Gli Yama e i Niyama: dal medioevo a oggi

Parte I – di Jason Birch e Jaqueline Hargreaves, The Luminescent

Traduzione e commento di Francesca d’Errico

Gli articoli tradotti e quelli autografati sono protetti da copyright. Per la riproduzione, scrivere a fmderrico@gmail.com. The Yoga Blog è un sito che offre gratuitamente una selezione di articoli, interviste, traduzioni di grande rilievo per la comunità yogica italiana. Ogni vostra donazione mi aiuta a portare avanti questo progetto, libero da qualsiasi influenza commerciale. Donate usando il pulsante PayPal che trovate in testa ad ogni articolo. Grazie.

Tra i primi concetti che ci vengono trasmessi quando iniziamo a praticare Yoga, troviamo gli Yama e Niyama, i cosiddetti “codici di comportamento” dello Yogi nei confronti di se stesso e degli altri. Ma cosa è cambiato nell’interpretazione di questi precetti morali dalla loro prima apparizione ad oggi? E sono veramente presenti in tutti i testi che trattano di Yoga? Per scoprirlo, mi sono rivolta come sempre ai ricercatori della SOAS University, ideatori e realizzatori del famoso Hatha Yoga Project di cui ultimamente sto traducendo per voi una selezione di articoli. Così, sfogliando tra i tanti, interessantissimi documenti a disposizione, ho trovato questo articolo, pubblicato dallo Yoga Scotland Magazine e in seguito online su The Luminescent, in cui Jason Birch e Jacqueline Hargreaves cercano di mettere un po’ di ordine in un percorso non sempre ovvio e lineare. Ho diviso per praticità il post. La seconda parte, nei prossimi giorni, affronterà i principali Yama e Niyama in dettaglio. Ma ora dedichiamoci all’introduzione storica, che riserva come sempre molte sorprese…

Yama e Niyama – la visione medievale (immagine di The Luminescent)

In questo articolo esamineremo come gli Yama e i Niyama siano stati interpretati in testi di diverse tradizioni medievali e moderne. In alcuni casi, queste linee guida comportamentali sono state adattate in base al pubblico a cui erano dirette e, in altri casi, sono state reinterpretate a seconda delle visioni dottrinali di una determinata tradizione. Dovremo inoltre considerare per quale motivo alcuni metodi, come il Ṣaḍaṅgayoga dello Śaivism, e le prime tipologie di Haṭhayoga, abbiano omesso gli Yama e i Niyama. Infine, discuteremo della continua influenza dei Pātañjalayogaśāstra nell’India medievale ed esamineremo (nella seconda parte di prossima pubblicazione, n.d.T.) come sono stati reinterpretati i concetti di Ahiṃsā, Brahmacarya e Tapas.

La diversa numerazione di Yama e Niyama

Nel periodo medievale indiano (tra il sesto e il diciottesimo secolo), i principali sistemi di Aṣṭāṅgayoga contenevano più dei dieci Yama e Niyama dei Pātañjalayogaśāstra. Molti ne presentavano venti, e alcuni addirittura trenta. Un esempio tipico si trova nel Śāradātilaka, del dodicesimo secolo, un Tantra di Orissa, che contiene un capitolo sullo yoga alquanto eclettico:

I dieci Yama sono non violenza, sincerità, non rubare, celibato, gentilezza (kṛpā), sincerità (ārjava), pazienza (kṣamā), serenità (dhṛti), alimentazione moderata (mitā- hāra) e pulizia (śauca). I dieci Niyama, insegnati da chi conosce le scritture dello yoga, sono ascetismo, contentezza, fede [nell’esistenza di un mondo superiore] (āstikya), [donazioni religiose] (dāna), adorazione di Dio (devasya pūjana), ascolto degli insegnamenti dottrinali (siddhāntaśra- vaṇa), compunzione (hrī), contemplazione (mati), ripetizione di un mantra (japa) e presentazione di offerte (huta).

Molti, se non tutti, gli Yama e i Niyama di Patañjali furono mantenuti nelle tradizioni successive. Tuttavia, in alcuni casi, fu abbandonata la visione di Yama e Niyama come rami di sostegno. Troviamo un buon esempio in un testo Advaitavedānta precedente al 14esimo secolo, l’Aparokṣānubhūti, che trasmette un sistema di Rājayoga con quindici rami (aṅga). In questo testo, gli Yama e i Niyama sono definiti così:

Con la consapevolezza che ‘Tutto è Brahma’, si ha la moderazione di tutti i sensi. Questo è chiamato Yama e dovrebbe essere praticato costantemente. Niyama è un corso di azione susseguente, coerente con questa consapevolezza e con il rifiuto delle azioni che ad essa non si confanno. Il saggio genera supreme benedizioni grazie al Niyama.

Altri testi riconoscono implicitamente l’esistenza di altri Yama e Niyama, ma insegnano selettivamente solo quelli che considerano più importanti. Lo si vede ad esempio nell’Aṣṭāṅgayoga del Netratantra Aṣṭāṅgayoga (750-850 CE), che li considera come uno dei tre metodi per eludere la morte (kāla- vañcana):

Lo Yama migliore è l’astensione costante (virati) dalla vita mondana (saṃsāra), ed il miglior Niyama è la meditazione costante (bhāvanā) sul più elevato livello di realtà (tattva).

Il Netratantra fa parte di una minoranza dei Tantra di Śaiva che adottavano la formula a otto rami dell’Aṣṭāṅgayoga nel loro sistema Yogico. Nello Shivaismo tantrico era prevalente la formula a sei rami (ṣaḍaṅga) che ometteva Yama e Niyama. Sebbene sia molto difficile parlare di Tantra in termini generici a causa delle grandi diversità delle sue tradizioni e dei corrispondenti insegnamenti, sarebbe un errore concludere che l’omissione degli Yama e dei Niyama nel Ṣaḍaṅgayoga voglia indicare l’abbandono di una condotta morale. Al contrario, molti Tantra contengono passaggi relativi alla condotta morale degli iniziati, e se consideriamo questo aspetto accompagnandolo alla lettura del Ṣaḍaṅgayoga, gli Yama e i Niyama diventano in questo contesto quasi superflui.

L’omissione di Yama e Niyama
Nath yogi

Molte tradizioni primitive di Haṭha e Rājayoga (12esimo-15esimo secolo) omettevano gli Yama e i Niyama dai loro insegnamenti. Un esempio lampante è nell’Haṭhapradīpikā, del 15esimo secolo, il cui manoscritto non contiene versi relativi alle linee guida comportamentali. La loro omissione impone una domanda: quali erano i codici morali dei primi praticanti di Haṭha e Rājayoga? Una risposta possibile è che questi praticanti seguissero i codici morali della loro tradizione religiosa. Alcuni testi indicano che l’Haṭha e il Rājayoga erano conosciuti da una pletora di praticanti. Ad esempio, nella sezione dedicata all’Haṭhayoga, Dattātreyayogaśāstra del 12esimo secolo cita:

Che sia un Brahmmino, un asceta, un Buddista, un Jainista, un portatore di teschi (kāpālika) o un materialista; il saggio che ha fiducia [negli insegnamenti dell’Haṭha e del Rājayoga] ed è devoto alla pratica dello yoga, otterrà il successo in qualsiasi impresa.

In una simile situazione, sembra plausibile pensare che i Brahmini seguissero il codice di condotta Brahminico, i Buddisti il loro, e così via. Si potrebbe pensare che i portatori di teschi, i Kāpālika, che di notte sul suolo delle cremazioni adoravano una terrificante versione di Śiva chiamato Rudra, avessero poco a che fare con linee guida comportamentali di qualsiasi tipo. Godevano di una dubbia reputazione, con i loro riti trasgressivi che comprendevano anche il consumo di carne umana. Alcune delle loro scritture sono sopravvissute, ma un commento agli Pāśupātasūtra di Kauṇḍinya (quinto-sesto secolo CE) contiene una discussione piuttosto vasta sugli Yama e i Niyama di questi asceti. Kauṇḍinya li elenca:

Non violenza, celibato, sincerità, astensione dal commercio e non rubare sono gli Yama. Non cedere alla rabbia, ascoltare il guru, essere lindi, cibarsi con moderazione ed essere vigili sono i Niyama.

In termini generali, questi spaventosi asceti di Śaiva seguivano strette interpretazioni dei loro Yama e Niyama. Ad esempio, il commento rivela che dovevano mangiare solo cibo preparato da altri, per non incorrere nel peccato di Hiṃsā (violenza) inerente alla preparazione del cibo, come accendere un fuoco (azione che poteva causare la morte di creature minuscole).

Poiché i testi di Rāja e Haṭhayoga non menzionano la necessità, per i praticanti, di sottostare a riti di iniziazione (dīkṣā), probabilmente queste tipologie di yoga erano praticate da persone che continuavano a seguire le regole comportamentali della tradizione di appartenenza. In questo senso, l’Haṭha e il Rājayoga possono essere considerati moralmente neutri, perché si basano sui codici morali di altre tradizioni.

In quasi tutte le versioni stampate dell’Haṭhapradīpikā sono inseriti versi sugli Yama e i Niyama, spesso presi a prestito dai commenti di Brahmānanda, intitolati Jyotsnā, e scritti nel 19esimo secolo. La struttura originale del manoscritto dello yoga dell’Haṭhapradīpikā è solo a quattro rami (ovvero Āsana, Prāṇāyāma, Mudrā e Samādhi). L’inclusione degli Yama e dei Niyama nelle sue edizioni stampate è forse un tentativo degli editori di rendere più comprensibile questo testo. Questi editori erano probabilmente influenzati dal sistema dell’Aṣṭāṅgayoga, probabilmente a causa della popolarità degli Yogasūtra di Patañjali in seguito all’enorme successo internazionale del libro Raja Yoga di Swami Vivekananda (pubblicato nel 1896).

La continua influenza dei Pātañjalayogaśāstra
Patanjali,
effige medievale

Sebbene i Pātañjalayogaśāstra avessero poca influenza sui metodi primitivi di Haṭha e Rājayoga, restavano comunque un’importante opera sullo yoga per Brahmini eruditi e filosofi dell’India medievale, come è largamente dimostrato dagli autori medievali che composero i loro commenti a quest’opera: da Śaṅkara, Vācaspatimiśra, a Vijñānabhikṣu, ma anche ai meno conosciuti Bhāvagaṇeśa, Bhavadevamiśra, Nārāyaṇatīrtha e così via.

Tutti questi autori erano filosofi colti, e nelle loro spesso scarne biografie si nota la loro affiliazione ad altre tradizioni filosofiche dell’epoca, come l’Advaitavedānta. In altre parole, questi commenti non erano frutto di un lignaggio filosofico che si identificava nei Sāṅkhyans o negli yogin.

Infatti, l’influenza di Patañjali nel periodo medievale si evince con più facilità nella letteratura Brahminica. E’ come se molti eruditi Brahmini avessero i Pātañjalayogaśāstra nella loro collezione di manoscritti, e li estraessero dai loro scaffali quando avevano bisogno di riferimenti in materia di yoga. Ad esempio, quando il commentatore Kashmiro Rājānaka Alaka, vissuto poco dopo il 12esimo secolo, si trova a commentare il termine amanaskayoga (letteralmente, ‘lo yoga senza mente’) in un capitolo dell’inno a Śiva Haravijaya, ci si aspetterebbe un riferimento ad un altro testa Śaiva su questo argomento, come l’Amanaska del 12esimo secolo. Ma sembra che Rājānaka Alaka avesse più familiarità con lo yoga di Patañjali che con l’Amanaska, che insegnava un sistema yogico noto come Rājayoga per il raggiungimento dello ‘stato di Yoga senza mente’ (amanaska). Egli spiega quindi amanaskayoga con i termini che Patañjali usa per definire il più alto livello di Samādhi, l’Asaṃprajñātasamādhi:

[Questo] stato di yoga (yogadaśā) è privo di mente (amanaskā), [ovvero, è una] forma di Asaṃprajñātasamādhi, [che è] priva dell’attività della mente, [la cui] natura è il pensiero discorsivo.

Fu solo dopo il sedicesimo secolo che gli accademici eruditi iniziarono a interessarsi seriamente ai testi di Haṭha e Rājayoga .

Un ulteriore esempio di Brahmino erudito, la cui visione sullo yoga fu largamente influenzata dai Pātañjalayogaśāstra, è Godāvaramiśra. Fu il precettore (rājaguru) del sedicesimo Re di Orissa, Pratāparudradeva. Il suo compendio sullo Yoga, lo Yogacintāmaṇi, si fonda principalmente su passaggi selezionati dei Pātañjalayogaśāstra, sui commenti di Vācaspatimiśra e di Bhojadeva e sui passaggi relativi allo yoga di altri testi yogici considerati accettabili dai Brahmini ortodossi, come i Purāṇa e i Dharmaśāstra.

-continua

Lo Yoga dell’ HAṬHĀBHYĀSAPADDHATI: l’alba dell’HAṬHAYOGA moderno

Parte Prima – sintesi e traduzione dell’originale di Jason BIRCH & Mark SINGLETON, Soas University – da The Journal of Yoga del 29 dicembre 2019
Antico manoscritto in Sanscrito,
da Hatha Yoga Project

Ashtanga Yoga e Yogakurunta: qual è il vero legame tra la nostra pratica e la leggenda del manoscritto citato da Krishnamacharya? Il lavoro che vi propongo oggi è un estratto del Volume 2 del Journal of Yoga dedicato all’Haṭhābhyāsapaddhati, di cui ho parlato negli ultimi articoli pubblicati sul mio blog. Data la sua lunghezza, ho pensato di riassumerlo e dividerlo in due parti. La prima parte, tratta la storia di questo testo, e le prove che lo collegano al leggendario Yogakurunta di Krishnamacharya, ritenuto il testo da cui deriva l’Ashtanga Yoga, così come viene tramandato ancora oggi dalla famiglia Jois. La sintesi di queste pagine mi sembra uno stimolo interessante ad approfondire le origini della pratica, per tutti gli studenti e insegnanti di questa disciplina . Vediamo dunque insieme cosa hanno scoperto Jason Birch e Mark Singleton, i due accademici della Soas University di Oxford, che hanno dedicato gli ultimi cinque anni al bellissimo Hatha Yoga Project . Questo progetto ha reso finalmente accessibili molti manoscritti fino a poco tempo fa conosciuti solo perché nominati da alcuni guru e maestri contemporanei. La seconda parte della traduzione, che pubblicherò nei prossimi giorni, contiene maggiori dettagli su similitudini e differenze tra l’Haṭhābhyāsapaddhati, e la pratica attuale dell’Ashtanga Yoga. Quindi continuate a seguire il mio blog, e iscrivetevi per ricevere le notifiche delle nuove pubblicazioni!

Haṭhābhyāsapaddhati e Yogakurunta: il legame con lo yoga di Krishnamacharya

Krishnamacharya tra i suoi studenti, Mysore Palace

“Un legame suggestivo tra il sistema di yoga posturale di Krishnamacharya e l’Haṭhābhyāsapaddhati è il testo, apparentemente perduto, noto con il titolo di Yogakuruṇṭa o Yogakuraṇṭi, nominato sia da Krishnamacharya che dal suo allievo K. Pattabhi Jois come una fonte importante dei loro insegnamenti (Singleton 2010, 184-186). In Yogāsanagaḷu (‘Yoga Postures,’ 1941) di Krishnamacharya, testo che contiene sequenze posturali simili al moderno Ashtanga (Vinyasa) Yoga, viene nominato lo Yogakuraṇṭi come la quarta delle sei fonti dell’autore, che includono: (1) i Pātañjalayogasūtra, (2) l’Haṭhayogapradīpikā, (3) il Rājayogaratnākara, (5) le Upaniṣads relative allo yoga, e (6) le cose apprese dal suo/dai suoi guru e la sua esperienza personale (guropadeśa mattu svānubhāva). E’ interessante notare che in Yogāsanagaḷu lo Śrītattvanidhi non viene più menzionato come fonte, come in Yogamakaranda del 1934 (N.d.T., “Il Nettare dello Yoga”, Astrolabio). Tra queste sei fonti, è solo la quarta, proprio lo Yogakuraṇṭi , e la sesta (le cose apprese dai guru e la sua esperienza personale) che possono fornire una fonte credibile per gli insegnamenti degli āsana inclusi nel testo. Nessuno degli altri lavori sono fonti convincenti per la componente posturale del libro di Krishnamacharya’s book. Lo Yogakuraṇṭi , dunque, assume un’importanza unica come potenzialmente unica fonte testuale per i gruppi di āsana del libro di Krishnamacharya.

Il nome ‘Kuruṇṭa’ o ‘Kuraṇṭi’, naturalmente, richiama l’autore dell’Haṭhābhyāsapaddhati, ovvero Kapālakuraṇṭaka. Uno degli ultimi studenti di Krishnamacharya, A.G. Mohan, sostiene che Krishnamacharya gli abbia rivelato che lo Yogakuraṇṭi fosse autografato dal Koraṇṭaka menzionato nell’Haṭhapradīpikā . Così come Jason Birch ha supposto,

Nota: potremmo a nostra volta supporre che nel periodo trascorso tra i due libri, Krishnamacharya avesse riconosciuto che il testo a cui si riferisce come ‘Yoga Kuraṇṭi’ fosse in realtà la fonte della sezione risistemata di āsana del Śrītattvanidhi , e non sentisse quindi più la necessità di citare il Śrītattvanidhi. Se dobbiamo prendere sul serio la proposta che quel testo fu l’ispirazione delle sequenze posturali sviluppate da Krishnamacharya tra il 1930 e il 1940, sarebbe logico pensare che quel testo fosse più l’Haṭhābhyāsapaddhati in cui la struttura delle sequenze è intatta, piuttosto che il Śrītattvanidhi , in cui tali sequenze non sono distinguibili. Krishnamacharya potrebbe essere stato a conoscenza di un capitolo (il n. 24) del Rudrayāmala Uttaratantra che descrive āsana complessi. Ciò sarebbe possibile solo se il Rudrayāmala citato da Krishnamacharya in Yogamakaranda fosse lo stesso Rudrayāmala Uttaratantra , e di questo non abbiamo certezza.

Nota: Abbiamo già notato l’ambiguità del titolo ‘Haṭhayogapradīpikā’ nel contesto delle tradizioni yogiche di Mysore, che potrebbe riferirsi sia alla versione del 15esimo secono dell’Haṭhapradīpikā che ad un manoscritto illustrato identico all’Haṭhābhyāsapaddhati custodito negli archivi del Palazzo di Mysore. Tuttavia, quando Krishnamacharya si riferisce e cita l’Haṭhayogapradīpikā in Yogāsanagaḷu (e in altri suoi lavori), è chiaro che intende proprio l’Haṭhapradīpikā. Per questo, possiamo ritenere questo testo come la sua fonte primaria per gli āsanas che presenta.

Jason Birch al lavoro su un antico manoscritto

(Birch 2018 [2013], 141-142), è possibile che l’Haṭhābhyāsapaddhati sia lo Yoga Kuruṇṭa— o una sua versione abbreviata —citato da Krishnamacharya e Pattabhi Jois. Più recentemente, in risposta all’edizione curata da Kaivalyadhama e datata 2016 dell’Haṭhābhyāsapaddhati, altri (come lo studioso di yoga Manmath Gharote) hanno espresso pareri simili. Per valutare la validità di una simile opinione, sarebbe necessario considerare il grado di corrispondenza tra le sequenze di āsana insegnate da Krishnamacharya a Mysore negli anni ’30 e successivamente da Pattabhi Jois (che si ritiene derivino dagli Yoga Kuruṇṭa) e le sequenze posturali dell’Haṭhābhyāsapaddhati. (si veda articolo precedente su questo blog, n.d.t.) Prima però, vediamo cosa sappiamo dello Yoga Kuruṇṭa.

Secondo uno dei biografi di Krishnamacharya, il maestro ricevette il consiglio del famoso studioso di Varanasi, Gaṅgānāth Jhā di viaggiare oltre il Nepal per padroneggiare lo Yoga e incontrare il suo futuro guru (Srivatsan 1997, 27):

Esiste in lingua Gurkha un libro chiamato Yoga Kuranṭam [sic]. Il libro contiene informazioni pratiche sullo yoga e sulla salute. Se ti recherai presso Rāma Mohana Brahmacārī imparerai il significato completo degli Yoga Sūtra di Patañjali. […] In quel testo vengono trattati i diversi livelli degli Yoga Sūtra di Patañjali. Vi sono descritte inoltre con grande chiarezza varie pratiche yoga. Solo con l’aiuto dello ‘Yoga Kuranṭam [sic]’ si potranno comprendere la scienza e le ragioni che sottendono gli Yoga Sūtra”.

Nei sette anni e mezzo in cui Krishnamacharya restò con il suo guru, imparò a memoria l’intero Yoga Kuraṇṭam in lingua originale. (ibid).

Possiamo inoltre prendere in considerazione l’ipotesi che Krishnamacharya abbia modificato il titolo completo del testo (Kapālakuraṇṭakahaṭhābhyāsapaddhati) per prendere le distanze dalle associazioni tantriche al nome Kapālakuruṇṭaka (kapāla significa ‘teschio’).

Secondo Birch (2013): ‘Esiste la possibilità che Yogakuruṇṭa sia un nome alternativo a Haṭhābhyāsapaddhati o all’opera originale da cui è stato estratto il manoscritto incompleto dell’Haṭhābhyāsapaddhati .’ In una missiva personale a James Russell, Gharote scrive: ‘E’ possibile dire che il testo “Korunta” sia in realtà “Kapala Kuaranta Hathabhyasa-Paddhati” perché finora non ci siamo mai imbattuti in alcun altro testo collegato al termine ‘Kurantaka’, a parte questo. Quindi, a meno che non si trovino altre prove, dobbiamo accettare che “Korunta” sia in realtà “Kapala Kuaranta Hathabhyasa-Paddhati” (commento al post di James Russell, tradotto su questo blog: “Yoga Korunta – la leggenda rivelata” di James Russell Yoga, 2015).

Frederick Smith e Dominik Wujastyk suggeriscono che la parola kuruntam (sillabata karunta, korunta, kuranta, gurunda) sia probabilmente una variante Tamil (o comunque Dravidica) del termine Sanscrito grantha (che significa “libro”), piuttosto che un termine Gurkhali (si legga Singleton e Fraser, 2013).

[…] K. Pattabhi Jois, allievo di Krishnamacharya, diceva che lo ‘Yoga Korunta’ non era stato composto da Koraṇṭaka ma dal ‘rishi [ṛṣi]’ Vāmana, e che era alla base del metodo che Jois rese popolare in tutto il mondo con il nome di ‘Ashtanga Yoga’ (o ‘Ashtanga Vinyasa Yoga’ se ci riferiamo al suo distintivo sistema di unire respiro e movimento, noto come ‘vinyāsa’). Come recita il sito di Jois:

“L’Ashtanga Yoga è un antico sistema di pratica Yoga tramandato da Vamana Rishi nello Yoga Korunta. Questo testo fu trasmesso a Sri T. Krishnamacharya nei primi anni del 1900 dal suo Guru Rama Mohan Brahmachari, e venne successivamente trasmesso a Pattabhi Jois durante i [sic] suoi studi con Krishnamacharya, a partire dal 1927 (dal sito KPJAYI, 2017).

Eddie Stern

[…] Eddie Stern, uno dei più avanzati allievi americani di Pattabhi Jois, racconta che a Krishnamacharya— che aveva già memorizzato il testo durante il suo apprendistato con il suo Guru — fu detto che avrebbe potuto trovare lo Yogakuraṇṭi in una biblioteca di Calcutta, e il maestro trascorse lì un periodo di studi compreso tra il 1924 e il 1927 (Stern, 2010). E’ possibile dunque che esista (o sia esistito) a Calcutta un altro testo, comparabile con l’Haṭhābhyāsapaddhati. Tuttavia, il fatto che lo Yogakuraṇṭi non appaia nella lunga lista dei testi elencati da Krishnamacharya in Yoga Makaranda del 1934, fa presupporre che Krishnamacharya sia venuto a conoscenza di questo testo in tempi successivi.

Eddie Stern (in Jois, 2010) aggiunge inoltre che “Korunta significa “gruppi,” e che nel testo si diceva fossero contenuti molti diversi gruppi di asana, così come gli insegnamenti originali su vinyasa, drishti, bandha, mudra, e filosofia […] “Quando Guruji [Pattabhi Jois] iniziò i suoi studi con Krishnamacharya nel 1927, gli vennero trasmessi metodi contenuti nello Yoga Korunta. Sebbene sia difficile, se non impossibile, provare l’autenticità di questo libro, esso è generalmente accettato come la fonte dell’Ashtanga Yoga insegnato da Pattabhi Jois“.

L’affermazione di Stern sull’etimologia del termine ‘korunta’ è particolarmente interessante se pensiamo che l’Haṭhābhyāsapaddhati sia praticamente l’unico tra i testi dello yoga premoderno a raggruppare gli āsana (proni, supini, e così via). Inoltre, proprio come esistono sei gruppi di āsana nell’Haṭhābhyāsapaddhati, esistono sei serie nell’Ashtanga Yoga. E’ plausibile quindi che la sistemazione di un testo simile all’ Haṭhābhyāsapaddhati sia stata quanto meno una ispirazione per il raggruppamento di āsana dell’Ashtanga Yoga, se non addirittura la sua fonte.

[continua]

Sostieni The Yoga Blog cliccando sul pulsante “Donate”: con un piccolo contributo puoi sostenere questo progetto indipendente, privo di sponsor, interamente gratuito e dedicato a praticanti e insegnanti di Yoga italiani. Le fonti di The Yoga Blog sono le principali istituzioni e i maestri più accreditati a livello internazionale. Le traduzioni sono approvate dagli autori. Per la riproduzione di questo o altri testi di The Yoga Blog, è necessario inoltrare richiesta scritta a fmderrico@gmail.com

Vivere in un universo psichico

Traduzione e commento al testo di Richard Conn Henry – da Nature

Ricordo che una delle prime cose che mi colpirono leggendo il libro di Sharon Gannon e David Life, “Jivamukti Yoga – Pratiche per la Liberazione del Corpo e dell’Anima” fu la bellissima definizione di “Yoga”:
“Non possiamo ‘fare’ yoga. Lo Yoga è il nostro stato naturale. Ciò che possiamo fare sono pratiche yoga, che possono rivelarci dove resistiamo al nostro stato naturale”. Quella frase marcò l’inizio della mia ricerca su quale fosse veramente il nostro ‘stato naturale’. Uno stato di perfetta unione con tutto ciò che ci circonda, con il nostro corpo (che rappresenta il primo ambiente con cui il nostro sé viene a contatto), certo, ma anche con l’ambiente che ci circonda, la natura, il pianeta, l’universo. Questo stato di connessione ci rimanda ad un universo fatto non solo di materia, ma anche di percezione, e di spirito. Un concetto che sembra avere poco a che fare con la scienza.

Eppure oggi eminenti scienziati concordano nell’affermare che la nostra realtà è ben lontana dalla concezione darwiniana dell’evoluzione per casualità, e lasciano intendere (in alcuni casi proponendo teorie molto fondate) che non è più il ‘nucleo’ della cellula, il nostro DNA, a renderci ciò che siamo: ma proprio la nostra capacità, attraverso le membrane cellulari, il sistema nervoso, la pelle, di creare un rapporto con l’ambiente (Bruce H. Lipton, 2020). Possiamo concordare o meno con la teoria di un biologo come Lipton, che ha rapporti controversi con la scienza. Ma quando è un astrofisico della John Hopkins University come Richard Conn Henry a proporci la teoria di un universo psichico, forse possiamo cominciare ad ascoltare.

Henry ha pubblicato questa sua teoria su Nature.com, uno dei siti scientifici più autorevoli in UK, riassumendola in un articolo di facile lettura, che vi ripropongo sintetizzato e tradotto da me in italiano. Davanti ad un Natale in cui i nostri spiriti sembrano eclissati dagli scenari politici ed economici prodotti dalla pandemia, le parole di questo scienziato a me sembrano meravigliose e importanti, per ricordarci, soprattutto se pratichiamo Yoga, qual è il nostro stato naturale. E come cercarlo, se ci sembra ultimamente un po’ sperduto.

“L’unica realtà è la mente e le sue osservazioni. Ma le osservazioni non sono ‘cose’. Per vedere l’Universo per ciò che è realmente, dobbiamo abbandonare la nostra tendenza a concettualizzare le osservazioni come se fossero cose.”

Storicamente, ci siamo sempre rivolti ai nostri leader religiosi per comprendere il significato delle nostre vite, e la natura del nostro mondo. Con Galileo Galilei, questa tendenza è cambiata. Stabilendo che la Terra ruota intorno al Sole, Galileo non solo è riuscito a credere nell’incredibile, ma ha convinto tutti a fare lo stesso. E’ stato un risultato incredibile in termini di ‘raggio d’azione psichico’, e con la successiva opera di Isaac Newton, la fisica si è unita alla religione nel tentativo di spiegare il nostro ruolo nell’Universo.

La più recente rivoluzione della fisica, negli ultimi 80 anni, deve ancora riuscire a trasformare la comprensione delle masse in modo simile. E tuttavia una corretta comprensione della fisica era accessibile anche ai tempi di Pitagora. Secondo Pitagora, ‘i numeri sono ogni cosa’, e i numeri sono mentali, non meccanici. Allo stesso modo, Newton chiamò la luce ‘particelle’, sapendo che il concetto sarebbe stato una ‘teoria efficace’ – utile, ma non veritiera. Come rivela il biografo di Newton, Richard Westfall: “La causa definitiva dell’ateismo, secondo Newton, è ‘questa nozione che i corpi abbiano una realtà completa, assoluta e indipendente'”.

La scoperta, datata 1925, della meccanica quantica risolse il problema della Natura dell’Universo. Brillanti fisici stavano nuovamente per credere all’incredibile – questa volta, che l’universo è psichico. Secondo Sir James Jeans: “il flusso di conoscenza si sta dirigendo verso una realtà non meccanica: l’Universo comincia ad assomigliare più ad un immenso pensiero che ad una immensa macchina. La mente non sembra più un intruso accidentale nel regno della materia… dovremmo piuttosto dire che è il creatore e il governatore del regno della materia”. Ma i fisici non hanno ancora seguito l’esempio di Galileo, e hanno convinto tutti delle meraviglie della meccanica quantica. Come spiega Sir Arthur Eddington “E’ difficile per un fisico, legato al dato di fatto, accettare la visione che il substrato di ogni cosa appartenga al mondo della psiche”.

Nella sua commedia Copenhagen, che presenta la meccanica quantica ad un’audience più vasta, Michael Frayn attribuisce a Niels Bohr queste parole: “abbiamo scoperto che… l’Universo esiste… solo attraverso la comprensione situata nella mente umana”. La moglie di Bohr risponde, “e l’uomo al centro di questo Universo sei tu, o Heisenberg?”.

I fisici eludono la verità, perché la verità è estranea alla fisica del quotidiano. Una modalità tipica per evadere l’Universo psichico è invocare la ‘decoerenza’ — la nozione che ‘l’ambiente fisico’ sia sufficiente a creare la realtà, indipendentemente dalla mente umana. Tuttavia l’idea che un qualsiasi atto irreversibile di amplificazione sia necessario a far collassare la funzione delle onde è risaputamente errato: negli esperimenti di tipo Renninger, la funzione dell’onda collassa semplicemente grazie al fatto che la mente umana non la vede. L’Universo è completamente psichico, o mentale.

Nel decimo secolo, Ibn al-Haytham diede inizio alla visione che la luce proceda da una fonte, entri nell’occhio e venga percepita. Questa rappresentazione non è corretta, ma ancora oggi è ciò che la maggior parte delle persone ritiene vero, e tra questi sono inclusi anche molti fisici (a meno che non li si metta sotto pressione). Per scendere a patti con l’Universo, dobbiamo abbandonare queste idee. Il mondo è quantum meccanico: dobbiamo imparare a percepirlo come tale.

Uno dei benefici del portare l’umanità a percepire correttamente il mondo, è la conseguente gioia nello scoprire la natura mentale dell’Universo. Non abbiamo idea di cosa implichi questa natura mentale, ma la cosa bella è che è vera. Al di là della acquisizione di questa percezione, la fisica non ci è più di aiuto. Possiamo scendere nel solipsismo, espanderci al deismo, o ad altro se riteniamo che possa servire, ma non possiamo più chiedere aiuto alla fisica.

E un altro beneficio nella visione quantica del mondo è che chi impara ad accettare che niente esiste, se non l’osservazione, è molti passi avanti rispetto ai fisici che sperano di scoprire ‘la realtà delle cose’. Se riuscissimo a tirar fuori un Galileo, e a far credere alla gente la verità, la fisica ci sembrerebbe un gioco da ragazzi.

L’Universo è immateriale – psichico e spirituale. Vivete, e godetevela.

Altre letture suggerite:

Marburger, J. On the Copenhagen Interpretation of Quantum Mechanics http://www.ostp.gov/html/Copenhagentalk.pdf (2002).

Henry, R. C. Am. J. Phys58, 1087–1100 (1990).

Lo Yoga: terapia contro la paura

Pensavo in questi giorni a quanti dei nostri comportamenti sono influenzati dalla paura. Al di là delle paure oggettive nei confronti di qualcosa, credo che la paura da cui tutte le altre nascono sia quella di mostrarci per ciò che realmente siamo, senza maschere, nella nostra vulnerabilità. Eppure solo quando siamo noi stessi, senza più strutture o personaggi da recitare, possiamo davvero amarci, ed essere profondamente amati. Alla ricerca di spunti di riflessione sull’argomento, come spesso mi accade, sono “inciampata” virtualmente in questo bellissimo post di David Garrigues, che traduco per voi.

“Quando inizio a guardarmi dentro, mi accorgo di essere semplicemente un gran groviglio di paure. Se mi metto ad analizzarle, mi accorgo che la maggior parte di queste paure sono auto-imposte. Sono io a chiamare fantasmi e mostri e sempre io a consentire loro di girarmi attorno, permettendogli di creare disagi al mio stato mentale. Ma una di queste paure ha un’origine più profonda. Non sono io a chiamare questa paura, essa semplicemente “E'”, come se avesse un suo corpo e una sua coscienza.

Non giudico la paura. Anzi le sono grato. Sono gli improvvisi choc dei suoi aculei a mantenermi vivo. La accetto come la guida che mi spinge verso l’ignoto. Cerco di vivere secondo il credo “vai verso ciò che temi”, perché paura e creatività spesso vanno a braccetto. Non possiamo trovare l’una senza l’altra. L’arte dello yoga consiste nel richiamare il coraggio, mettere in atto le proprie capacità, vivere liberamente al confine di ogni nuovo precipizio fisico, energetico e/o psichico. Dopo 30 anni sul tappetino, so che è la combinazione tra paura e creatività a consentirmi di forgiare un percorso originale e unico verso la conoscenza del Sé.

Ma sono pur sempre umano, e a volte non riesco ad abbracciare la mia paura. Anzi, perdo la pazienza nei confronti della sua natura accanita e ossessiva. Le mie capacità yogiche vanno a quel paese: vorrei alzarmi e gridare: “di cosa diavolo ho così tanta paura?”. Vorrei spaventarla, zittirla, spegnerla, ignorarla, deriderla, prenderla a calci o catapultarla nella stratosfera schiacciando un magico bottone. Ma ognuno di questi tentativi si rivela futile. Perché nonostante tutto, lei è con me, dovunque io vada, segue ogni mio passo, proprio come la mia ombra. Vorrei infilarmi a letto e nascondere la testa sotto le lenzuola. Ma improvvisamente mi ricordo che c’è qualcosa che può scuotere la mia paura… posso andare sul tappetino, praticare una posizione, e iniziare a respirare.

Uso il mio scheletro per disegnare un cerchio magico che definisce uno spazio interno, e uno spazio esterno. Dentro questo cerchio pratico Khecari Mudra; trasformo il mio palato in una caverna sacra e divento un Creatore dell’elemento Spazio. Quindi il mio corpo e la mia mente diventano un Sukhastan, un rifugio, un regno dove la paura non può entrare e dove la comunione sacra diventa possibile.

Il mio corpo in un asana diventa un’espressione di potenza, in cui assumo un atteggiamento di controllo rispetto alla paura. Può essere Utkatasana, un atteggiamento di ferocia. O Maha Mudra, un Sigillo Sacro di Forza Vitale. O Shavasana, che rappresenta l’indifferenza di un cadavere. In Sarvangasana, tutto il mio corpo mi sostiene. In Natarajasana, assumo le sembianze di un esperto danzatore che allontana la paura con i suoi aggraziati movimenti. In Vrkshasana, sono un Albero radicato al suolo, che si erge maestoso contro ogni tempesta. In Samasthiti, posso mantenere l’equilibro tra forze opposte. 

Creo uno sportello temporale, un intervallo di eternità. Sono completamente assorto. Posso respirare, muovermi, fermarmi, riflettere o creare, oppure semplicemente non fare nulla. E semplicemente, esistere. Dentro questo spazioso, vuoto e tranquillo stagno che è la mia mente, riesco ad osservare la verità profonda di questa nostra esistenza, che si dipana in un’unica, continua, eterna e sacra essenza”. (D. Garrigues)

Nello spazio eterno di un Asana, nel momento di completa concentrazione, la paura cessa di esistere.

Francesca d’Errico

David Garrigues

L’Illusione dei social media: il pensiero di Ty Landrum

foto di Marco Pantani

Nei giorni scorsi mi sono imbattuta in un bellissimo post sullo Yoga e sull’illusione dei social media, scritto da Ty Landrum. Ty è stato scelto dal leggendario Richard Freeman per sostituirlo alla direzione del suo celeberrimo centro in Colorado. La sua preparazione è davvero molto profonda, e i suoi scritti sempre molto interessanti. Il punto di vista di Ty, che esprime la relazione tra social media e narcisismo, e soprattutto la possibilità di guardare al lato oscuro della nostra umanità da una diversa prospettiva è espresso in modo così limpido e privo di giudizi da meritare di essere divulgato il più possibile. Gli ho quindi chiesto di poterlo tradurre per il mio blog e con il suo permesso, lo riporto per voi sulle mie pagine. Buona lettura e buona riflessione…

” I Social Media possono far pensare che lo yoga sia un’arte scenica. E non c’è dubbio che quanto appare sui social media sia esattamente questo. Quando una persona flessibile si fa fotografare in una posizione impegnativa, in un contesto spettacolare, si sta impegnando in una performance estetica iconoclastica e decisamente moderna. Le immagini che ne risultano ispirano ammirazione per il corpo umano e stupore per le sue capacità di contorcersi, sfidando gli standard di bellezza tradizionali, ma giocando sul nostro innato senso della linea, della simmetria, dell’equilibrio e della forma.

Inoltre, le immagini in questione contribuiscono alla conversazione di più ampia portata sul significato di “personificazione”, una conversazione in cui tutti siamo coinvolti, consciamente o no. Queste immagini – come le stesse posizioni yoga – sono simboli di qualcosa che desideriamo toccare, da cui siamo profondamente estraniati e che sogniamo di riscoprire ai confini del mondo. Ci ricordano che tutti personifichiamo questo enigmatico “qualcosa”, sebbene cerchiamo di raggiungerlo senza sosta.

Questa è una delle strane realtà della condizione umana: troviamo difficile toccare ciò che abbiamo vicino, anche se pulsa proprio sotto la superficie della nostra pelle.

Il lato oscuro di qualsiasi arte scenica è il narcisismo. E con l’ubiquità dei social media, le forze narcisistiche sono più che mai diffuse. I Social Media ci mettono in mano il potere di dare forma alla nostra immagine pubblica, attraverso parole e immagini attentamente selezionate. Con la diffusione massificata di questo potere, sperimentiamo un curioso slittamento della sede del nostro io. Mai come ora, ci vediamo come gli altri ci vedono. Ma ora abbiamo il potere di manipolare come gli altri ci vedono, grazie alle immagini della nostra esistenza che esponiamo solo dopo averle accuratamente modificate a nostro piacimento.

Questo slittamento ci coinvolge tutti, indipendentemente dal nostro livello di attività sui Social Media, perché crea una situazione in cui guardiamo i Social Media per farci un’idea l’uno dell’altro, e anche se resistiamo a questa forza, la non-partecipazione ha un significato che tiene comunque conto di quella impressione, suggerendo un’alleanza con l’innata mancanza di chiarezza della mente umana. I Social Media hanno assunto caratteristiche fortemente confessionali, che fanno inorridire e imbarazzano i più riservati.

Il carattere confessionale dei Social Media crea un’illusoria trasparenza che sembra far collassare la personalità su cui posa la psiche, sollevando ed esponendo cose che molti preferirebbero tenere nascoste, sia perché le considerano imbarazzanti, frivole o troppo sacre per il pubblico ludibrio.

I Social Media possono distorcere in modo negativo l’impressione che abbiamo l’uno dell’altro, creando un falso senso di trasparenza. Ma è al tempo stesso innegabile che i social media siano una finestra aperta sulla nostra coscienza collettiva. Ciò che passa attraverso questi media a volte sguaiati è un riflesso lucido e rivelatore delle forze nascoste che danno forma alla mente colletiva. Il narcisismo che troviamo sui social media è il nostro narcisismo. La vanità che vediamo è la nostra vanità. Tutto ciò che appare attraverso questa finestra ci espone, mostrandoci ciò che giace sul fondo del pozzo della psiche.

Ty Landrum by A. Sigismondi

E tutto dipende dalla nostra reazione. Se reagiamo con sdegno e risentimento alla vanità altrui, allora diventiamo noi stessi sdegno e risentimento. Nel momento in cui personifichiamo queste emozioni acute e spinose, lasciamo che esse ci definiscano, e diamo loro sempre maggior potere, riflettendo le immagini del nostro sdegno e risentimento all’interno del profondo pozzo della psiche collettiva; queste immagini brillano attraverso lo specchio dei social media. Le loro correnti quindi scorrono ancora più rapide sotto la superficie, acquistano forza e minacciano di trovare una fessura da cui erompere.

Se invece diamo a queste immagini un’attenzione amorevole, rilasciamo un po’ della tensione nascosta sotto le nostre tendenze reattive. Rilasciamo la pressione dell’ego, che tende alle reazioni sdegnate e risentite verso ciò che minaccia la santità e la solidità delle nostre identificazioni. Quando le immagini dello yoga appaiono sui social media, la minaccia può essere molto forte – specialmente per chi ha sviluppato disgusto nei confronti dell’esternazione dello yoga attraverso immagini di contorsionismo. L’ego che si identifica con “il vero yoga” è ansioso di separare il concetto che abbiamo di ciò che non è autentico, e si infiamma quando i social media sfumano le linee tra la pratica yoga contemplativa e l’arte scenica sociale.

Ma lo yoga autentico è sempre nel momento presente. E quando ci infiammiamo per ciò che vediamo come un’adulterazione o una perversione di qualcosa che ci è caro, e siamo conseguentemente pronti a reazioni di sdegno nei confronti di altri che sono sul nostro stesso cammino, ne perdiamo il filo. Non che lo yoga richieda di non avere discernimento – al contrario, il discernimento è uno dei veicoli della nostra evoluzione. Ma finché restiamo intrappolati in emozioni spinose, non possiamo raggiungere la chiarezza da cui questo discernimento dipende. Queste emozioni distorcono le nostre impressioni della realtà, e quindi non possiamo apprezzare la reale intelligenza e meraviglia di ciò che appare ai nostri occhi. All’ombra di queste emozioni, perdiamo le tracce del sublime che ci passa davanti. E queste tracce possono essere ovunque, anche sui social media.

In noi c’è sempre qualcosa che cerca naturalmente di venire alla luce. E sebbene possa essere oscurato dalle incessanti recite dell’ego, solo l’ego può liberarlo. L’ego è maya, il velo dell’illusione del mondo fenomenico. Questo mondo crea la falsa convinzione che siamo tutti isolati e separati. L’ego sostiene l’apparenza di questo mondo, imbevendo ognuno di noi di un falso senso di importanza individuale. E il narcisismo è solo uno dei modi per far fronte a questo senso di isolamento, coltivando l’ego agli estremi.

Quindi maya è l’illusione che ci isola, forzandoci ad identificarci troppo con il nostro ego. Ma maya è anche lo specchio in cui ci osserviamo, e diventa consapevole di ciò che siamo realmente. Come avviene per la forza della creazione, maya porta la nostra essenza sottile in una forma corporea. E’ il fulgore della natura che ci permette di diventare consapevoli di noi stessi, dandoci oggetti da esperire. Senza maya, non ci sarebbero pensieri, sensazioni o intimità. Non ci sarebbe altro che puro e abissale vuoto, da cui il mondo si spiega. Quindi maya non è solo il velo dell’llusione naturale, il velo che nasconde la nostra vera natura; maya è anche il potere della coscienza di apparire a se stessa, di diventare consapevole di se stessa,  come il vuoto che sostiene il mondo della forma.

Lo Yoga della relazione inizia quando riconosciamo la duplice natura di maya, il suo modo di nascondere e rivelare contemporaneamente. Comincia quando abbandoniamo i nostri impulsi reattivi nei confronti degli altri esseri umani, sospendiamo i nostri preconcetti su di loro, e lasciamo che ci invadano con i loro eccessi e le loro assurdità, specialmente quelle che sembrano minacciare il nostro senso di noi stessi, isolante e narcisistico. La pratica consiste nel far loro spazio, anche se offendono il nostro senso estetico e la nostra sensibilità filosofica, finché non percepiamo la rottura dei confini dei nostri giudizi sulla loro presunta superficialità, e lasciamo che si mostrino nella loro assoluta unicità.

La dignità inviolabile dell’essere umano dipende dal fatto che ognuno di noi rifrange in modo unico la luce della coscienza, e contribuisce con qualcosa di altrettanto unico al dispiego sublime della consapevolezza collettiva. Per quanto imperfetta possa essere la nostra ricerca, ognuno di noi è animato dallo stesso desiderio di sperimentare l’abbandono dei condizionamenti, il desiderio di superare il senso di isolamento, per godere dell’amorevole essenza della nostra umanità. Se guardiamo gli altri in questo modo, come esseri animati, anche se in modo imperfetto, dallo stesso desiderio di libertà, la chiarezza emerge spontaneamente.

Quando abbandoniamo le nostre difese, e rinunciamo all’impulso di protestare contro chi ci ricorda il nostro desiderio di limitare e sopprimere, le posture che troviamo sui social media, anche se altamente artistiche e raramente in grado di catturare un’autentica trasformazione spirituale, ci appaiono come una estensione di quello che quasi tutti consideriamo yoga “autentico” e “tradizionale”. Una goffa ritualizzazione del nostro desiderio di una lucida e amorevole connessione con tutti gli altri esseri umani. Le correnti di narcisismo e vanità continueranno a scorrere nei canali dei social media, semplicemente perché fanno parte della funzione mentale che compone la nostra umanità. Ma se osserviamo con occhi aperti, possiamo trovare qualcosa di più di narcisismo e vanità. Troviamo una straordinaria celebrazione del corpo, che lo onora come mezzo per l’illuminazione e che aspira con fremente passione a scoprirne i segreti, per toccarne intimamente l’essenza.

Quando arriviamo a vedere le cose in questo modo, ci accorgiamo che maya, attraverso i social media, è fortemente rivelatrice, e ciò che rivela è la bellezza dell’intricato lavorìo della mente umana. La vera illusione dei social media – la vera idea sbagliata – è tale perché a causa della nostra vanità e del nostro indomabile desiderio di riconoscimento,  l’ego impedisce alla luce della consapevolezza di emergere e di risplendere. Ma la luce della consapevolezza non può essere oscurata. Anche quando il narcisismo entra in scena, espone la profondità del nostro desiderio di connessione, e un raggio luminoso perfora lo schermo dei nostri computer.

Ty Landrum

Il motivo migliore per praticare: nessun motivo

David Garrigues

Questa mattina ho aperto la mia mail e come sempre ho trovato molti messaggi provenienti da insegnanti di Yoga di tutto il mondo. Mi sono iscritta alle loro newsletter perché mi piace ricevere ogni giorno uno spunto di riflessione, uno stimolo alla ricerca, un motivo in più per praticare.

Quindi la mail di David Garrigues, oggi, mi ha particolarmente stupito perché il titolo recitava proprio così: il miglior motivo per praticare è nessun motivo.

Ma come? Non cerchiamo ogni giorno una motivazione in più per metterci sul tappetino, anche quando abbiamo dormito male, mangiato troppo, ci siamo stressati e innervositi per ragioni ben poco yogiche? Non abbiamo sempre bisogno di ripeterci qualcosa che ci ricordi quanto la nostra pratica sia importante? Il messaggio di David, che attraverso le sue provocazioni stimola sempre un pensiero in più, sembrava suggerire tutto il contrario. Lo riporto in italiano, perché mi ha fatto riflettere, e alla fine… mi ha fatto dimenticare di riflettere, e venire voglia di mettere i piedi nudi sul tappetino, senza dovermi nemmeno chiedere perché. E accendendo di colpo la lampadina sulla famosa frase di Sri K. Pattabhi Jois: “Lo Yoga è 1% teoria, e 99% pratica”. Buona lettura!

” La pratica è importante perché ci porta oltre la teoria, dentro l’esperienza. Esperienza della conoscenza sacra ed esoterica del Sé. Sri K. Pattabhi Jois, il fondatore dell’Ashtanga Yoga, enfatizzava ripetutamente la differenza tra la conoscenza teorica e l’esperienza pratica della conoscenza.  

I praticanti di Ashtanga yoga sono rinomati per la serietà con cui affrontano la pratica. Seguiamo religiosamente la ricetta di due o più ore di pratica per sei giorni alla settimana. Alcuni di noi (parecchi in realtà) si alzano ad orari assurdi (intorno alle 3 del mattino) per ritagliarsi uno spazio di tranquilla solitudine in cui praticare. C’è da chiedersi da dove arrivi l’energia per sostenere un programma così estenuante… 

Praticate solo perché avete voglia di praticare. Punto. Non fatelo per un motivo particolare; non perché state seguendo una tradizione, non perché volete dimagrire, essere in forma, divertirvi, stare bene, crescere spiritualmente, realizzarvi, o mostrare devozione. No, nessuno di questi motivi.  

Bandite qualsiasi “motivo” vi venga in mente per avere la spinta necessaria a mettere piede sul tappetino. 

Capiamo di aver trovato qualcosa di importante per noi quando sentiamo la voglia di farlo, senza un motivo particolare: semplicemente, non abbiamo altra scelta. Riusciamo in qualche modo a trovare il tempo per praticare, leggere, studiare, ascoltare, contemplare, riflettere, o essere in qualche modo connessi con la materia che ci interessa. Se parliamo di Yoga, questo significa cercare un maestro e usare qualsiasi mezzo in nostro possesso per conoscere, poco a poco, sempre qualcosa in più. Siamo alla ricerca di qualcosa che ci permetta di penetrare in quello che Kabir definisce “il nostro corpo ignorante”.   

Pensate a quando eravate bambini. Facevate le cose senza motivo, spontaneamente, senza pensare a cosa avreste ottenuto da una qualsiasi azione, né a migliorare voi stessi. Non avevate bisogno di convincervi, vi capitava qualcosa di bello sotto mano, e cominciavate a giocarci. Non appesantite la vostra pratica con un motivo. 

Come dice Kabir:

“Chi spera in un motivo, fallirà. 

L’arroganza della ragione ci ha separato dall’amore. 

La parola stessa “ragione” ci allontana inesorabilmente.” 

Non avete bisogno di un guru, di profondità psicologiche, di rivelazioni penetranti o improvvise per rivoluzionare la vostra anima. E’ così semplice e facile semplicemente scegliere di vedere, è quasi un solletico difficile da afferrare. Come direbbe Alan Watts, “Non potete mordervi i denti”.   

Cercare un motivo in più, come se potesse renderci più forti, ci allontana dall’obiettivo ed è una vera tragedia, perché tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un battito di ciglia, e un sorriso malizioso. 

– David Garrigues, maggio 2017

Traduzione e commenti Francesca d’Errico

Tradizione contro innovazione, o tradizione innovativa?

Andrew Eppler e Sri K. Pattabhi Jois. Tradizione e innovazione. Sono due concetti che si elidono a vicenda, e che produrranno sempre conflitti e dibattiti? O possono coesistere pacificamente? In questo post Andrew Eppler spiega come e perché questi due concetti possono collaborare in modo produttivo.

Tradizione e innovazione: due concetti in lotta, o una possibile armonia? Traduco oggi il post pubblicato da Andrew Eppler e Sabine Nunius di Ashtangayogainfo, non solo insegnanti di Yoga ma anime del progetto documentaristico Mysore Yoga Traditions, che si prefigge di fare luce sulla lunga tradizione yogica di Mysore, al di là della sola pratica fisica. Il loro articolo mi sembra di grande interesse proprio in un momento storico in cui molti praticanti si sentono confusi davanti alla pratica “tradizionale”. A volte sentiamo il bisogno di “rompere le righe”, ma abbiamo paura di sbagliare. Quando il cambiamento può essere positivo, e soprattutto, è giusto “innovare” la tradizione? Ancora una volta grazie ad Anthony Grim Hall per aver portato questo post alla mia (e vostra) attenzione.

Tradizione – la base della nostra pratica

Se affrontiamo la questione “tradizione vs innovazione” – o piuttosto, tradizione “e” innovazione – dobbiamo innanzi tutto parlare di tradizione. E questo ci porta, per quanto possa sembrare banale, alla domanda: “Cosa intendiamo per tradizione? E qual è la definizione di una ‘tradizione yogica’? Per tradizione, intendiamo solo una sequenza di posizioni, possibilmente databile nella notte dei tempi? E dobbiamo giudicare la validità di una tradizione semplicemente basandoci sull’età di questa particolare sequenza?

Personalmente ritengo che una tradizione yogica non si componga solo di posizioni. Molti di noi hanno iniziato a praticare grazie agli asana, quindi è normale che questo sia l’argomento che per primo cattura la nostra attenzione. Tutti noi tendiamo a interessarci alle cose che catturano la nostra attenzione, e che confermano ciò che già conosciamo. Ai miei occhi, questo è anche un fenomeno caratteristico delle culture occidentali: l’idea occidentale dello yoga tende a focalizzarsi sulle sequenze di posizioni e sulla loro origine temporale. Cerchiamo di stabilire cosa sia più autentico, determinandone l’età.

Per contro, c’è una tradizione yogica molto forte a Mysore e in molte altre parti dell’India, che differisce notevolmente dall’approccio occidentale. Questa tradizione non si concentra sulla pratica delle posizioni, come potremmo essere portati a credere. Tuttavia, è una tradizione bellissima e vivace.

Mi concentrerò sullo yoga che è arrivato a noi da Mysore. Le statistiche ci rivelano che la metà di tutti gli stili praticati oggi nel mondo sono stati influenzati direttamente da Sri Tirumalai Krishnamacharya e dai suoi discepoli. Gli anni più importanti per Sri Krishnamacharya furono i 25 anni che trascorse insegnando a Mysore, a cavallo tra gli anni ’30 e ’50. Quindi quale tradizione yogica appartiene a Mysore? Se guardiamo oltre gli asana, e entriamo in una gamma più vasta di pratiche e filosofie nella comunità di Mysore, notiamo che questa città vanta una tradizione yogica molto antica.

La tradizione di Mysore: oltre gli asana

Il Maharaja di Mysore, dal 1894 fino al 1940: Krishnaraja Wadiyar IV

Le tradizioni yogiche indiane non sono mai state legate solo agli asana. A Mysore possiamo trovare una cultura spirituale che copre esercizi respiratori, concentrazione, meditazione, canti, devozione: ed è una cultura almeno millenaria, tracciabile fino al tempo di Ramanuja. Quando il Re di Mysore convinse Krishnamacharya ad insegnare proprio nella sua città, il Sanskrit College era una realtà già molto conosciuta, con una biblioteca immensa dedicata alla filosofia indiana. Lo Yoga è una delle sei principali filosofie indiane, ed è sempre stata presente a Mysore.

Krishnamacharya apprese l’Ashtanga Vinyasa Yoga in Nepal, o come dicono alcuni in Tibet, e mise una forte enfasi sugli asana e sull’hatha yoga. Era un grande studioso, e le sue argomentazioni a favore della pratica degli asana convinsero la comunità intellettuale di Mysore. Sappiamo che Krishnamacharya portò con sé nuove tecniche e nuove idee, ma sappiamo anche che a Mysore lo yoga era già praticato, in senso più vasto, come filosofia.

Tutte le pratiche posturali dello yoga, prima di Krishnamacharya, erano solitamente un fatto molto privato, quasi segreto. Alcuni dei più anziani eruditi di Mysore affermano di avere appreso gli asana con il conteggio dei respiri, e i Saluti al Sole dalle loro famiglie, che praticavano yoga da generazioni, ben prima che si fossero mai sentiti i nomi di Krishnamacharya e del Vinyasa. Lo Yoga è una forma d’arte molto integrata e non è veramente possibile affermare quanto sia antica, o da dove provenga. Per come la vedo io, l’Ashtanga Vinyasa Yoga è un sistema coerente, ben costruito, che deriva da una tradizione culturale molto innovativa. L’innovazione fa parte della tradizione! E questo Yoga “Mysoriano” è fortemente radicato nella cultura e nella filosofia indiane. I nomi degli asana parlano di saggi, divinità, animali e icone culturali che fanno parte della filosofia della comunità di Mysore. Tutto questo sembra evidenziare l’esistenza di una cultura ricca, bella e antica.

Le radici dello Yoga – oltre 5000 anni fa

E’ vero che lo Yoga è stato “inventato” più di 5000 anni fa? Personalmente, penso che questa affermazione sia più o meno autentica. Dipende da cosa intendiamo per Yoga. Danny Paradise dice per esempio che lo yoga è connesso a tutte le tradizioni shamaniche e indigene, e che è nato insieme all’umanità stessa. Io sono d’accordo. Probabilmente, ogni civiltà che è andata oltre lo stadio primitivo può vantare pratiche fisiche e psichiche affini allo yoga. Se parliamo di Yoga indiano, possiamo dire datare la sua origine a 5000 anni fa, o 4500 anni fa se vogliamo esprimere una stima più conservativa. Quando parliamo invece degli asana che pratichiamo ancora oggi, i primi riferimenti testuali sono nelle Upanishad minori e nei testi del Tantra. L’Hatha Yoga Pradipika (databile al 1500 AD) entra in maggiori dettagli. Ma se vogliamo discutere le esatte sequenze Ashtanga Vinyasa Yoga, possiamo affermare che furono sviluppate da by Sri Krishnamacharya e Sri K. Pattabhi Jois. Parliamo quindi di un centinaio di anni, forse meno.

Sri K. Pattabhi Jois: l’Asthanga arriva in Occidente

Sri K. Pattabhi Jois fu certamente il maestro che trasmise l’Ashtanga Vinyasa Yoga all’Occidente. Con il suo inglese incerto, riuscì a creare enorme entusiasmo e devozione nei suoi discepoli. Lo ritengo un autentico genio creativo. Sistematizzò gli asana in modo da dar loro un senso, rendendoli memorizzabili e praticabili. Ad oggi, il suo modo di creare sequenze e il suo approccio hanno un’immensa influenza sulle forme di yoga praticate nel mondo. Il suo modo di insegnare ha fatto di alcuni praticanti delle autentiche icone, e ha realmente infuocato gli animi di intere folle. E con grande coerenza verso la sua cultura, come tutti i veri maestri indiani fanno Sri K. Pattabhi Jois ha dato il credito di tutti i suoi successi al suo insegnante e alla tradizione da cui derivava. Non ha mai fatto parola del suo personale contributo.

Ed è a questo punto che comincia la confusione. Pattabhi Jois insisteva nel dire che lo yoga è antico, che lui insegnava un buon metodo, e che i suoi studenti dovevano dedicarsi a quel metodo. Che c’è di male? Queste affermazioni esprimono umiltà e devozione, sono adorabili. Soprattutto sulla scena attuale dello yoga, dove tutti sembrano cercare in ogni modo di dare un tocco di novità. Appena qualcuno pensa di aver avuto una buona idea, immediatamente cerca il modo di brandizzarla, metterci il copyright e monetizzarla. Oggi abbiamo tutti i tipi di yoga possibili. Siamo così condizionati dall’aspetto materiale della pratica, che ci sta sfuggendo di vista il suo vero significato. Litighiamo sulle sequenze, che sono un aspetto molto moderno alla luce della storia dello yoga, e dimentichiamo di vedere la civiltà e la cultura che ce lo hanno consegnato.

Mai cambiato una virgola: perché gli insegnanti insistono così tanto sull’aver ricevuto una sequenza precisa dal loro maestro (e il loro maestro dal maestro precedente, e così via)?

Non lo fanno tutti gli insegnanti. Il mio maestro, Sri BNS Iyengar, che ha appena compiuto 90 anni, insegna una sequenza leggermente diversa dell’Ashtanga Vinyasa Yoga. Sa essere molto innovativo quando lavora con praticanti avanzati. Infatti, non esistono al mondo due insegnanti che trasmettano esattamente lo stesso metodo. Non importa quanto ci proviamo, è semplicemente impossibile. Penso che le sequenze fisse abbiano una buona ragione per esistere. Avere una struttura di base in comune è un’idea brillante, ed ha un impatto molto positivo sullo yoga, secondo me. Le sequenze fisse sono come le scale per un musicista. Chiunque abbia studiato le sequenze dell’Ashtanga con Sri K. Pattabhi Jois o Sri BNS Iyengar ha una grazia e una competenza che derivano dalla ripetizione dei movimenti. Penso che Sri K. Pattabhi Jois in questo abbia dato un contributo superiore a quello di qualunque altro maestro. Quando le sequenze sono fisse, la pratica diventa molto più concentrata, elevando esponenzialmente gli standard. Quindi secondo me, gli asana che pratichiamo derivano effettivamente da una lunga tradizione. E la comunità in cui sono nati è davvero molto antica. La loro “formattazione”, però, è un po’ più recente di quello che ci piacerebbe pensare. Lo Yoga esiste da sempre, e ha assunto nel tempo diverse forme.

L’approccio Indiano vs l’approccio Occidentale: amore per la tradizione vs opposizione alla vecchia scuola?

La mia opinione è che tra i due approcci esistano enormi differenze. Noi occidentali ci annoiamo in fretta. Ogni insegnante ha lo stesso problema. Come fare per mantenere vivo l’interesse dei nostri studenti, motivandoli a studiare Yoga in modo sincero? Non esistono metodi giusti o sbagliati. Tutti noi osserviamo le cose attraverso le lenti della nostra mente, e spesso trasferiamo le nostre idee nello yoga, come facciamo con qualsiasi altra cosa. Ecco qual è la differenza principale: un approccio più tradizionale presuppone il rinunciare ai nostri “perché?”, e limitarsi a praticare. Quando la mente si calma, riusciamo a vedere il significato profondo oltre la pratica. Come dice David Williams, “prima della pratica la teoria è inutile, dopo la pratica, la teoria è ovvia”.

“O mio Dio – la mia pratica non è così antica come credevo. E ora che faccio?”

Fate un bel respiro, e superate questo trauma! Noi insegnanti occidentali abbiamo la tendenza a dare valore alle cose in base alla loro antichità. Ci piace sentirci legati a tradizioni e lignaggi d’altri tempi. Storicamente, il Guru Parampara non si è mai basato semplicemente solo sul seguire una particolare sequenza di posizioni. Il contesto e la pratica degli asana sono relativamente moderni, ma la filosofia da cui sono scaturiti è molto antica. Dobbiamo solo identificare quali parti dello yoga siano realmente antiche. L’idea di poter ricavare stabilità emotiva e mentale attraverso la meditazione è molto antica. Gli asana sono un passo necessario alla preparazione della meditazione. L’idea di salutare la divinità del sole attraverso il movimento deriva dai Veda. Siamo in errore solo quando cerchiamo di dire che una particolare sequenza di asana sia antica. Non mi sembra che ci sia poi un grande problema!

Lo Yoga si è evoluto per migliaia di anni e continuerà ad evolversi. Ciò che è immutato nei tempi è il grande esperimento che lo Yoga compie sulla coscienza e sulla libertà dell’uomo. Lo Yoga è una scienza che ha come scopo il raggiungimento del più alto potenziale individuale. I metodi sono mutati molte volte nella storia, a seconda delle circostanze, ma le idee fondamentali sono sempre state coerenti. Gli esercizi fisici sono moderni, ma lo yoga è antico. Anche se lo yoga è diventato esercizio fisico, ancora mantiene parte delle sue antiche radici ed è in grado di creare uno stato mentale di calma e chiarezza, che porta alla meditazione e agli aspetti più interiori dello yoga, per chi decide di esplorarli.

Gli approcci alla tradizione nella comunità Ashtanga

C’è una differenza nell’approccio ai fatti descritti da parte delle scuole di Ashtanga che si sono sviluppate nel tempo, solitamente in relazione a uno specifico insegnante? Io non vedo grandi differenze. Possiamo attaccarci alle fantasie se ci fa piacere, ma i fatti relativi alle sequenze sono abbastanza chiari a questo punto.

Andrew Eppler

Penso sia interessante osservare il background filosofico e l’eredità di Sri  Krishnamacharya in merito agli asana. Per quanto riguarda la parte filosofica, Sri Krishnamacharya era un Iyengar. Apparteneva ai Vaishnavas e praticavano il Bhakti. Seguivano gli insegnamenti di Ramauja e Vishishta Advaita. In quella tradizione, lo Yoga era sempre stato una parte importante. Nell’era attuale, la questione è se un insegnante vuole concentrarsi principalmente sull’insegnamento dei soli asana, o se vuole insegnare filosofia yoga insieme agli asana.

Tutti i filosofi di Mysore si riferiscono ai Bhagavad Gita e agli Yoga Sutra di Patanjali, oltre ad altri testi. Sono testi che appartengono alla tradizione in tutta l’India. E’ importante comprendere che il dibattito filosofico fa parte della tradizione indiana, e che le discussioni filosofiche durano da migliaia di anni. Ma i principali testi a cui si riferiscono e i concetti di base sono gli stessi un po’ ovunque sul territorio.

Quanta innovazione è lecita, e chi decide quando un cambiamento è “buono” o “cattivo”?

I metodi classici e testati nel tempo sono sicuri ed efficaci se insegnati correttamente. Non tutte le nuove, folli e divertenti idee si rivelano utili. Penso che lo yoga si stia evolvendo in modo rapido a livello fisico in occidente, e che gli standard si stiano elevando progressivamente da questo punto di vista. Lo yoga fisico è persino diventato una scienza, sia in India che in Occidente, ed effettivamente può curare una serie di disturbi fisici. E’ diventato più facile da approcciare, e più facile da trovare. E questa è una cosa bellissima. Per costruire una pratica intensa, sostenuta, stabile nel tempo, continuo a pensare che l’Ashtanga Vinyasa sia un metodo imbattibile.

Sabine Nunius

Quindi chi decide quando un cambiamento è “buono”? Semplice: voi. Tutti noi. Ma la noia non è una buona ragione per cambiare cose che sono state messe insieme con cura e attenzione. Dobbiamo diventare tutti autonomi nella nostra pratica. L’intenzione è tutto. Quando andiamo da un insegnante, siamo “obbligati” a seguire il suo insegnamento. Quando siamo soli, facciamo quello che ci pare. Il risultato racconta la storia delle nostre intenzioni e ci rivela se il nostro approccio è corretto. Personalmente ritengo che i praticanti più seri siano attratti dalle sequenze fisse, che li portano più facilmente ad uno stato meditativo. Lo Yoga diventa sacro e devozionale attraverso la ripetizione.

L’Ashtanga Vinyasa Yoga è una pratica molto precisa. Possiamo alterarla, ma ciò che conta sono le ragioni che ci spingono a farlo. Lo facciamo a causa dei nostri limiti fisici? O semplicemente per renderla più accessibile e per guarire parti del corpo che, diversamente, potremmo danneggiare? O lo facciamo per renderla graficamente più bella, per attirare gli sguardi di chi ci osserva? Sono le intenzioni a fare la differenza. Quando gli asana sono troppo difficili per noi, ci affidiamo alla nostra saggezza e alla tecnica del nostro insegnante per affrontare la problematica. Senza un interesse sincero, non esiste lo yoga, ma non dobbiamo dimenticare il buon senso! Se crediamo in un metodo al punto da praticarlo ogni giorno per anni, allora probabilmente quel metodo contiene qualcosa di valido. Ma se siamo ossessionati dalla nostra apparenza e dall’approvazione degli altri, stiamo facendo una digressione, ed esprimiamo vanità e instabilità.

Direi che il Vinyasa Flow è oggi la forma di yoga più popolare al mondo. E’ molto più difficile insegnare yoga senza una struttura da seguire. Nelle mani di un insegnante capace, con una profonda conoscenza fisiologica e l’esperienza necessaria a mettere insieme le cose in modo intelligente e accessibile, può essere una pratica assolutamente eccezionale. Quando osservo le persone che praticano in una shala, sono evidenti i praticanti che hanno raffinato la tecnica fino ad integrarla alla perfezione con il funzionamento del sistema nervoso. Questo è il tratto distintivo della tecnica dell’Ashtanga Vinyasa. Quel livello di perfezione non può essere raggiunto solo giocando con gli asana, per quanto si sia in possesso di doti atletiche.

Il cambiamento oltre la sequenza degli asana. Perché non praticare con la musica?

In questo ambito non c’è giusto o sbagliato. La musica ha una connessione antica con lo yoga. Krishnamacharya vantava un legame con Nathamuni, che era un Nada Yogi. Nada è lo yoga del suono. Ho sperimentato lezioni di yoga in cui la musica selezionata era in grado di condurre alla concentrazione, oltre che essere in perfetta sincronia con il flusso di asana. Personalmente, preferisco interludi di silenzio che rendono l’intervento della musica più potente. D’altro canto, trovo che la musica pop sia un elemento di distrazione. E’ un genere musicale che preferisco ascoltare in altri momenti. Mi piace il suono del mio respiro. Non penso ci sia nulla di sbagliato nel praticare con la musica, dipende come sempre dalle intenzioni. Quando sono solo, preferisco il silenzio. Detto questo, ascoltare della musica leggera può essere un modo per entrare in contatto più facilmente con le sensazioni che lo yoga può produrre nel nostro corpo. Se invece preferiamo acquietare le nostre menti e sintonizzarci sul respiro, è meglio usare una sequenza fissa. E al momento non ho trovato una struttura migliore dell’Ashtanga Vinyasa Yoga. Se ne avessi trovata una, avrei già iniziato a praticarla!

La mia pratica personale: un esperimento libero, o un’esperienza radicata nella tradizione?

Siamo noi a decidere quanta libertà esercitare nel nostro spazio. Direi che chiunque pratichi qualsiasi tipo di yoga, animato da motivazioni mentali e/o emotive o dal desiderio di aumentare la propria capacità di concentrazione, sta praticando in modo autentico. Questo include anche motivazioni di benessere e salute, ma se essere in forma è il nostro unico obiettivo, allora stiamo solo facendo esercizio fisico.

E’ giusto innovare? Tuti noi siamo costretti all’innovazione all’interno delle sequenze, semplicemente perché gli asana sono difficili e spesso non riusciamo ad eseguirli. Le innovazioni che funzionano per una persona possono non funzionare per qualcun altro. Ed è qui che entra in campo la capacità di insegnare. Vedo le sequenze fisse come qualcosa di positivo. Creano un terreno comune e una base su cui lavorare.

I problemi nascono solo quando diventiamo ossessivi e superstiziosi in merito a queste sequenze. Nella mia personale opinione, pensare che queste sequenze di asana siano un’antica via per l’illuminazione, e che cambiarle significhi mancare di rispetto a qualcuno, è un pensiero folle. Queste sequenze non sono più antiche di Sri K. Pattabhi Jois, per quanto la mia ricerca abbia avuto modo di verificare. A Mysore mi è stato detto che le quattro serie originali tramandate a Sri K. Pattabhi Jois derivavano dal sillabario del suo corso quadriennale di Yoga al Sanskrit College del Maharaja. Provenivano da una tradizione innovativa e da un corpo di pratiche di asana molto più vasto. Le sequenze evolutive di asana hanno il nome di Vinyasa Krama. Le serie dell’Ashtanga sono molto dinamiche, e racchiudono una intensa esplorazione della pratica degli asana. Ecco il motivo per cui Sri K. Pattabhi Jois chiamò la sua scuola Ashtanga Yoga RESEARCH Institute!

Creare una pratica individuale

Ognuno di noi può fare – e farà – ciò che meglio crede. Penso che il consiglio migliore sia semplicemente trovare un insegnante che ci piace e con cui siamo in sintonia. Dobbiamo ascoltare il nostro corpo ed evitare azioni che possano provocare dolore, indipendentemente da qualsiasi cosa ci dicano. Dobbiamo sperimentare, osservare cosa ci fa stare bene e ci porta buoni risultati. Dobbiamo fidarci della nostra saggezza interiore e sviluppare una pratica personale. Disciplina, devozione e una pratica personale sono i requisiti necessari per l’esplorazione dello Yoga. Possiamo girarci intorno per un po’, ma alla fine dobbiamo trovare stabilità in un metodo e praticare seriamente se vogliamo ottenere qualcosa di autentico.

Alla fine, possiamo abitare la tradizione e innovare al suo interno, come hanno sempre fatto tutti gli insegnanti di Yoga. Non andiamo in confusione e soprattutto non accusiamoci l’un altro per piccoli cambiamenti o differenze nell’esecuzione degli asana. Non dimentichiamo quella ramo dello Yoga che ci invita ad essere delle brave persone. Non importa quale approccio scegliamo, solo il tempo ci dirà se abbiamo avuto ragione. Abbiamo bisogno di lavorare sodo e intelligentemente per arrivare alla nostra mèta. Chi s’innamora dello Yoga solitamente gli resta fedele. Ma è anche difficile amare qualcosa se ci fa del male… l’innovazione è inevitabile.

backstage dal documentario “Mysore Yoga Traditions”

Molte delle opinioni espresse in questo post, soprattutto quelle relative alla tradizione Yoga di Mysore, derivano da conversazioni dirette con studiosi, anziani, yogi e leader spirituali di Mysore. “Mysore Yoga Traditions” diventerà un documentario dedicato alla comunità intellettuale di Mysore. Ci stiamo lavorando con la massima velocità e speriamo di potervelo consegnare entro la primavera del 2017. Continuate a seguirci!

Andrew Eppler e Sabine Nunius

Traduzione e commenti di Francesca d’Errico

Gli Asana sono preghiere? La parola a David Garrigues

Mi interessa la recente evoluzione di David Garrigues e traduco volentieri i suoi articoli sempre molto interessanti sia per gli spunti tecnici di esecuzione degli asana, sia per gli approfondimenti spirituali sulla pratica. Come molti di voi sanno, David è un insegnante certificato da Guruji (Sri K. Pattabhi Jois) all’insegnamento dell’Ashtanga. E’ un prolifico autore e ci ha spesso regalato interessanti video sui diversi aspetti della pratica.
Il post di oggi affronta un aspetto spesso trascurato della pratica, ma che con grande piacere vedo negli ultimi mesi tornare in auge: quello spirituale. Tra l’altro proprio ieri leggevo un articolo che, con profonda ignoranza, associava la pratica dello yoga alle correnti di neospiritualismo che si sono affermate negli ultimi decenni, e con cui lo Yoga, pratica millenaria, non ha nulla a che fare quando praticato in modo autentico. Certo si può dire che con lo Yoga si “prega” con il corpo. Ma in qualsiasi fede, anticamente, il corpo aveva una funzione sacra che partecipava anche dei riti religiosi (e a questo proposito segnalo il nuovo progetto fotografico di Alessandro Sigismondi, The Sacred Body). Pregare anche attraverso il corpo non è una pratica “profana”, anzi al contrario, rivela una sacralità che trascende qualsiasi credo.
B.K.S. Iyengar affermava: “gli Asana sono le mie preghiere”. In che senso possiamo interpretare questa frase? E quali sono le radici spirituali della nostra pratica? David ci offre la sua visione, e ci presenta le difficoltà che spesso incontra il praticante occidentale. Buona lettura e, come sempre, attendo i vostri commenti!

D. Garrigues nella sua Shala

“Diciamo la verità: per molti di noi non è facile ammettere che, quando pratichiamo i Saluti al Sole, stiamo di fatto pregando Dio, proprio come fa un cristiano che si inginocchia in chiesa o un musulmano che si prostra in una moschea.
Per molti di noi non è facile descrivere la pratica come una preghiera, anche se è proprio attraverso la pratica che impariamo, giorno dopo giorno, ad abbandonare il nostro ego e i nostri desideri. E’ curioso notare come la nostra struttura culturale, impregnata di scetticismo e razionalità, ci renda difficile assegnare alla nostra pratica il suo valore più alto. In tanti si sentirebbero sciocchi ad ammettere che, quando ci muoviamo attraverso i Saluti al Sole, eseguiamo un atto di comunione con Surya, anticamente considerata una divinità solare, simbolo della luce della consapevolezza spirituale. Ma è importante ricordare le qualità mentali di intuizione associate a Surya, e il fatto che questo gesto simbolico, proprio all’inizio della nostra pratica, rappresenta un sostegno nell’allontanare la nostra attenzione dal regno fisico, avvicinandola a quello spirituale. Surya è inoltre associato alla guarigione, quindi nel praticare Surya Namaskara ci ricordiamo delle potenzialità curative della pratica quotidiana. Torniamo ogni giorno all’aspetto profondo della pratica, riconoscendo che ci aiuta ad avvicinarci a quella fonte spirituale, più grande di noi, che muove ogni cosa secondo un suo disegno, una forza più potente del nostro ego, la somma totale di tutti i nostri desideri, e di tutte le nostre volontà. Mi ricordo che il mio Maestro, Sri K. Pattabhi Jois, spesso diceva durante le sue conferenze che iniziare la pratica con Surya Namaskara era un atto di devozione, non un riscaldamento. Il nostro approccio ai Saluti al Sole non è lo stesso che avremmo facendo un giro di corsa per scaldarci prima di una partita di basket. E questo perché, a differenza del basket o di altri sport, il significato della pratica degli asana si estende al di là dell’attività fisica. E noi occidentali, che pratichiamo uno yoga fisico (Hatha), e che cresciamo associando qualsiasi attività fisica con lo sport, la competizione e la vittoria, dobbiamo imparare a dirigere lo sguardo con gentilezza e costanza al di là del materiale. E’ sorprendente ma vero affermare che dobbiamo compiere uno sforzo in più per dirigere la nostra consapevolezza verso la visione completa di ciò che può offrirci la pratica dello Yoga.

Naturalmente, quando praticata in modo adeguato e sicuro, la pratica degli asana ci darà anche benefici fisici, ma fermarci qui con il pensiero e l’intenzione ci porterebbe a non vedere i doni più grandi dello Yoga. In virtù dell’impostazione delle nostre vite, ci è più comodo restare fermi al tangibile mondo materiale. Questo ci fa sentire spesso a disagio con tutto ciò che è intangibile, sottile, invisibile e spirituale – concetti che sono alla base della pratica Yoga.
E per questo spesso – e inconsapevolmente – tentiamo di “divorziare” lo yoga dalla sua dimensione spirituale, mantenendo le nostre menti e la nostra pratica radicate nel mondo fisico, atletico e materiale. Sembriamo impegnati in una danza complessa, interminabile, a volte ridicola, altre volte triste e dolorosa, intorno al concetto di Dio, per evitare di ammettere che la pratica è profondamente immersa nella spiritualità e nella preghiera. Ci sforziamo di resistere alla realtà dei fatti, ovvero che lo Yoga tratta principalmente di concetti immateriali, che non sempre vanno d’accordo con il nostro mondo razionale, sicuro e ordinario. Cerchiamo addirittura di non pensare che l’obiettivo della pratica è costruire la nostra fede in una realtà non tangibile, invisibile. Ci sentiamo sciocchi e vulnerabili nell’ammettere che dedichiamo una gran quantità della nostra energia alla ricerca del sottile mondo della spiritualità. Proviamo sentimenti contrastanti rispetto agli aspetti iniziatici della pratica, che ci porta a conoscere questo mondo nuovo e segreto, più autentico della realtà visibile e tangibile, che siamo abituati a considerare l’unica degna di nota.

Ci spaventa riconoscere che la pratica rafforza la nostra fiducia nella connessione con una fonte caritatevole, intelligente, unificante, che va ben oltre la nostra capacità di controllare o comprendere ogni cosa con la ragione. Eppure, dovremmo spaventarci invece nel pensare che un tempo provare una simile fiducia ci era impossibile. Quando impariamo ad avere fiducia in questa fonte più alta, che sa vedere oltre la fallibilità del nostro credo egoriferito, compiamo un passo fondamentale verso la rinuncia alla sofferenza. Chiudiamo il cerchio e ci chiediamo: come facevamo a credere di essere tanto razionali, quando pensavamo che non ci fosse un significato più alto, un’intelligenza superiore, una connessione più autentica, un ordine e una trama per le nostre vite e per il mondo in cui viviamo? E’ triste ma vero affermare che oggi riconoscere la prospettiva più difficile da assumere sia quella che riconosce la vera natura dello yoga. Ogni tecnica yogica è progettata per connetterci consapevolmente alla fonte sacra e invisibile della vita”. – David Garrigues, 2017

Traduzione e commenti, Francesca d’Errico

Aprite quella porta: il Focus del Mese Jivamukti

David Life e Sharon Gannon

Oggi riflettevo sull’importanza che ha, al giorno d’oggi, capire davvero la distinzione tra semplice attività fisica e Asana Yoga. Cercavo un modo per spiegare come, attraverso la pratica, non ci limitiamo ad assumere complesse posizioni e come, addirittura, non sia necessario farlo per godere i benefici della pratica. Per quanto sia gradevole e di sicura soddisfazione riuscire ad entrare in Omkrasana, o bilanciarsi sulle mani, e per quanto sia vero che, se il nostro corpo è allenato e in salute, una pratica troppo semplice possa sembrare poco produttiva, lo Yoga va ben oltre il regno fisico. Poi mi sono ricordata che è il primo aprile, e che sicuramente David Life aveva pubblicato il Focus del Mese. E come spesso avviene per la meravigliosa sincronicità che caratterizza il mondo interiore di chi pratica, il suo scritto mi è sembrato il modo più bello per descrivere il concetto che stavo cercando di elaborare. Eccolo quindi a voi, tradotto in italiano. Buona lettura!

“Non sono le azioni a mettere in moto la Natura (Prakti). Esse si limitano a rimuovere gli ostacoli, come un contadino rimuove le barriere che impediscono all’acqua di fluire nei campi. Quando rimuoviamo gli ostacoli con l’azione, la Natura penetra liberamente”.“Nimittam aprayojakam prakrtinam varana-bedhas tu tatah ksetrikavat” – YS IV.3

Molti pensano che praticare Yoga significhi acquisire qualcosa, come la capacità di eseguire un asana. Ciò che facciamo praticando, in realtà, è semplicemente rimuovere l’ostacolo che ci impedisce di arrivare all’obiettivo. Ci liberiamo da tutti gli eccessi. Ad impedire il flusso dell’energia o prana, è il pensiero restrittivo, che limita le nostre possibilità. Dobbiamo invece aprire le porte del pensiero. Lo Yogi si interroga dunque sul perché queste porte sono state chiuse.

Molto spesso la pratica degli asana è associata al corpo fisico, che in sanscrito si chiama Anamaya Kosha, il corpo del nutrimento. Kosha significa strato o copertura. Ma cosa muove il corpo? Potremmo pensare “beh, sono io a muoverlo”. In realtà, è la nostra vitalità a farlo. Pranamaya Kosha è il corpo vitale in cui fluisce il prana, attraverso canali energetici chiamati nadi. Non sono visibili, ma esistono e possono essere percepiti. Ci accorgiamo infatti di quando siamo pieni di energia, e quando invece ne siamo privi. I Kosha sono strati che coprono la nostra vera essenza. Chiamiamola come ci pare – spirito, creazione divina, apparenza magica, libera, felice, senza limiti. E’ questa la nostra vera natura.

Siamo dotati di cinque Kosha, o corpi. Anch’essi possono essere invisibili agli occhi, eppure interagiscono tra loro. Nella pratica degli asana, possiamo avvertire emozioni, pensieri, sensazioni piacevoli e sicuramente sensazioni fisiche. Ma alla fine, stiamo cercando attraverso queste posture di influenzare la nostra vitalità, il nostro flusso energetico. Vogliamo rimuovere le barriere che impediscono all’energia di muoversi dentro di noi in modo benefico.

Ksetrika significa contadino in sanscrito. In India, il riso viene coltivato nelle risaie. Funziona così: il contadino costruisce un piccolo cumulo di terra attorno alla risaia per proteggerla dall’acqua corrente. Un contadino esperto sa esattamente quando rimuovere il cumulo per consentire all’acqua di inondare la risaia al momento giusto. Sa per quanto tempo la risaia debba restare piena d’acqua, e quando è necessario fermare il flusso. Il solo fatto di avere un buon terreno, dei buoni semi e acqua a disposizione, non significa che riusciremo ad ottenere un buon raccolto. E’ necessario applicare l’intelligenza per capire di cosa ha bisogno il riso per crescere. Occorre la saggezza per scegliere il momento giusto della stagione, e così via. Tutti questi elementi lavorano insieme per sostenere la crescita. E’ di questo che parla Patanjali negli Yoga Sutra.

Ciò che acquisiamo attraverso la pratica Yoga è una speciale intelligenza che ci permette di aprire la porta e lasciare che il prana fluisca laddove è necessario. Questa intelligenza arriva quando sentiamo i nostri limiti e cerchiamo di articolare il corpo fisico attraverso la nostra energia. Vogliamo eseguire un asana, ma per qualche ragione non riusciamo a portare l’energia di cui abbiamo bisogno, ad esempio, lungo la nostra gamba. Le ginocchia tremano e i piedi non sono stabili. Ma con la pratica e la costanza, gradualmente impariamo a dirigere l’energia in modo che fluisca liberamente dove è necessario. Impariamo ad aprire e chiudere le porte, come il buon contadino.

Più che assumere una posizione fisica, il nostro compito è sentirci liberi all’interno di essa. Se studiamo il linguaggio del corpo, possiamo riconoscere nei nostri gesti l’arroganza, la diffidenza o la paura. Siamo preoccupati per noi stessi e i nostri asana? Ci siamo dimenticati perché li stiamo praticando? Una bassa autostima si esprime nell’incapacità del corpo di muoversi liberamente, con gioia. E’ il risultato dei pensieri che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri, delle azioni egoistiche commesse in passato. E’ questo a chiudere le porte al prana che promuove la nostra crescita. Se le azioni prive di compassione chiudono le porte della nostra esistenza, dobbiamo cercare di compierne altre, compassionevoli e virtuose.

Non abbiamo niente da perdere se decidiamo di regalare agli altri la nostra gentilezza. Anzi, farlo ci riempirà di vitalità. A tutti è capitato di sentirsi privi di energia, di sentire di non avere più nulla da dare, eppure proprio in quell momento qualcuno a noi vicino chiede la nostra comprensione: ha davvero bisogno del nostro supporto, e noi lo amiamo così tanto che la nostra stanchezza scompare. Siamo lì per lui, ci identifichiamo in lui, lo amiamo. Vogliamo quella libertà completa che, dovunque siamo, ci fa sentire vivi: una libertà che nella sua estrema semplicità sorprende gli altri.

–        David Life, 2017

Spunti per l’insegnamento:

  • Spiegate come il pranayama sia in grado di limitare e/o liberare la forza vitale.
  • Descrivete le differenze del flusso energetico percepibili quando manteniamo un asana, e quando ne usciamo.
  • Il modello dei Kosha aiuta lo yogi a comprendere la connessione tra cuore e mente, energia e pensiero, pensiero e movimento, tristezza e malattia, e viceversa.
  • Spiegate come sia possibile controllare il flusso del prana attraverso i bandha o con la respirazione sama vritti a narici alternate.

Traduzione e commenti – Francesca d’Errico

Yoga Korunta, la leggenda rivelata

Da alcuni giorni su facebook gira un articolo che dipinge l’Ashtanga Yoga come una semplice forma di “ginnastica”. Per mettere le cose nella giusta prospettiva, traduco qui di seguito un post molto interessante, scritto da James Russel nel 2015, che potete trovare nella sua versione originale cliccando qui.
Nel mondo dell’Ashtanga Yoga gira una leggenda. Forse molti di voi l’hanno sentita:
“A metà degli anni ’20, il grande maestro Sri T. Krishnamacharya, accompagnato dal suo giovane studente Sri K. Pattabhi Jois, si recò alla biblioteca di Calcutta. Erano in cerca di un oscuro testo yogico perduto, il “Korunta”. Trovarono questo testo, autografato da un saggio di nome Vamana Rishi, inciso su foglie di banano e di palma (cosa abbastanza comune negli antichi testi yogici). I segni sulle foglie descrivevano in dettaglio un metodo di Hatha Yoga vigoroso e dinamico.
Il metodo era caratterizzato da diverse sequenze (krama) di asana (posture), collegate tra loro da movimenti, respirazione, bandha e drishti. Questo modo di collegare il movimento al respiro è noto come vinyasa. Vinyasa significa “posizionare in modo speciale” ed è un termine che viene utilizzato anche nelle arti indiane classiche come la musica e la danza.
Si dice che le foglie del Korunta fossero rilegate insieme ad una antica edizione degli Yoga Sutra di Patanjali (un trattato sulla tecnica psicologica dello yoga, antico di ben 2000 anni). Questo sistema è noto come Ashtanga Yoga (lo Yoga degli otto rami). Secondo Gregor Maehle i due metodi andavano quindi appresi e studiati insieme. Da questo nacque il nome di “Ashtanga Vinyasa”.
Krishanamacharya decifrò il testo e insegnò il metodo a Pattabhi Jois. La parte finale della storia narra che il manoscritto del Korunta si disintegrò o fu mangiato dagli insetti (cosa abbastanza plausibile dato il clima indiano), e non fu mai più visto da nessuno se non da Krishnamacharya e Pattabhi Jois. Si dice che fosse in copia unica.”
Pattabhi Jois dedicò la sua vita alla diffusione dell’Ashtanga Vinyasa e nel 1970 trasmise questo metodo ai primi studenti occidentali: David Williams, Nancy Gilgoff e David Swenson. La pratica prese piede in occidente, dove divenne popolare anche tra le celebrità, come Madonna, Gwyneth Paltrow e Sting. Oggi l’Ashtanga Vinyasa è uno dei metodi di yoga più famosi al mondo.
E’ sulla base del Korunta che l’Ashtanga Vinyasa viene tramandato come una pratica antica, che trova le sue origini millenni fa. Molti praticanti citano anche l’antico sistema di Patanjali – Ashtanga, appunto – come fonte che legittima e aggiunge credibilità all’autorevolezza di questa pratica: “Al cuore dell’Ashtanga si trova il Vinyasa. L’essenza del Vinyasa è il sincronismo tra respiro e movimento “. (John Scott, DVD, 2002)
Tuttavia, nel testo di Patanjali non troviamo menzione di Vinyasa, ed un solo verso è dedicato agli asana: “sthirra, sukhasanam – una postura comoda e salda” (PYS, 1:2). L’Ashtanga Yoga di Patanjali è essenzialmente meditativo, è un metodo che ci consente progressivamente di controllare la mente, ed è chiaramente molto diverso da moderno metodo dell’Ashtanga Vinyasa Yoga.
James Russell, autore dell’articolo

Alla ricerca del Korunta

Fin dall’inizio, la leggenda del Korunta mi ha affascinato. Rendeva le serie dell’Ashtanga misteriose, e impregnate di un’autorevolezza antica. Avevo letto molto sulla storia del Korunta, e mi chiedevo se vi fosse prova della sua autenticità. Molti studenti di Krishnamacharya lo nominavano, ma era impossibile trovarne una pubblicazione, né riuscivo a trovare nulla su Vamana Rishi. Secondo la mitologia Induista, Vamana è il nome del quinto avatar di Vishnu ed è un nome indiano piuttosto comuno. Il titolo di Rishi viene solitamente dato ai saggi, e deriva dalla radice “Drsh”, che significa “vedere” (proprio come in Drishti).
La metodologia Vinyasa e gli asana descritti da Krishnamacharya nel libro “Yoga Makaranda” (1934) assomigliano moltissimo alla prima serie dell’Ashtanga VInyasa e sembrano formare un sistema più vasto, che alcuni dei suoi studenti chiamarono “Vinyasa Krama”. Tuttavia, l’estesa bibliografia del Makaranda non include il Korunta.
Nel libro di Pattabhi Jois “Yoga Mala” (1962), primo libro dedicato all’Ashtanga Vinyasa, non si parla di Korunta. Tuttavia, Jois ci offre una citazione forse tratta proprio da questo antico testo e autografata Vamana Rishi: “Vina vinyasa yogena asanadin na karayet – Oh Yogi, non praticare asana senza vinyasa”.
A parte questa citazione, non trovavo altri testi tratti dal Korunta. Né riuscivo a trovare nulla di precedente al 1934 simile allo stile praticato e insegnato da Krishnamacharya e da Pattabhi Jois. Infatti, molti degli asana delle serie di Ashtanga VInyasa non sono reperibili nei testi tradizionali dell’Hatha Yoga. Il Korunta e le origini dell’Ashtanga Vinyasa sembravano restare avvolte nel mistero.
 
La svolta
Poi, nel 2011, studiando gli Hatha Yoga Pradipika (testo del 14esimo secolo sull’Hatha Yoga), un nome balzò alla mia attenzione. Nel primo capitolo dei Pradipika, l’autore, Svatmarama, elenca la tradizione degli yogi (HYP 1:5.9). Il 13esimo nome della lista è:
“Kuarantaka: conosciuto anche come Karandaka, purantaka e Kurantaka”
Kurantaka – Kuranta – Kurunta
Un nome vagamente simile a Korunta. Interessante, certo, ma non molto significativo. Tuttavia, poche settimane dopo, ricevetti dall’India una traduzione di una versione più lunga dei Pradipika, fino ad allora non disponibile (Hathapradipika 10 Chapters, del 2006). Il testo si dilungava maggiormente sulla tradizione dell’Hatha Yoga e di nuovo menzionava Kurantaka. Appresi con stupore che uno yogi di nome Kuarantaka aveva scritto un testo dal nome: “Kapala Kuarantaka Yogabhyasasa Paddathi”, che può essere tradotto più o meno come “Il metodo Yoga di Kurantaka Kapala” (Kapala significa teschio o coppa a forma di teschio, e immagino fosse un titolo dato allo Yogi Kuruntaka per indicare la sua affiliazione ai Kapilika, una setta dello Shivaismo che indossa i teschi).
Si diceva che il testo contenesse 112 posture: questo catturò il mio interesse, poiché il numero era molto vicino agli asana della prima e della seconda serie (in totale 106, come nel libro di David Swenson del 1999). E’ significativo che i testi più antichi relativi allo yoga descrivano solo una manciata di asana. Che un manoscritto precedente al 18esimo secolo ne riportasse così tante era davvero senza precedenti.
Il titolo completo del testo era difficile: soprattutto per gli occidentali. Questo rendeva logica l’abbreviazione di Krishnamacharya e Jois: Kuaranta o Korunta.
In seguito a ulteriori ricerche, la mia teoria trovò conferma nella biografia di Krishnamacharaya realizzata da A.G. Mohan, che cita: “Krishnamacharya nominò lo Yoga Kuranta in diverse occasioni durante i miei studi. Tale Yoga Kuranta era stato scritto da uno yogi di nome Korantaka, nominato negli Hatha Yoga Pradipika (1.6)” (A.G. Mohan, 2010).
Contattai il Lonavla Institute in India, che si era occupato della traduzione e della pubblicazione della versione più lunga degli Hatha Yoga Pradipika, e chiesi informazioni sul testo realizzato da Kurantaka. La risposta degli esperti mi affascinò: “Abbiamo copiato il manoscritto Kapala Kurantaka dalla biblioteca Bharat Itihas Samshodhan Mandal di Pune. E’ un testo di Hatha Yoga molto diverso dagli altri, perché descrive pratiche vigorose e rigorose. E’ possibile che questa tradizione provenga dall’India meridionale”.
Quindi, un testo firmato da Yogi Kurantaka esisteva, ed era noto a studiosi di sanscrito indiani. Appresi in seguito che veniva chiamato solitamente Kapala Kurantaka.
“Pratiche vigorose e rigorose” ben si addice alla natura dell’Ashtanga Vinyasa. Krishnamacharya era nato proprio nell’India meridionale. Si trattava forse dello stesso testo descritto nella leggenda del Korunta?
Spiegai la mia teoria al Dr. Gharote, presidente del Lonavla Institute, ed egli rispose: “E’ possibile dire che il testo noto come “Korunta” sia in realtà il “Kapala Kuaranta Hathabhyasa Paddhati”, perché fino ad ora non abbiamo trovato altri testi che riportano il termine “Kurantaka”. Quindi fino a prova contraria, dobbiamo accettare che il “Korunta” sia di fatto il “Kapala Kuaranta Hathabhyasa Paddhati”.
Sebbene queste affermazioni non fossero conclusive, erano certamente incoraggianti e aperte all’esistenza del Korunta, sebbene con un titolo diverso e composto da un altro autore.
Riuscii ad ottenere una lista dei nomi in sanscrito di tutti gli asana contenuti nel Kapala Kuarantaka, e utilizzando l'”Enciclopedia degli Asana Tradizionali” del Lonavla Institute (2006) insieme al manuale di David Swenson, individuai oltre 51 asana molto simili se non identiche alle posture della prima e della seconda serie dell’Ashtanga Vinyasa. Forse ne esistono molte altre ma non sono in grado di identificarle, perché la nomenclatura dell’India meridionale di oggi è molto diversa. In più, ho trovato almeno due asana che appartengono alla 3a e alla 4a serie dell’Ashtanga Vinyasa. Molto significativa è anche l’identificazione dell’86esimo asana della lista:
 
Dehallyunllaghen – “Mantenere le mani sul pavimento e saltare avanti e indietro attraverso le braccia” (KKH – 86)
 
La pratica di far passare le gambe attraverso le braccia è una componente importante dell’Ashtanga Vinyasa, è la tecnica che collega gli asana tra loro. E’ simile alla pratica di Tolasana, in cui si sollevano le gambe, nota anche come Pluthi. La pratica di far passare le gambe attraverso le braccia con un salto è praticamente una caratteristica unica dell’Ashtanga Vinyasa, ed è raramente presente in altre tradizioni.
Il Dr Gharote ritiene che il Kapala Koruntaka sia quanto meno precedente al 14esimo secolo. E’ un aspetto molto significativo, perché sono pochissimi i testi così antichi che enumerano così tanti asana. Il Lonavla Institute intende pubblicare in futuro questo testo: tuttavia le limitazioni sono molte, poiché al momento esiste una sola copia del manoscritto: per pubblicare un’edizione critica avrebbero bisogno di almeno 3 manoscritti per paragonarli tra loro. Inoltre, il manoscritto di cui sono in possesso non è completo. Alcuni asana sono descritti nell’esecuzione, ma privi di nome.
Il Dr Gharote, tuttavia, è ottimista sulla possibilità di recuperare altre copie di questo manoscritto, per poterlo pubblicare in futuro. Speriamo che questo testo a lungo cercato venga tradotto e pubblicato in inglese, per consentire a tutti noi di studiarlo.
Conclusione
E’ ben più che probabile che l’Ashtanga Vinyasa derivi in qualche modo dagli insegnamenti riportati nel testo universalmente noto come Korunta. Sono convinto che questo testo esista, e che sia conosciuto a studiosi indiani sotto il nome di “Kapala Kurantaka”. Il testo è firmato da Yogi Kuruntaka, ed è stato composto in era antecedente al 14esimo secolo. Il suo nome completo è “Kapala Kurantaka Yogabhyasasa Paddathi”.
Krishnamacharya era un forbito studioso di sanscrito, e K.V. Iyer, nell’introduzione al suo Yoga Makaranda del 1934, cita la visita che Krishnamacharya e i suoi allievi fecero al Lonavla Institute. E’ quindi altamente probabile che egli conoscesse il Kapala Kurantaka.
Detto questo, penso che vi siano delle differenze di esecuzione tra il Kapala Kurantaka e l’Ashtanga Vinyasa conosciuto oggi, e completo di Vinyasa, Bandha, Drishti etc. Le posizioni nell’antico testo non sembrano elencate in un ordine particolare. Alcuni asana sono simili o identici, ma sono presenti anche pratiche che hanno poco in comune con quelle odierne. Ad esempio, nel testo si parla di posizione eseguite appesi ad una corda (ed è curioso notare che la parola Korunta può essere tradotta in “marionetta”, quindi “appeso ad un filo”). Può essere che in questo testo si trovi anche l’origine del metodo di B.K.S. Iyengar, che si sviluppò con l’uso di corde e altri attrezzi.
L’approccio agli asana attraverso il vinyasa di cui Krishnamacharya scrisse nel 1934, e che insegnò ai suoi studenti, fu sicuramente influenzato dal Kapala Kurantaka e da altre tradizioni, pratiche e testi dei maestri di Krishnamacharya, come Ramamohana. Non sappiamo se Pattabhi Jois abbia visitato la biblioteca di Calcutta insieme a Krishnamacharya, ed abbia letto il testo in prima persona, ma è evidente che il metodo dei vinyasa fu una parte integrante dei suoi insegnamenti, che in seguito presero il nome di Ashtanga Vinyasa.
Devo ammettere che le mie conclusioni mi sorprendono. Ero scettico sull’esistenza del Korunta, e pensavo fosse una leggenda della comunità Ashtangi: devo ricredermi, anche se non è davvero fondamentale che questo testo esista, per dare ancora maggiore credibilità ad una tradizione che si è dimostrata efficace sotto mille aspetti. Tuttavia, spero che gli studi condotti finora possano servire come spunto per l’approfondimento di una ricerca che può portare benefici a tutta la comunità yogica.”
© James Russell 2015Per maggiori informazioni sul Lonlava Institute:
www.lonavalayoga.org