di visitare la Shala di Prem.

SJ: Cosa ti ha portato verso la pratica dello Yoga, così tanti anni fa, e cosa ti ha spinto a proseguire?

APC: All’epoca, lo Yoga non mi interessava. Avevo 21 anni ed ero fresco di università, pronto per affrontare il futuro. Alcuni amici mi proposero di partecipare a una lezione di Ashtanga Yoga, che secondo loro era fantastico. Sapevano che ero un tipo atletico e interessato alle attività fisiche, così mi feci trascinare facilmente. Entrai in una stanza piena di gente che praticava, e rimasi affascinato da queste persone che sembravano fluire con grazia da una postura all’altra. La pratica mi conquistò nel preciso istante in cui entrai in quello spazio sacro. Iniziai a praticare il giorno dopo, nell’autunno del 1978, e da allora non ho mai smesso. L’Ashtanga ha cambiato radicalmente la mia vita, in ogni aspetto. Diventai vegetariano, eliminai droghe e alcol. Tre mesi dopo, Guruji (Pattabhi Jois) arrivò dall’India negli Stati Uniti e si fermò per sei mesi ad insegnare nella nostra Shala di Encinitas, in California. L’anno successivo andai a Mysore, dove mi fermai per studiare con lui per 3-4 mesi. Divenne un pellegrinaggio annuale, che mantenni finché mi sposai: dopo, con i bambini, non mi fu possibile assentarmi da casa per periodi prolungati. Ma continuai a seguirlo nei suoi tour in California e alle Hawaii, dove si fermava ad insegnare per mesi, tra gli anni ’80 e ’90. Appena i ragazzi crebbero, ripresi ad andare a Mysore.

Avevo un rapporto molto stretto con Guruji, che mi trattava come se facessi parte della sua grande famiglia. Mi diede il nome di “Raghava” durante il mio primo soggiorno a Mysore, e da quel momento mi chiamò sempre con quel nome, che è uno dei nomi di Re Rama, nel Ramayana. Guruji mi trattava sempre con affetto rispetto a tanti altri studenti. E per me era come un padre. Mi aiutò tantissimo negli anni più importanti della mia crescita esistenziale, e grazie a lui mantenni un atteggiamento ispirato ed entusiasta anche davanti alle difficoltà.

A mantenere vivo il mio amore per la pratica tutti questi anni è anche l’immenso beneficio fisico che ne ho ricevuto. Ho 61 anni, e non dimostro né sento di avere questa età: il merito è dello Yoga, e del piacere che mi dà condividere questa disciplina con migliaia di altri praticanti. E’ tuttora un’esperienza molto gratificante; è come offrire all’umanità un dono prezioso… una salute eccezionale.

SJ: Raccontami dei primi anni a Mysore con Guruji, quando gli studenti erano ancora pochi. Dava suggerimenti diversi per la pratica? E aveva davvero un taccuino su cui annotava appunti su ognuno di voi?

APC: Quei primi anni con Guruji furono magici! Era così intimo con noi. La sua shala e la sua casa erano luoghi familiari per me. Passavo ore con lui e la sua famiglia, sua moglie Ama, sua figlia Saraswati e i nipoti, Sharmila e Sharath. Condivisi con lui molto della mia vita. Gli rivolgevo molte domande, e lui mi rispondeva nel suo inglese stentato. Mi conosceva come le sue tasche. Si rivolgeva a me in modo diverso rispetto agli altri: cercava una connessione personale. Sapeva quando essere severo, e quando essere gentile. Mi rispettava per ciò che ero. Mi faceva ripetere gli asana in cui avevo maggiori difficoltà, quelli che odiavo di più. Sapeva riconoscere un’autentica debolezza da un semplice atteggiamento pigro. Era un vero maestro nel leggere corpo e mente.

Era un autentico insegnante, nel verso senso della parola. Ci portava al limite: spesso cambiava istruzioni per metterci alla prova. Sapeva tirare fuori il meglio da noi. Dal suo modo di insegnare, appresi a capire la differenza tra una vera esigenza del corpo, e un semplice trucco della mia mente. E questo è stato il suo dono più grande. Mi ha dato l’autonomia e la forza necessaria a scoprire da solo la verità. Dalla sua trasmissione diretta, sono riuscito a portare avanti la tradizione e la ricerca. Se non avessi vissuto questa esperienza diretta con lui, forse tutto sarebbe diventato una sorta di “religione”.

E’ quello che mi sembra stia accadendo oggi con questo metodo. Gli studenti che diventano oggi insegnanti si limitano ad imitare quello che diceva Guruji o quello che ripete Sharath, come se fosse “la verità” o una sorta di “vangelo”. Non è qualcosa che conoscono davvero profondamente. Non deriva dalla loro esperienza diretta. E’ come essere pappagalli, e questo è quello che intendo per “religione”. Questo rende il metodo qualcosa di morto, senza più linfa vitale. Il nome della shala oggi è “Krishna Pattabhi Jois Ashtanga Yoga Institute”. Il nome originale era “Ashtanga Yoga Research Institute”. Non c’era un brand, o un’autorità sopra lo studente. Non bisognava memorizzare o fare ciò che diceva il maestro, era una ricerca continua, sua e nostra insieme a lui.

Inoltre, notate bene: non tutti i praticanti, ai miei tempi, diventavano insegnanti. Non andavamo a Mysore con il desiderio di insegnare, ma con la passione di imparare qualcosa di più su noi stessi. Alcuni tra noi erano portati all’insegnamento, Guruji li notava e li incoraggiava. Non rilasciava certificati, ma suggeriva personalmente, a chi riteneva adatto, di cominciare a insegnare. Il concetto e il business dei “corsi per insegnanti”, di qualsiasi tradizione, è totalmente senza senso. Ed è grazie a questo concetto che lo Yoga sta andando alla deriva. I corsi per insegnanti sono la più grande fonte di guadagno nel cosiddetto Yoga business. Tutti vogliono essere insegnanti, e praticamente qualsiasi centro yoga al mondo ne propone uno, per pagare le bollette. L’avvento dei corsi per insegnanti è diventato la rovina dell’integrità dell’insegnamento, e del trasmetterlo come un dono. Ha in parte diluito anche il metodo dell’Ashtanga.

Guruji davanti alla Shala di Lakshmipuram, Mysore

Guruji andava in ufficio ogni giorno a scrivere appunti sulle nostre classi di asana e pranayama. Stava formulando una ricerca per il suo istituto: l’Ashtanga Yoga Research Institute. Non scriveva su un taccuino in shala, ma lo faceva nel suo piccolo ufficio. Manju Jois (figlio di Guruji e suo legittimo erede), lo conferma, e dice che Guruji aveva pile di note, fogli su cui aveva scritto per decenni. Manju dice inoltre che Guruji creò le sequenze o serie (Prima/Seconda/Avanzate) sulla base di quello che gli sembrava opportuno. E posso testimoniare che il modo originale di insegnare ai primi studenti, negli anni ‘70/’80, era ben diverso rispetto ad oggi. Non esistevano le classi guidate: insegnava solo in stile Mysore. Introdusse la classe guidata quando gli studenti che partecipavano ai suoi tour divennero troppi. Negli anni cambiò anche ordine e metodo: non c’era una serie definita scritta su foglie di banana e mangiata dalle formiche. Era un modo per lui di mantenere misterioso il suo metodo, di legarlo alle metodologie insegnate anticamente agli Yogi tibetani. Sono molti gli studenti che possono testimoniarlo, persino Manju. Questo non toglie nulla all’immensa energia della pratica dell’Ashtanga Vinyasa Yoga creata da Pattabhi Jois. Guardate come sono diversi i metodi insegnati da BKS Iyengar e da TKS Desikachar (figlio di Krishnamacharya), anche se provengono tutti dallo stesso Maestro, Krishnamacharya. Ognuno di loro ha trasformato gli insegnamenti ricevuti in un metodo diverso; ognuno ha radici solide nei principi dell’Hatha Yoga, ma ha sviluppato il metodo che ha ritenuto opportuno. Ed è quello che propongo io oggi. E’ necessario un approccio scientifico, è necessario osservare gli strumenti di benessere che questi geni dello Yoga ci hanno trasmesso. Niente di più e niente di meno. La pratica degli asana e del pranayama è un contributo alla nostra salute: non c’è nulla di spirituale in questo. Asana e pranayama lavorano sui centri energetici, i chakra, che sono sotto i nostri occhi. Se consideriamo questo aspetto fisico come spirituale, manchiamo l’obiettivo. Sono pratiche che garantiscono la salute fisica e mentale: il percorso spirituale inizia quando arriviamo al terzo occhio, o sesto chakra. Guruji avrebbe voluto insegnarci qualcosa di più su questo, ma non pensava che fossimo pronti per gli aspetti più profondi dell’Ashtanga Yoga. Manju mi disse personalmente, dopo la sua morte, che Guruji avrebbe voluto approfondire gli altri rami dell’Ashtanga Yoga, ma che noi occidentali eravamo ossessionati dall’esteriorità, dagli asana. Volevamo asana sempre più complessi, eravamo bravi ad eseguirli, come del resto sono bravi i praticanti di oggi. Per quanto riguarda nello specifico il Pranayama, Guruji lo insegnava solo ad una cerchia ristretta. Chi tra noi aveva completato gli asana più avanzati poteva praticare pranayama sotto la sua guida. Voglio dire che noi, in pratica, abbiamo imparato solo i fondamenti dell’Ashtanga Yoga: il metodo principale dello Yoga è un viaggio interiore. Abbiamo perso il treno! Ecco perché io ho esplorato altri aspetti dello Yoga, perché sapevo, dentro di me, che non era tutto lì. Mi sentivo ingabbiato in un solo metodo.

La meditazione è la chiave che libera i misteri dell’inconscio. L’intuizione risiede nel sesto chackra, il terzo occhio, ed è qui che entriamo nell’ambito spirituale, che entriamo in contatto con l’anima. La forza dell’anima è ciò che anima il sistema mente/corpo. Asana e Pranayama, insieme a Yama e Niyama, sono passi preliminari per costruire un sistema corpo/mente pronto ad affrontare il viaggio interiore. Guruji enfatizzava questi primi quattro rami. Non ci spingeva verso i rami più alti, finché non avevamo conquistato un’autentica padronanza dei fondamenti dello Yoga. Riteneva che se non è possibile fermare l’irrequietezza del corpo e della mente, ancor meno lo è sedere in meditazione. Questo è in parte vero, ma è vero anche che abbiamo dedicato fin troppa energia nel pulire il nostro vascello, e ben poca a riempirlo. Dobbiamo elevare la nostra attenzione al ritiro sensoriale e alla concentrazione (Pratyhara/Dharana). Dhyana è l’immobilità che ricaviamo da questo ritiro verso l’interno. Samadhi è l’effetto che deriva dal perfezionamento della nostra concentrazione, dal riposizionarla dietro al terzo occhio. Da quel punto, tutto è grazia: lì inizia il nostro viaggio verso casa. L’ingresso nel regno dello spirito è attraverso quella porta: il terzo occhio. Persino Gesù ha detto “La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque l’occhio tuo è pieno di luce, tutto il tuo corpo sarà illuminato” (Matteo, 6:22). Ha inoltre detto: “Bussa e ti sarà aperto” (Matteo 7:7). Le nove porte al di sotto del terzo occhio sono le aperture al mondo esterno (i due occhio, le due orecchie, le narici, la bocca, i genitali e l’ano). Quindi parliamo dei chakra sottostanti. Asana e Pranayama lavorano su questi centri energetici. L’ingresso al mondo spirituale inizia invece nel terzo occhio. Quando ci sediamo e ritiriamo la nostra attenzione all’interno, abbandoniamo il nostro corpo fisico. Attraversiamo la morte da vivi. Non credetemi sulla parola: scopritelo da soli. Non credete mai a nessuno! Verificate sempre tutto di persona. Questo è ciò che mi angoscia nell’attuale modo di insegnare. Tutti dicono: “seguite il capo”. Invece, dobbiamo aprire il nostro terzo occhio per vedere realmente. Sfortunatamente, a Mysore lo spirito di ricerca è finito. Alcuni tra i più coraggiosi continuano a portare avanti la tradizione, per come era stata concepita.Il resto… segue il branco, ciecamente, con il terzo occhio chiuso.

SJ: Hai osservato negli anni la crescita di Mysore, l’affluenza di un numero sempre maggiore di praticanti e la perdita di un contatto diretto e personale con Guruji. Questo sviluppo ha cambiato le cose?

Prem, Radha e Manju Jois

Prem e Tim Miller, giovanissimi, agli albori dell’Ashtanga

Con il passare degli anni, avevo sempre meno voglia di andare. Il numero di studenti era cresciuto fino a diventare impossibile da gestire. Guruji non poteva seguire tutti. La vecchia shala di Lakshmipuram, a Mysore, poteva ospitare una decina di studenti. Quando andai la prima volta, riceveva 7-8 persone per volta. Poi, un numero crescente di praticanti cominciò ad arrivare. Guruji iniziava ad insegnare alle 4 del mattino, e continuava anche fino a mezzogiorno. Gli studenti aspettavano in fila sulle scale della sua casa di tre piani, ammassandosi fino al tetto, fermi per ore prima di entrare. Anche allora, Guruji mi trattava con affetto, mi riservava una corsia preferenziale, mi evitava lunghe attese. Con l’apertura di Gokulam, la shala divenne uno showroom di esibizionisti. L’energia nella sala era meno rispettosa della pratica, e molto rivolta all’apparenza. Tutti sembravano aver perso di vista il motivo per cui eravamo lì. Divenne un circo! Gli studenti più avanzati – o meglio quelli che riuscivano ad eseguire gli asana più complessi – venivano visti come idoli. Tutti volevano essere come loro. Se eseguire asana difficili significa essere spirituali, allora dobbiamo osannare gli acrobati del Cirque du Soleil! La gente sgomitava per entrare in Shala. C’era spazio solo per 70-80 studenti: si riceveva pochissima assistenza. Il mio ultimo viaggio a Mysore fu proprio poco prima che Guruji morisse, nel 2009. Mi dicono che le cose con Sharath non sono cambiate: tutti sembrano rincorrere la prossima postura, e il pezzo di carta che li autorizza a insegnare.

SJ: Come sono cambiate le cose per te dalla morte di Guruji, nel 2009? Che impatto ha avuto su di te, sulla tua pratica e sul tuo modo di insegnare? Condividi ancora il suo metodo?

APC: Quando Guruji morì, Radha ed io stavamo insegnando ad Amburgo, in Germania. Sapevo che Guruji non stava bene. Dissi a Radha, una mattina, che avevo avuto una visione della sua morte: controllai le mail, e ne ebbi conferma. La sera in cui ebbi questa visione, provai un grande senso di responsabilità nel portare avanti i suoi insegnamenti. Un’onda di energia mi travolse durante le lezioni che tenni ad Amburgo quel giorno. Sentii da quel momento che Guruji continuava il suo lavoro attraverso di me. Continuo a condividere con i miei studenti ciò che ho imparato da lui. A questo unisco ciò che ho imparato attraverso la mia personale ricerca, relativa alla sua pratica, e oltre la sua pratica. Non ho alterato l’essenza della pratica, ma ad essa ho aggiunto i miei approfondimenti, che derivano da 40 anni di ricerca, studio e pratica. Ho avuto la rara opportunità di lavorare con migliaia di studenti. So che questo metodo, se insegnato correttamente, funziona. E’ come essere un vero medico, che rispetta ogni individuo e somministra a ciascuno il farmaco più adatto. Nei tempi antichi, gli yogi che insegnavano asana erano in sintonia con i loro studenti. Oggi la maggior parte delle lezioni di yoga assomiglia ad un corso di stretching aerobico con la musica, anni luce di distanza rispetto alle origini. Molti praticanti non praticano ciò che predicano, e il risultato è una versione molto diluita della forma originale. Ai miei tempi, praticavamo per approfondire la nostra consapevolezza. Ora tutto è orientato all’obiettivo, alla ricerca esterna di qualcosa di più. E’ triste notare la piega che ha preso lo yoga “moderno”. Anche nell’ambito dell’Ashtanga, è sempre più raro entrare in una classe in cui il rispetto per lo studente sia la priorità.

SJ: Tu sei anche un medico e terapeuta Ayurvedico. Guruji ti ha in qualche modo incoraggiato in questo percorso, e in che modo queste tecniche ti aiutano nell’insegnamento?

APC: Si, il mio maestro Dr Vasan Lad mi considera oggi un medico Ayurvedico. Dr Lad è noto in tutto il mondo per la sua esperienza in campo ayurvedico, ed ha scritto molti libri su questa materia. Dirige inoltre l’Ayurvedic Institute di Albuquerque, in New Mexico. Ho studiato con lui per quattro anni nel 1983. Da allora ho incorporato l’Ayurveda nel mio modo di insegnare. Guruji amava l’Ayurveda, ne abbiamo discusso molte volte negli anni. L’aveva studiata a scuola. Anche Krishnamacharya era un grande sostenitore di questa scienza. Guruji lo disse più volte durante i nostri incontri, e spiegò quanto fosse importante apprenderla. Io fui uno tra i pochi a prendere in considerazione il suo consiglio. Penso che per chi insegni Mysore Style, lo studio dell’Ayurveda sia una componente molto importante. Questa scienza ci aiuta a rivolgerci a ogni studente in modo personalizzato, in base al dosha, all’età, all’ambiente, alla stagione. Senza la comprensione dell’Ayurveda, il metodo diventa generico e con un approccio standardizzato, quindi ben diverso da come Guruji l’ha trasmesso a me! E non è certo in questo modo che la pratica dello Yoga veniva trasmessa anticamente. Non è necessario diventare medici Ayurvedici per metterne in pratica le basi nel quotidiano. Penso però che sia un prerequisito per chi vuole insegnare conoscerla meglio. Se non siamo in grado di distinguere i bisogni specifici dei nostri studenti, come possiamo ottenere buoni risultati? Fatevi questa domanda, e ditemi se non vi sembra un ragionamento sensato.

SJ: Hai aperto due centri dedicati all’Ashtanga, uno a Bali e uno in Sri Lanka. Ci puoi raccontare come nasce e come cresce una comunità in stile Mysore?

APC: Negli anni, ho avuto l’opportunità di costruire molte comunità per chi pratica Ashtanga Yoga. Una delle prime è stata a Phoenix, in Arizona. Ho contribuito alla formazione di una comunità molto attiva fino agli anni ‘90, prima di andare altrove. Ho aiutato mio fratello Eagle a creare Pineapple Yoga a Kauai, nelle Hawaii. Eagle insegna lì ormai da 15 anni. E ho aperto un centro in Sri Lanka nell’anno in cui fu colpito dallo Tsunami! Non è stato un bel modo di partire, anzi è stata un’esperienza molto intensa, che ho descritto in un mio libro. Ma è stata un’idea che mi ha premiato in molti modi diversi. In Sri Lanka, l’idea (che non raccomando a tutti) è stata di aprire una comunità in cui tutti potessero praticare, ma con l’impostazione di un resort. Ci occupavamo di tutto, e a volte mi è sembrato di gestire un centro di assistenza per adulti! Avevo davvero troppe responsabilità in ambiti che non mi interessavano realmente (la ristorazione, la ricezione degli ospiti, il loro intrattenimento, etc.). Il mio centro a Bali, Ashtanga Yoga Bali Research Centre (in onore di Guruji) è molto simile a quello che ho vissuto io nei primi anni a Mysore. Gli studenti devono fermarsi per almeno un mese, questo è il requisito di permanenza minima. Sono in tanti a tornare e a crescere insieme al centro. Affrontiamo la pratica con spirito di ricerca, utilizziamo le tecniche che abbiamo appreso per decenni, per aiutare gli studenti ad affrontare i loro limiti personali. Ognuno di noi ha esigenze specifiche, e noi ci rivolgiamo ai singoli individui utilizzando l’Ashtanga e l’Ayurveda. Al termine del soggiorno, i praticanti sono forti e stabili nella loro pratica e possono tornare a casa con rinnovato entusiasmo. Ed è a questo punto che centri come Stillpoint Yoga London entrano in gioco, mantenendo viva la comunità locale. E’ un concetto simile a quello che un tempo animava le chiese, un luogo di devozione interiore dedicato allo sviluppo e alla trasformazione personale. Questo è l’autentico significato del detto di Guruji, “practice and all is coming”. Tutto ruota intorno alla pratica, quotidiana, regolare e costante: è al suo interno che avviene il cambiamento. Non è un desiderio o un sogno. E’ solo attraverso la partecipazione continua e completa che possiamo rimuovere l’ignoranza che avvolge il sistema corpo/mente. Nel mantra di apertura, la frase “Samsara Hala Hala (la velenosa natura delle fissazioni mentali) ci rivela natura della pratica, ovvero indurre corpo e mente a collaborare. La pratica è mentale e il corpo è il meccanismo con cui incoraggiamo la mente a cambiare. Gli strumenti che utilizziamo nella pratica hanno lo scopo di indurre la mente a collaborare con il corpo. Il respiro è uno dei “ponti” necessari a creare questa connessione. Un altro è costituito dai Bandha, un altro ancora dal Drishti. Guruji ne parlava spesso! Ecco perché poneva una grande enfasi sulla parte fisica della pratica, sugli asana. Ci diceva di cominciare da questo. Il sistema mente/corpo era il nostro laboratorio: il respiro ci consente di cambiare il nostro corpo e la natura della nostra consapevolezza. E’ come un laser puntato sulla nostra mente, che ci consente di penetrare gli stati più elevati di coscienza. Perché se corpo e mente non sono quieti, non riusciremo mai a ottenere quell’immobilità necessaria alla meditazione. Guruji voleva che la ricerca sugli altri rami dello Yoga fosse individuale, la lasciò al nostro libero arbitrio.

SJ: Vorrei toccare un tasto molto personale. Qualche anno fa, hai perso tragicamente tua figlia, Shanti. Vuoi parlarcene, e dirci in che modo la tua pratica spirituale e lo yoga ti hanno sostenuto nel superare quel momento? Come stai ora? 

APC: Perdere mia figlia Shanti è stato l’evento in assoluto più devastante della mia vita. Ero completamente impreparato. Avevo due figlie meravigliose, che amavo alla follia. Ero in un momento bellissimo della mia vita personale e professionale. Mi ero appena sposato con una donna meravigliosa, Radha. Avevo costruito insieme a lei una comunità di grande successo a Bali, dove Yoga e Ayurveda crescevano insieme. Ero economicamente tranquillo. Ero in piena salute. Avevo tutto ciò che desideravo dalla vita. E poi mi arrivò la notizia… Radha ed io eravamo appena tornati dalla California, dove ci eravamo sposati, il 21 giugno del 2013. Il 18 luglio atterrammo a Bali. Aprii il computer e trovai una mail di Mira, la mia figlia minore. L’oggetto era “CHIAMAMI IMMEDIATAMENTE”. Sentii un pugno allo stomaco, e la chiamai immediatamente. Mi rispose e mi diede la tragica notizia. Shanti era morta in un incidente d’auto. Inutile dire che da allora la mia vita ne è stata profondamente influenzata. Yoga e Pranayama mi hanno aiutato nel superare questa perdita terribile? Sì e no. Ho sofferto le pene dell’inferno. La pratica mi ha costretto ad andare ancora più in profondità. Mi ha lasciato vulnerabile e solo. Ad un certo punto sono entrato in una seria depressione. Ho dovuto toccare il fondo per riuscire a rialzarmi. Grazie a Dio la pratica mi ha mantenuto in salute per tutto il tempo necessario a uscire dalle circostanze più tristi che un essere umano possa trovarsi ad affrontare. In tanti mi hanno detto che la perdita di un figlio è l’evento più tragico che un essere umano possa affrontare. Non posso che essere d’accordo. Il mio insegnante di meditazione, Ishwar Puriji, mi ha aiutato più di chiunque altro. E’ arrivato nella mia vita proprio quando ero pronto a mollare tutto. Qualcuno mi inviò un suo video su YouTube. Guardai le sue conferenze sui temi della vita e della meditazione. Mi toccarono profondamente e decisi di incontrarlo il prima possibile. Mi ha condotto sul cammino del Surat Shabd Yoga (lo Yoga delle Correnti dell’Anima). Una pratica che mi ha dato sostegno spirituale. La mia mente cerca spesso di sabotare le mie vittorie spirituali, ma grazie al cielo posso rivolgermi a Ishwar in ogni momento. Credo che tutto, nella nostra esistenza, sia pre-ordinato. Questo evento drammatico è un disegno che mi ha costretto a svegliarmi, a comprendere il vero significato della vita, e a capire dove è la mia vera casa. Se questa tragedia non mi avesse colpito, non avrei mai compreso queste verità.

SJ: Come è cambiata la tua pratica negli anni? Pratichi ormai da oltre 30 anni: cosa hai imparato, e cosa stai ancora imparando?

 APC: Con l’età la mia pratica è gradualmente cambiata. A vent’anni, ero un entusiasta degli asana, volevo completare le serie avanzate, e ci riuscii abbastanza facilmente e velocemente. Ero molto atletico, la pratica per me era una sfida: la mia attrazione per lo yoga era puramente fisica in quel periodo. Dopo aver conquistato le posizioni più complesse, cominciai a chiedermi: e ora? Fu la motivazione che mi spinse verso gli aspetti più mentali e spirituali della pratica, ma non accadde dalla sera alla mattina! Come ho detto, forse il risveglio più profondo è arrivato insieme alla perdita di mia figlia Shanti. Naturalmente, la saggezza che deriva dall’essere un “vecchio” insegnante/praticante mi ha regalato la capacità di offrire la giusta prospettiva sia ai principianti che ai più esperti. Riconosco subito l’ossessione per la forma tipica delle giovani promesse dello Yoga. E’ naturale, è parte del processo. Posso incoraggiarli a proseguire, ma devono passare da soli attraverso questa fase. Mi ci sono voluti anni per capire quanto fossero ridicole le pose da ginnasta rispetto alla profonda realizzazione spirituale, o anche semplicemente a ciò che è davvero necessario per essere in salute. Ho perso tanta di quella energia per rincorrere un asana! Eppure, quella fase ha fatto parte del mio processo di crescita, dell’ignoranza della gioventù. Ora, a 60 anni, ho una pratica adatta alle mie esigenze e alla mia età. Non mi pavoneggio in posizioni avanzate, né ne sento il desiderio. Pratico una serie composta dai Saluti al Sole, dalle posizioni in piedi e dagli asana seduti della prima e della seconda serie che ritengo più adatti a me. E sto benissimo! Ho appena fatto un check up completo in Thailandia: tutti i test possibili. I risultati sono stati eccellenti, i medici ne sono rimasti colpiti. Sicuramente devo tutto alla mia pratica e alla mia alimentazione (salutare ma priva di fanatismi), e un po’ anche al mio sense of humor.

Ho imparato e sperimentato sulla mia pelle l’efficacia di questa pratica, se usata correttamente. Per “correttamente” intendo secondo i principi dell’Ayurveda (i dosha, l’età, l’ambiente, la professione, la vita familiare del praticante). E’ necessario rivolgersi alla persona come ad un individuo unico in se stesso. Dobbiamo rivolgerci all’essere umano onorandolo con la nostra massima attenzione, rispetto e cura. Molti insegnanti non hanno idea di cosa stanno facendo, perché non sanno nemmeno di cosa hanno bisogno loro in prima persona. Come possono essere sensibili nei confronti dei loro studenti? Se usiamo l’Ashtanga Yoga, gli asana e il pranayama in modo superficiale, il danno che rischiamo di arrecare gli individui è di proporzioni epidemiche! Il mio ruolo di insegnante anziano è di portare avanti questa tradizione facendo tesoro di ciò che ho imparato attraverso l’esperienza e la ricerca. Ciò che oggi viene proposta è una versione generica, standardizzata della pratica. E’ di scarso valore per i praticanti, perché viene insegnata con scarsa sensibilità. Ecco perché enfatizzo l’approccio ayurvedico come strumento per sviluppare il potenziale e l’equilibrio del singolo. Questo è il modo più corretto di rivolgersi ad ogni individuo all’interno di una lezione di gruppo. Lo stile Mysore era stato creato per insegnare ad un gruppo di persone, pur mantenendo intatta la personalizzazione della pratica. Non si può fare diversamente. Ma purtroppo non è così che la pratica viene trasmessa nella maggior parte dei centri yoga sparsi in tutto il mondo.

Ashtanga Yoga con Guruji negli anni 70-80. Pochi si avventuravano in India.

Viviamo oggi in un’epoca e in luoghi diversi rispetto alle origini di questo metodo. Dobbiamo adattarlo alla situazione contingente e al singolo praticante. Questa pratica è stata concepita per “padri di famiglia”: era insegnata da uomini (Pattabhi Jois/Krishnamacharya) che avevano famiglie, non da monaci o viandanti. Si basava sul solido principio di poter essere praticata tutti i giorni, su base regolare, per aiutare il singolo a vivere al meglio la propria esistenza, ad esprimere il proprio potenziale in qualsiasi campo. Giovani o vecchi, uomini o donne, c’è un modo corretto per praticare questo metodo, per far sì che ci renda forti e resilienti oltre la nostra immaginazione. Posso testimoniarlo per esperienza diretta, per la continua ricerca e per le migliaia di studenti a cui ho insegnato: ne ho visti gli effetti su ognuno di loro. Non conosco un’altra forma di esercizio in grado di coinvolgere organi interni, muscoli, fascia, ossa, articolazioni, circolazione, etc. E’ sicuramente il metodo migliore che esista. Ci aiuta a mantenere intatto il tempio del nostro corpo, a renderlo pronto alle pratiche di meditazione rivolte al sé supremo. Se ne conoscete uno migliore, per favore ditemelo!

SJ: Quindi… qual è il tuo prossimo progetto?

APC: La mia missione, attraverso l’Ashtanga Yoga Bali Research Centre e all’estero, è di insegnare correttamente e con saggezza questo metodo. So che posso trasmetterlo nel modo migliore se mi applico nel dimostrare a tutti in che modo l’Ashtanga Yoga può migliorare le nostre vite. Desidero che tutti ne traggano gli stessi vantaggi di cui ho goduto io per oltre 40 anni, ma è necessario che la saggezza accompagni la potenza di questo sistema, o saranno sempre più numerosi i praticanti danneggiati, dentro e fuori, da uno strumento usato male. Mi impegno a mantenere viva la ricerca! Le religioni, i fanatismi sono pericolosi. Aiutatemi a mantenere vivo l’Ashtanga Yoga: fate ricerca, e salvate questo metodo dall’inaridimento totale. La scintilla è ancora accesa. Se esplorate il metodo con mente aperta, vedrete voi stessi se ho ragione o torto. Il vero lavoro inizia dentro di noi, non fuori. Non limitatevi a lustrare la barca praticando asana e pranayama. Se vi fermate agli asana, prendete in giro voi stessi. Ho scritto un libro dal titolo “The Only Way Out Is In”. Non c’è altro modo per sopravvivere agli alti e bassi dell’esistenza di cui ci è stato fatto dono. Siamo venuti in questo mondo per esperire il regno fisico. Io mi ritengo sazio: e voi? Verificate da soli ancora una volta l’autenticità delle mie parole. L’autentico significato della vita ci attende proprio dietro i nostri occhi. Non davanti al nostro ego. La lotta tra oscurità e luce esiste: il polo positivo è il terzo occhio, il polo negativo è la nostra radice, muladhara. La forza ci accompagna se ci muoviamo verso la luce. Incoraggio tutti voi ad usare l’innato buonsenso. Il mio insegnante spirituale, Ishwar Puriji, dice “il buonsenso è una rarità”. E io sono d’accordo. Coltivate la ricerca attraverso l’intuizione che risiede nel vostro terzo occhio: è un rilevatore innato delle fandonie che cercano di propinarci. E’ il modo per sovrascrivere la Matrix. E’ oltre il sistema corpo/mente. Ci eleva fino a renderci osservatori obiettivi per l’uso corretto del nostro “vascello”. La nostra mente vuole comandare il gioco e rappresenta il potere negativo. L’anima è l’osservatore. E’ Krishna che guida il nostro carro, tenendo le redini dei nostri cinque sensi. Lasciate che Krishna conduca la corsa, sedetevi e godetevela. Diversamente, sarete condannati a ripetere continuamente gli stessi errori. Questo è il significato autentico della frase “Samsara Hala Hala”.

Ho condiviso qui la mia esperienza personale. So di andare controcorrente rispetto al credo popolare, ma mi sta bene essere un ribelle per una causa giusta. Lo siete anche voi?

– Anthony Prem Carlisi intervistato da Scott Johnson

Traduzione di Francesca d’Errico